1. Dieci qualitÃ
di un comandante di successo
Impossibile non individuarlo. La battaglia s’era già trasformata in una mischia di uomini e cavalli in movimento, ma il re era inconfondibile: basso di statura, ma muscoloso, in sella a un enorme destriero nero. Nella splendida armatura scintillante, lunghe piume bianche fissate ai lati dell’elmo, Alessandro Magno, re di Macedonia, guidava la seconda ondata della cavalleria pesante, detta dei «compagni del re». Uno squillo di trombe e fragorose grida di guerra li avevano lanciati al galoppo attraverso le basse acque del Granico e su per la sponda opposta, sotto gli occhi della crema della cavalleria persiana, schierata in attesa. Esaltati dalla vittoria ottenuta sulla prima ondata dell’attacco macedone, i Persiani caricarono con alte grida il nemico.
Due fratelli, Resace e Spitridate, entrambi aristocratici, puntarono decisi contro Alessandro; Spitridate era governatore della Ionia, una ricca provincia situata dove è oggi la costa egea della Turchia. I due fratelli attaccarono e Spitridate spaccò l’elmo di Alessandro con un colpo di scure tale da sfiorarne i capelli. Alessandro reagì trapassandogli il petto con la lancia di legno. Mentre Spitridate moriva, il fratello roteò la spada verso il capo scoperto di Alessandro, mirando un colpo mortale, ma nella frazione di secondo precedente il contatto un ufficiale macedone, Clito il Nero, gli tranciò il braccio con la spada. Alessandro era salvo. Era un giorno di maggio del 334 a.C., nel Nord-Ovest dell’Anatolia.
Centodiciotto anni dopo, il frastuono della battaglia risuonava tra le ondulate colline dell’Italia meridionale, dove gli eserciti di Roma e di Cartagine erano impegnati in una lotta all’ultimo sangue, all’esterno della piccola città di Canne. Dinanzi all’avanzata inesorabile delle legioni romane, i Cartaginesi stringevano i denti e si ritiravano, subendo perdite sul loro cammino. Avrebbero ceduto all’assalto dei Romani o avrebbero fatto cadere in una trappola il nemico?
Entrambi i comandanti erano in prima fila. Il console romano Paolo si lanciava nel folto della mischia e spronava la fanteria a schiacciare il nemico. Il suo antagonista lo fronteggiava non molto lontano, al centro dello schieramento della fanteria cartaginese, da dove non si era mosso da quando, ore prima, era cominciata la battaglia: Annibale di Cartagine comandava le sue truppe di persona.
Annibale era a cavallo, indossava una cotta di maglia e un elmo piumato e portava uno scudo rotondo. Era famoso per l’espressione energica del volto e lo sguardo fiero (Livio, 21, 4). Vedeva dal solo occhio sinistro, avendo perduto la vista dell’altro un anno prima, per una malattia, durante una lunga e faticosa marcia.
La battaglia era giunta al momento decisivo. Mancava poco e i Cartaginesi avrebbero fatto scattare la trappola, ma non sarebbe stato facile resistere alla forza di Roma. Annibale ne era consapevole e perciò cavalcava tra i soldati, rincuorando e incoraggiando gli uomini e persino scambiando qualche colpo con il nemico. Se il rischio che correva non l’avesse ucciso, avrebbe ottenuto il trionfo. Era il pomeriggio del 2 agosto 216 a.C.
Centosessantasette anni dopo, nella primavera del 49 a.C. Roma si trovò nella morsa della guerra civile. Il conflitto infuriò prima in Italia, in Spagna e nella Francia meridionale, poi il fronte mosse verso oriente. Il centro del conflitto si spostò sulla costa dell’Epiro (l’attuale Albania), l’ingresso nell’Adriatico e in Italia. Due grandi generali, Pompeo e Cesare, manovravano per conquistare una posizione sul territorio che confinava con la città portuale di Durazzo. Entrambi comandavano un grande esercito ed erano accampati fuori della città .
A una tattica di temporeggiamento si alternavano episodi di combattimento. Ciascun esercito cercava di aggirare l’altro e prenderlo per fame, costruendo sul terreno collinare una serie di barriere, fossati, fortini e torri. Improvvisamente, all’inizio di maggio, l’attesa fu interrotta da uno scontro sanguinoso. Disertori dell’esercito di Cesare svelarono un punto debole nel suo schieramento e Pompeo approfittò dell’informazione per attaccare di sorpresa. Ma Cesare si riorganizzò e lanciò un contrattacco il giorno stesso. L’inizio gli fu favorevole, ma poi i suoi uomini finirono in un labirinto di barriere e fossati abbandonati. Quando furono attaccati a loro volta caddero nel panico.
Cesare stava tra gli uomini, un esempio di coraggio. Alto e vigoroso, non cedeva di un passo. I soldati in fuga correvano, portando in mano le insegne di guerra – lunghe aste rivestite di dischi di metallo e una mano scolpita sulla cima. Cesare afferrò le insegne e comandò agli uomini di fermarsi. Di solito le sue parole riuscivano convincenti e il suo sguardo brillava di determinazione. Ma neanche uno si fermò; alcuni avevano lo sguardo fisso a terra per la vergogna; altri giunsero al punto di gettar via le insegne. Finché uno di quelli che portavano le insegne, e tenevano l’asta volta verso il suolo, osò rivolgere la cima appuntita contro Cesare: allora, all’ultimo minuto, le guardie del corpo gli troncarono il braccio, salvando la vita del comandante. Se non fosse stato per loro, la guerra civile sarebbe finita in quell’istante.
Tre generali, tre battaglie e un solo disegno: una vita totalmente dedita al combattimento. Ma il combattimento era solo il prezzo d’ingresso. Non si trattava di semplici condottieri, bensì di statisti-soldati alla conquista di un impero. Alessandro Magno, Annibale e Giulio Cesare sono i tre grandi della storia militare dell’antichità . Alessandro stabilì il modello. Poco più di un secolo dopo, Annibale definì Alessandro il più grande generale di tutti i tempi. Cesare comparve circa 150 anni dopo e quando, adolescente, vide una statua di Alessandro pianse, dolendosi che egli, Cesare, non aveva ancora conquistato niente.
Tutti e tre erano maestri nell’arte della guerra. Dovevano saper guardare molto al di là del campo di battaglia. Dovevano saper decidere, non solo come combattere, ma chi e perché. Dovevano capire quando era il momento della vittoria e quando metter fine al conflitto. Dovevano saper immaginare il mondo del dopoguerra e progettare un nuovo ordine mondiale, che portasse stabilità e un potere duraturo. In breve, non erano soltanto comandanti sul campo ma anche statisti.
Eppure è probabile che ciascuno di loro avrebbe voluto essere ricordato come un eroe di guerra. Indipendentemente dalle lunghe ore di silenzio e meditazione, dal continuo dover render conto di piani da presentare, dai negoziati per ottenere alleanze utili alla vittoria, dai compiti non particolarmente entusiasmanti come rifornire i granai o disincagliare carri impantanati nel fango: era nella mischia cruenta – primitiva, elementare – che si sentivano nel proprio elemento.
In battaglia erano eroici. Come comandanti sul campo e condottieri di un esercito in combattimento e durante una campagna, non avevano rivali. Come strateghi il loro curriculum è vario: i loro piani di guerra miravano alle stelle, ma solo Alessandro e Cesare le raggiunsero. Come statisti nessuno dei tre si dimostrò all’altezza. Né Alessandro, né Cesare e ancora meno Annibale, riuscirono a realizzare o a conservare il nuovo ordine mondiale cui aspiravano.
Alessandro (356-323 a.C.) conquistò la Persia, il più grande impero conosciuto fino a quel momento. Ma morì poco prima di compiere trentatré anni, dopo un umiliante ammutinamento dei suoi uomini e senza aver provveduto alla successione né a un piano per amministrare il suo nuovo vasto dominio. Il suo impero precipitò immediatamente nella guerra civile e nel caos. Cinquant’anni dopo si era trasformato in una dozzina di nuovi regni, tutti governati da Greci come Alessandro, ma nessuno da membri della sua famiglia. Lungi dal fondare una dinastia, Alessandro fu l’ultimo del suo lignaggio a salire sul trono.
Annibale (247-183 a.C.) assunse il comando di un impero coloniale fondato in Spagna dal padre e ampliato dal cognato. Poi Roma ne contestò l’autorità . Roma e Cartagine erano nemiche mortali e avevano già combattuto una grande guerra per il dominio della Sicilia, vinta da Roma. Ora, con l’appoggio del governo di Cartagine, Annibale iniziò una guerra per scalzare una volta per tutte il potere di Roma. Realizzò la spettacolare impresa dell’attraversamento delle Alpi, nella neve, con il suo esercito e gli elefanti, e invase l’Italia. Lì inflisse a Roma le sue più grandi sconfitte sul campo di battaglia, tra le quali quella di Canne (216 a.C.), una delle vittorie più definitive registrate negli annali di guerra. Eppure perse la guerra. Come Alessandro, fu l’ultimo membro della sua famiglia a detenere il potere politico nel suo paese.
Cesare (100-44 a.C.), subito dopo l’epocale conquista della Gallia, combatté e vinse una guerra civile contro la ricchissima e armatissima Repubblica romana. Avviò un programma legislativo per trasformare la Repubblica in monarchia, ma la politica lo annoiava. Lo interessava di più una nuova campagna contro i Parti (un regno iranico). Ma prima di riuscire a partire per il fronte fu pugnalato a morte da un gruppo di senatori romani, ai piedi della statua del suo nemico, alle Idi di marzo. Cesare, a differenza degli altri, creò una dinastia – o meglio la creò il suo pronipote, Ottaviano (63 a.C.-14 d.C.). Nel suo testamento Cesare nominò Ottaviano suo figlio adottivo e suo erede, ma Ottaviano dovette combattere per quindici lunghi e cruenti anni per farsi accettare dal mondo romano. Ottaviano è meglio conosciuto con il nome che egli stesso scelse: Augusto, primo imperatore di Roma.
Ciascuno dei tre generali fu un prodigio in campo militare – e un giocatore d’azzardo. Affrontarono imperi: nemici con eserciti molto più grandi dei loro; nemici che avevano il comando strategico del mare; e nemici che avevano il vantaggio di giocare in casa. Eppure rischiarono tutto per la vittoria.
Tutti e tre attraversarono un territorio nemico alla testa delle proprie armate in una drammatica battuta. Cesare attraversò il Rubicone, Annibale varcò le Alpi e Alessandro attraversò i Dardanelli. Alessandro iniziò una lunga guerra nell’impero persiano (334-323 a.C.), Annibale diede inizio a una lotta con Roma, conosciuta oggi come seconda guerra punica (218-201 a.C.) e Cesare diede inizio alla guerra civile (49-45 a.C.). Ciascuno, dopo un susseguirsi di successi e fallimenti, avrebbe ottenuto una splendida vittoria in battaglia. Eppure alla fine Annibale perse la guerra e le vittorie di Alessandro e di Cesare furono vane.
Ho scritto questo libro per spiegarne le cause. La storia di questi tre comandanti supremi è viva oggi non meno di duemila anni fa. Può servire di lezione a chi dirige, ovunque si trovi, dal centro di comando delle operazioni belliche alla sala di consiglio – di lezione e di ammonimento.
Le dieci chiavi del successo
Quando, nel 1889, Theodore Ayrault Dodge battezzò Alessandro, Annibale e Cesare «grandi capitani» – in un libro così intitolato – la maggior parte dei suoi lettori guardava con ammirazione alle aspirazioni imperiali. Oggi, dopo il cruento XX secolo, ne siamo meno convinti. La statura di questi tre grandi generali è certo stimolante, ma la loro ferocia è terrificante. Sono degli dèi della guerra, e diabolici. Li ammiriamo per gli stessi motivi per cui li temiamo, perché in qualche modo paiono superumani. Rappresentano la grandezza – e l’ambiguità . Furono grandi, ma non buoni; o piuttosto il bene in loro si mescolava al male.
Ragione di più per chiedersi che cosa spiega il successo di questi grandi comandanti: le loro virtù o i loro vizi? Ciascuno aveva il proprio stile. Alessandro compare nella Bibbia, nel Libro di Daniele, come un caprone con un corno solo (Libro di Daniele, 8, 1-8, 15-22; 11, 2-4), ma io preferisco fig...