La sfida dell’empatia globale
di Laura Boella
L’umanità sul filo del rasoio
Empatia oggi è una parola chiave. Ne parlano tutti, da Obama al Dalai Lama, e alcuni la considerano la nuova «rivoluzione». Innegabile è il bisogno di empatia nel mondo attuale, che peraltro – occorre dirlo subito – rende molto difficile realizzarla. Come si manifesta il bisogno di empatia? Nella necessità di comunione, condivisione, cura reciproca che emerge in occasione di catastrofi naturali, di attentati terroristici e di nuove forme di guerra, le cui vittime non si definiscono più come nemici, ma come obiettivi civili o «danni collaterali», corpi anonimi, accomunati da una condizione di fragilità e vulnerabilità che sarebbe riduttivo considerare solo fisica o economica, perché è fondamentalmente sociale e politica.
La vulnerabilità propria della collocazione sociale e territoriale di sempre più numerose fasce di popolazione in movimento verso migliori occasioni di vita e di lavoro si lega peraltro all’ambito più ampio del vivente, all’ambiente naturale, animale e vegetale, esposto al degrado e minacciato nella sua sopravvivenza, e che a sua volta minaccia la sopravvivenza di numerose popolazioni in vaste aree del pianeta.
Il bisogno di empatia si manifesta anche nella sensazione diffusa di essere in una fase di crisi economica, finanziaria, ecologica che mette di fronte a opzioni ultimative, all’urgenza di un’inversione di marcia, di un mutamento del nostro rapporto con le persone e con l’ambiente. Nonostante il ricorrente discorso di una «crisi permanente», l’etimologia di crisi e catastrofe richiama il cambiamento di rotta, la definizione di un processo in senso negativo o positivo.
L’empatia è stata oggetto di studio da parte dei filosofi dalla fine del Settecento e da più di un decennio è al centro dell’interesse dei neuroscienziati. Il fatto che abbia assunto un rilievo notevole nel dibattito pubblico costituisce un elemento di forte novità . L’umanità oggi si sente «sul filo del rasoio» e aspetti centrali della crisi contemporanea vengono nominati facendo riferimento non solo ai processi macroeconomici o alla tecnologia, ma anche, con sempre maggiore frequenza, alla costellazione di vissuti che ruotano intorno all’empatia e che comprendono numerose forme di legami fondamentali per la convivenza: l’amore, l’amicizia, la cura, la compassione, l’ospitalità , la solidarietà . La catastrofe, come dimostrano ampiamente la letteratura e il cinema, o anche solo il suo rischio incombente, è un potente segnale di allarme, sveglia dal torpore, avverte che le cose non saranno più come prima, può ispirare vigilanza e responsabilità e ridestare sentimenti morali di portata universalistica, quali la simpatia e la compassione, che fin dal Settecento autori come Rousseau hanno evocato come base della filantropia e dell’idea di umanità . Oggi è difficile pensare a un’uscita dalla crisi nella forma di un cambiamento economico-sociale o istituzionale, sul modello delle rivoluzioni del passato. Si fa appello piuttosto a un mutamento dello stile di vita, del modo di pensare, a una maturazione della sensibilità individuale, e il riferimento all’empatia va appunto in questa direzione.
L’espressione «empatia globale» è stata coniata a ridosso della grande crisi finanziaria del 2008, della crisi ecologica e della violenza del terrorismo. Jeremy Rifkin ne ha fatto il Leitmotiv del suo libro The Empathic Civilization. The Race to Global Consciousness in a World in Crisis, in cui afferma che l’empatia è il «sottotesto della storia dell’uomo» perché l’aumento del ritmo, del flusso e della densità degli scambi interpersonali costituirebbe l’elemento dinamico fondamentale del processo di civilizzazione. Il XXI secolo richiede un nuovo sguardo sulla natura umana: non più quello dei teorici del liberalismo e dell’economia di mercato, che mettevano al centro l’egoismo e l’utilitarismo, bensì quello che riconosce il ruolo essenziale della capacità empatica nello sviluppo della comunicazione con gli altri e con l’intero mondo vivente. Rifkin aggiunge tuttavia che per estendere le comunicazioni è necessario un consumo di energia, che per il secondo principio della termodinamica viene dispersa. L’universalizzarsi dell’empatia si accompagna quindi all’aumento dell’entropia. Ci troviamo perciò di fronte a un drammatico dilemma: una civiltà dell’empatia rappresenterebbe l’ultima possibilità della specie umana di sottrarsi all’esaurimento delle fonti energetiche e al degrado ambientale.
Sempre nel 2010, il primatologo Frans de Waal ha pubblicato un libro dal titolo fortemente consonante, The Age of Empathy. Nature’s Lessons for a Kinder Society, in cui sintetizza la serie di studi sull’empatia dal punto di vista evolutivo, del comportamento animale e della psicologia umana, avendo in mente lo stesso obiettivo di Rifkin, direttamente legato alla vita economica, finanziaria e politica contemporanea, ossia la confutazione dell’aggressività e dell’egoismo come componenti di base della natura umana.
L’empatia è dunque uscita dai dipartimenti di Filosofia e dai laboratori di neuroscienze e si è candidata a elemento centrale di una politica progressista fondata sulla comprensione che «i nostri cervelli si sono evoluti in direzione dell’empatia, della cooperazione, della connessione gli uni con gli altri e con la terra».
Empatia globale
L’idea di empatia globale è legata a tre fenomeni centrali del mondo contemporaneo: le sempre maggiori aspettative nei confronti della ricerca scientifica e delle sue applicazioni tecnologiche, il web, la globalizzazione finanziaria, politica e sociale.
Innanzitutto, decisivo è l’impatto sociale e politico della scienza, in particolare delle neuroscienze, che ricambiano l’interesse mediatico per tutto quanto riguarda il cervello con una forte sensibilità per la vita sociale. Le neuroscienze, sulla scia della teoria dell’evoluzione di Darwin, appaiono fortemente attratte da alcuni dei problemi di fondo della società contemporanea: le condizioni e le motivazioni della convivenza, i nessi di inclusione ed esclusione, i comportamenti antisociali e quelli solidali. L’ambito della social neuroscience è in piena espansione e i risultati delle ricerche sperimentali in questo campo intervengono direttamente nel dibattito pubblico.
Tali ricerche sono in gran parte focalizzate sull’empatia e le sue forti implicazioni intersoggettive e sociali. Da più di un decennio le neuroscienze studiano con particolare intensità i circuiti cerebrali associati al riconoscimento e alla condivisione degli stati emotivi altrui e ai comportamenti associativi e cooperativi. Sappiamo che nel corso dell’evoluzione il nostro cervello ha selezionato funzionamenti automatici e involontari espressamente finalizzati a promuovere l’interazione sociale. Si tratta di meccanismi evolutivi che comprendono la cura, radicata nell’attaccamento biologico alla prole; la capacità di riconoscere gli stati psichici altrui; di risolvere problemi in un contesto sociale; l’apprendimento sociale. In questo tipo di studi viene adottata una nozione di empatia molto ampia, che comprende emozioni morali come la compassione e la simpatia, alle quali è attribuito un ruolo decisivo non solo per la convivenza, ma anche per l’origine della moralità .
Alcuni avanzano il dubbio che questo interesse sia motivato da esigenze di social engineering: si potrebbe pensare infatti che la vita sociale in questo modo si risolva esclusivamente nell’attribuzione agli altri di stati mentali (so cosa fai, cosa pensi, cosa desideri, cosa vuoi) allo scopo di facilitare la spiegazione, la previsione e quindi il controllo dei comportamenti.
Il romanzo Il cerchio di Dave Eggers offre un esempio dell’utopia/distopia dell’empatia globale. Ambientato nel campus di una grande azienda, ha come protagonista una ragazza sola, senza prospettive di azione collettiva o di solidarietà di classe. L’azienda in cui lavora non produce beni materiali. Il suo scopo è mettere in connessione il maggior numero di persone, fare degli esseri separati che noi siamo esseri uniti da un flusso di sentimenti, individui empatici abitanti di un universo in cui il conflitto è escluso, poiché connessione e trasparenza fanno sì che l’ignoto e la diversità dell’altro siano unicamente un problema di «mettersi nei suoi panni», magari ottimizzabile con dispositivi tecnologici appositi.
Una emotion economy è già sul piede di partenza nel mondo reale. Imprese hi-tech come Emotient (variazione sul tema di quotient) e start up come Affectiva, Realeyes e Sension stanno lavorando su algoritmi che analizzino velocemente la mimica facciale, associando un significato a ognuno dei micromovimenti della bocca e degli occhi. Il software potrà essere trasformato in una app per cellulare e decifrare le espressioni del volto. Si prevedono molteplici impieghi di questi dispositivi: dalle ricerche di marketing alla sicurezza in auto, alla verifica dell’attenzione degli studenti in classe, agli interrogatori di polizia, all’accertamento dello stato d’animo del paziente in ospedale.
Altrettanto fondamentali per l’idea di empatia globale sono la globalizzazione e la rete. Ciascuno di noi è immerso in un flusso di informazioni e di comunicazione planetario. La perenne connessione alla rete ha cambiato il nostro modo di pensare e di parlare, ci permette di essere informati e di interagire in tempo reale con persone che si trovano nei punti più disparati del pianeta. Dalla sharing economy alle dinamiche delle Borse in America e in Cina, all’inquinamento che non risparmia l’Everest e incombe in egual misura sui poveri e sui ricchi, alla possibilità offerta dai social network di scambiare amicizia e insulti con perfetti sconosciuti, è indubbio che abitiamo un mondo interdipendente e interconnesso, in cui ciò che accade a Pechino non può lasciare indifferente chi sta a Parigi.
Bisogna però fare attenzione al rapporto di stretta correlazione che nell’idea di empatia globale lega la «scienza dell’empatia» e la globalizzazione, intesa come trionfo della connessione, della circolazione del sapere, dei flussi e scambi di merci, capitali, persone. La conoscenza della «natura umana», dei funzionamenti biologici che spiegano perché siamo «naturalmente» predisposti alla cooperazione e alla relazione con gli altri e «fatti per stare insieme», trova la sua verifica nel fenomeno più avanzato dell’epoca tecnologica, la rete, con le sue potenzialità di mutamento antropologico e culturale, di democratizzazione e di appiattimento delle gerarchie sociali e politiche. Viene spontaneo chiedersi se un filo così diretto tra l’«animale sociale», quale si è sviluppato nel corso dell’evoluzione umana, e il mondo dei computer e delle metropoli invase dalle auto, più che una soluzione, sia un problema.
Siamo sempre connessi e quindi sempre empatici? La globalizzazione serve ad aprire gli occhi sulle sofferenze del pianeta? E i nativi digitali, che imparano a usare il tablet prima della forchetta, sono spontaneaÂmente empatici? Empatia globale vuol dire che l’estension...