1.
La leggenda dell’assedio
1. La retorica dell’invasione e le cifre effettive
Molti italiani sono convinti che, grazie alle drastiche misure adottate dal precedente governo Conte-Salvini-Di Maio, in spregio a convenzioni internazionali, trattati europei e Costituzione italiana, l’invasione degli immigrati sia stata finalmente bloccata. La propaganda governativa ha alimentato l’inganno, ma anche molte voci insospettabili lo hanno favorito. Per esempio, il governo Gentiloni-Minniti ha più volte rivendicato il merito di aver ridotto drasticamente i flussi di profughi grazie ai controversi accordi con la Libia. Anch’esso ha di fatto diffuso l’idea che impedire o prevenire gli sbarchi significhi fermare l’immigrazione. Data la confusione tra sbarcati, rifugiati e immigrati, il blocco dell’approdo dei primi viene scambiato con il contenimento dell’immigrazione nel suo complesso. Non solo: grandi giornali parlano con frequenza di “sconvolgimenti demografici” o di pressione migratoria “insostenibile”, non senza evocare lo scontro di civiltà.
Il fatto è che l’invasione non c’è mai stata. Gli ultimi dati resi noti (ottobre 2019) documentano la sostanziale stabilizzazione della popolazione immigrata da cinque anni a questa parte, poco sopra i 5 milioni di persone: esattamente 5,26 milioni secondo il Dossier IDOS 2019, pari all’8,7% della popolazione residente. Le migrazioni non sono state fermate dagli accordi con la Libia o dalla mano dura sugli sbarchi del primo governo Conte, ma dalla crisi economica che ha inaridito gli sbocchi occupazionali a cui avevano avuto accesso gli immigrati nei venticinque anni precedenti.
I più tenaci sostenitori della tesi dell’invasione potrebbero obiettare che, guardando all’immigrazione più recente, gli ingressi per asilo sarebbero diventati preminenti. I dati smentiscono anche questa più circoscritta credenza. L’asilo, anche negli ultimi anni, in presenza di un netto calo dei nuovi ingressi complessivi (nel primo decennio di questo secolo erano in media circa 400.000 all’anno), ha inciso intorno a un terzo del totale dei nuovi permessi di soggiorno accordati a chi proviene da paesi extracomunitari. Nel 2018 per il 41,6%, come effetto degli arrivi negli anni precedenti, ora molto ridotti dopo gli accordi con governo e milizie locali libiche e la campagna contro le ONG che salvano le persone in mare. Le motivazioni familiari prevalgono anche negli ultimi anni, attestandosi tra il 44 e il 46% del totale, con una crescita al 52,4% nel 2018, che risente dell’esiguità dei nuovi ingressi per lavoro (appena il 6,0%).
A questi dati bisogna poi sommare gli ingressi dei cittadini UE che non hanno bisogno di permessi, non arrivano in barca e non presentano domanda di asilo. Anch’essi molto calati, ma sempre da conteggiare in una categoria alternativa al presunto primato degli ingressi dal mare e dell’asilo. In definitiva l’opinione pubblica è stata fuorviata dalla visibilità degli sbarchi e dei dispositivi di accoglienza sul territorio di un numero in sé contenuto di richiedenti asilo.
La stabilizzazione complessiva dei numeri relativi agli immigrati (la crescita è stata soltanto del 6,8% in cinque anni, nascite comprese), dipende in parte dalle naturalizzazioni, che hanno assunto in Italia dimensioni cospicue negli ultimi anni. Parecchi immigrati sono riusciti con il tempo a maturare le pur penalizzanti condizioni previste dalla normativa (dieci anni di soggiorno ininterrotto per i cittadini di paesi non comunitari): 201.600 nel 2016, 146.600 nel 2017, soltanto 112.500 nel 2018. Ma soprattutto ha inciso la lunga recessione 2008-2015 e la troppo timida ripresa degli ultimi anni. Per citare un dato molto eloquente, le nascite da cittadini stranieri avevano sfiorato quota 80.000 nel 2012, erano circa 72.000 nel 2015 e sono scese a 65.000 nel 2018. Pur ammettendo che un certo numero di genitori, essendo diventati italiani, siano sfuggiti alla rilevazione, è difficile sostenere che gli immigrati stiano invadendo sale parto e asili nido, come pure nutrire la speranza che ci salveranno dal declino demografico. Semmai va riconosciuto che si tratta di quasi il 15% delle nascite complessive, con marcate sperequazioni territoriali: si va da punte superiori al 20% nelle regioni settentrionali a un modesto 5% nel Mezzogiorno e nelle Isole. Dunque una presenza significativa, ma non debordante.
Notiamo di passaggio che definire come stranieri i minori nati in Italia da genitori immigrati, ma cresciuti e scolarizzati nel nostro paese, è una scelta politica, non certo la fotografia del loro effettivo rapporto con la nostra società.
Assieme alla stabilizzazione e alla crescita delle nuove generazioni, un altro dato di rilievo riguarda la composizione della popolazione immigrata. Impressionati dagli sbarchi, molti italiani pensano che gli immigrati siano in grande maggioranza maschi, africani, di religione musulmana. Di nuovo, assecondati e sospinti dalla propaganda politica e dalla narrazione mediatica prevalente. Anche gli ultimi dati, pur tenendo conto dei recenti ingressi di persone in cerca di asilo dall’Africa (circa 300.000 tra rifugiati riconosciuti e richiedenti in attesa di risposta), confermano un quadro assai lontano dalle rappresentazioni correnti: gli immigrati residenti in Italia sono prevalentemente donne (52%), prevalentemente europei (50,9%, in maggioranza cittadini dell’UE: 30,4% del totale), prevalentemente originari di paesi di tradizione culturale cristiana; qui la stima è più incerta, ma il dato più accurato parla di un 57,5% di cristiani, prevalentemente ortodossi, contro un 28,2% di musulmani (Caritas e Migrantes 2018).
A livello di Unione Europea, il quadro non è molto diverso. I residenti di nazionalità straniera sono circa 40 milioni, pari al 7,8% della popolazione, ma 17 milioni sono cittadini di un altro paese dell’UE. La mobilità delle persone nella regione è per un cospicuo 42,5% un fenomeno interno, facilmente spiegabile con le norme che hanno liberalizzato i flussi intracomunitari erigendo invece barriere sempre più rigide nei confronti della mobilità dal Sud del mondo. Sommando gli immigrati da paesi europei ma non comunitari, anche nell’UE la maggioranza dell’immigrazione è bianca, europea, di tradizione cristiana.
I residenti nati all’estero sono invece più numerosi: 60 milioni (11,7% della popolazione). Ciò significa che nel tempo quasi 20 milioni di stranieri sono diventati cittadini: nei paesi democratici non si rimane stranieri per sempre. La popolazione è composta da una grande maggioranza di residenti storici e da una minoranza di persone che entrano e si stabilizzano, mentre altre escono. Ne consegue che paragonare la popolazione straniera in Italia con quella residente in altri grandi paesi dell’UE è operazione che richiede cautela: solo apparentemente il nostro paese ha raggiunto in tre decenni valori prossimi a quelli della Francia e del Regno Unito. In quei casi ben prima di noi le naturalizzazioni (995.000 nell’UE nel 2016, 825.400 nel 2017) nel tempo hanno fatto transitare milioni di stranieri nella più confortevole condizione di cittadini.
Occorre cogliere poi le diversità giuridiche all’interno della popolazione immigrata. Non si tratta di un blocco omogeneo, ma di un insieme di persone con diritti differenziati, più o meno solidi e ampi.
Anche in Italia, per cominciare, 1,5 milioni di residenti stranieri sono cittadini dell’UE, con pieno diritto di entrare, uscire, cercare lavoro, accedere ai servizi pubblici nel nostro paese, allo stesso titolo degli italiani espatriati. I loro diritti sono equiparati a quelli dei cittadini, tranne i diritti politici a livello nazionale. La circolazione di questa popolazione con le regole attuali non potrà essere limitata, salvo (forse) uscendo dall’UE come i britannici. Solo il mercato esercita una pressione regolatrice nei confronti dei loro spostamenti: va ribadito che da quando l’Italia non ha più molto lavoro da offrire, anche gli ingressi da altri paesi dell’UE si sono notevolmente affievoliti. Quando si paventa una migrazione di massa dall’Africa, di cui non si vedono neppure le condizioni di fattibilità, si dimentica invece che almeno in teoria decine di milioni di cittadini dell’UE se volessero potrebbero venire in Italia domani, senza incontrare ostacoli giuridici.
Tra i cittadini di paesi non comunitari residenti in Italia (3,7 milioni), sei su dieci hanno ormai un permesso di lungo-soggiornanti. Ciò significa anche per loro protezione dalle espulsioni e accesso ai vari servizi pubblici. Le normative europee pure in questo caso ne hanno sempre più equiparato la condizione con quella dei cittadini nazionali, tipicamente nell’ambito dei diritti sociali.
La terza principale categoria, quella dei residenti non comunitari con permessi a termine (1,3 milioni) è l’unica il cui permesso almeno in teoria potrebbe essere revocato. Sgomberando il terreno dalle dicerie, neppure in questo gruppo l’asilo occupa una posizione preminente. La principale motivazione del permesso è quella familiare (46,9%), seguita dal lavoro (29,7%), mentre l’asilo riguarda soltanto il 16,9% di quest’ultimo gruppo. La precisazione è importante, perché un governo che volesse mettere in discussione il diritto al soggiorno di questa componente dell’immigrazione dovrebbe decidere di espellere famiglie con minori e lavoratori regolarmente occupati.
Quanto all’asilo, la cifra di 600.000 persone accolte in Italia ripetuta dall’ex ministro dell’Interno, e accettata senza obiezioni dai suoi interlocutori, non corrisponde alla realtà dei dati. Probabilmente allude al totale degli sbarcati da diversi anni a questa parte, come se fossero tutti rimasti in Italia, nascosti non si sa dove. Va precisato invece che fino al 2014 la maggior parte transitava, desiderando raggiungere i paesi del Centro e Nord Europa, per ritrovare parenti e connazionali, per la speranza di ottenere un’accoglienza migliore o per la consapevolezza di avere più opportunità di trovare un lavoro. Il relativo aumento delle richieste di asilo in Italia è stato la conseguenza dell’imposizione dei cosiddetti hotspot da parte dei nostri partner europei, con l’obbligo di identificare anche forzosamente gli sbarcati prelevando le impronte digitali. In cambio doveva avvenire la ricollocazione in altri paesi dell’UE, ma questa è stata attuata col contagocce, mentre i controlli rafforzati alle frontiere alpine hanno drasticamente ridotto le possibilità di espatrio. Tornerò su questo tema nel prossimo capitolo.
Certamente, sulla percezione del fenomeno ha inciso quindi l’aumento dei richiedenti asilo, per cui i governi hanno dovuto predisporre misure di accoglienza, distribuendoli sul territorio con il ben noto approccio italiano all’insegna dell’emergenza e degli interventi straordinari (Allievi 2018). Resta però rivelativo di una sindrome da stato d’assedio quanto vari sondaggi hanno ripetutamente rivelato: gli italiani hanno ingigantito nelle loro percezioni la presenza degli immigrati nel paese, e non sono stati aiutati dal sistema mediatico a recuperare una rappresentazione più equilibrata del fenomeno. L’Istituto Cattaneo ha elaborato dei dati di Eurobarometro, mostrando che in generale i cittadini dell’UE sovrastimano parecchio la percentuale di immigrati presenti nei loro paesi: di fronte al 7,2% di immigrati non-UE effettivamente residenti sul territorio dell’Unione, gli intervistati ritengono siano il 16,7%. Ma nel caso italiano il divario tra realtà e percezione si allarga a dismisura: gli intervistati italiani sono quelli che denotano un maggiore scarto tra la percentuale di immigrati non-UE realmente presenti nel paese (7%) e quella stimata, o percepita, pari al 25%.
Non si tratta soltanto di cattiva o insufficiente informazione. L’Istituto bolognese ha elaborato anche un indice di nazionalismo, che misura l’ostilità verso immigrati e minoranze religiose. Anche in questo caso il nostro paese si trova al vertice della classifica, e i due indicatori sono correlati: chi è contro gli immigrati ne ingigantisce anche il numero. Non è sorprendente, ma colpisce piuttosto il fatto che questo modo di percepire e rappresentare il fenomeno sia diventato senso comune e narrazione egemone, anche nel mondo dell’informazione, della cultura e della politica.
Quanto all’immigrazione irregolare, cavallo di battaglia di chi non vuole arrendersi all’evidenza dei dati, secondo le stime dovrebbe aggirarsi intorno alle 530.000 unità (Fondazione ISMU 2018). Il dato è inferiore comunque a quello dell’inizio dello scorso decennio, quando era relativamente facile trovare lavoro anche senza disporre di un permesso di soggiorno. La fig. 1 mostra che l’incidenza dell’immigrazione irregolare sul totale dei soggiornanti è diminuita nel tempo, pur con una lieve ripresa negli ultimi anni. Va aggiunto che la sanatoria detta Bossi-Fini ha regolarizzato nel 2002-2003 più di 600.000 immigrati. Molte erano donne che lavoravano per le famiglie italiane: questo è l’ambito in cui è più facile sottrarsi ai controlli. La successiva sanatoria Maroni ne ha regolarizzate altre 300.000, e in quel caso il provvedimento era dedicato esclusivamente alle persone occupate presso le famiglie. Anche oggi è assai probabile che molta immigrazione irregolare si concentri lì.
Fig. 1. L’immigrazione irregolare in Italia rispetto ai soggiornanti regolari, 2002-2017. Valori assoluti in migliaia e percentuali.
Fonte: A. Paparusso, IRPPS-CNR, su dati ISTAT e ISMU.
2. Chi sono gli immigrati?
Come i lettori avranno già intuito da questa prima infornata di cifre, un primo dato con cui misurarsi riguarda la varietà degli spostamenti di esseri umani a cui diamo il nome di immigrazione, tanto che sarebbe più appropriato parlare di “immigrazioni”, al plurale. Le definizioni e le fonti statistiche non distinguono tra ricchi e poveri, qualificati e non qualificati, movimenti volontari e involontari. L’ONU, per esempio, definisce l’immigrato internazionale come «una persona che si è trasferita in un paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno» (Ambrosini 2011). Tuttavia ci si può spostare per molti motivi diversi, e i sistemi giuridici distinguono accuratamente varie categorie di persone autorizzate...