
- 352 pagine
- Italian
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Informazioni su questo libro
Il volume di Patricelli è un'efficace, impressionante ricostruzione di quei giorni. L'autore, che unisce la preparazione dell'accademico alla capacità di racconto del giornalista, ha scritto un saggio esemplare, animato dal ritmo narrativo e da uno sdegno non celato per i comportamenti di chi doveva pensare al popolo italiano e invece pensò anzitutto alla propria salvezza, mascherandola da ragion di Stato. Giordano Bruno Guerri, "il Giornale"Il piccolo re e il grande dittatore. Novanta ore di cinismo e incapacità per azzerare uno Stato, fra l'alba del 9 e il pomeriggio del 12 settembre 1943. Marco Patricelli racconta con stile serratissimo l'incredibile sequenza di eventi che mise fine al regime e consegnò l'Italia a un destino di macerie.
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Informazioni
Argomento
GeschichteCategoria
Geschichte des 21. JahrhundertsI. Il re in fuga da Roma
Poche idee ma confuse
La Città Eterna pigra e assonnata si poteva immaginare al di là dei vetri delle finestre illuminate dei palazzi del potere, al Quirinale, al Viminale, al ministero della Guerra, nel buio che disvelava l’approssimarsi di un giorno frenetico e drammatico, testimoniato da un via vai in grigioverde gallonato nei rilucenti corridoi. Tutto e niente si poteva immaginare invece oltre la finestrella della stanza 201 dell’austero albergo di Campo Imperatore, che dava sulla cima più alta del Gran Sasso, dove il tempo scorreva sempre uguale nel silenzio scandendo la noia e l’incerto, e le giornate del cavalier Benito Mussolini, ex duce ora prigioniero del suo erede designato da Vittorio Emanuele III al vertice del governo. Quelle finestre si sarebbero spalancate di lì a poco, in momenti diversi, lasciando entrare il vento di tempesta della storia.
La proclamazione dell’armistizio era stata una doccia gelata, non come quando l’Italia ribolliva riversandosi nelle piazze per festeggiare il licenziamento di Mussolini da capo del governo, credendo di poter celebrare la fine della guerra; adesso che la fine della guerra era stata annunciata a sorpresa dagli Alleati e confermata da Badoglio dai microfoni dell’Eiar, solo i più sprovveduti potevano illudersi che fosse un colpo di spugna sugli errori e le tragedie innescate il 10 giugno 1940. L’ex duce era caduto, e anche male; con un atto di forza Vittorio Emanuele III l’aveva fatto arrestare il 25 luglio all’uscita da Villa Savoia dopo avergli rinnovato a parole l’amicizia; il suo successore Badoglio l’aveva fatto sballottare prima come prigioniero sull’isola di Ponza, poi alla Maddalena, e infine sul Gran Sasso, vicino al cielo e lontano dagli uomini, non importa se italiani, tedeschi o angloamericani1. Era un prigioniero di lusso, il simbolo vivente di un passato scomodo, una carta di scambio da giocarsi sul tavolo delle trattative con gli Alleati vincitori, un lavacro per ripulirsi dalle compromissioni con il regime. Si credevano furbi, Vittorio Emanuele e Badoglio, ma non sapevano che non c’era nulla da trattare, e quella guerra alla quale volevano appiccicare l’etichetta di «fascista» per prenderne le distanze – ma che a norma di Statuto albertino era stata dichiarata dal re, lo stesso che vi aveva messo la parola fine – era stata persa dall’Italia che ora doveva pagarne il prezzo. E c’era un altro prezzo da pagare, ai rabbiosi alleati germanici, che non si erano affatto lasciati scivolare addosso la defezione dal conflitto e il modo in cui era avvenuta. Il Patto d’acciaio era arrugginito sotto l’erosione dell’onda salatissima delle sconfitte.
In verità alcuni soldati tedeschi avevano brindato assieme ai commilitoni italiani quando dagli altoparlanti delle radio, alle 19.42 dell’8 settembre, avevano sentito la voce di Badoglio incisa in fretta su un disco che annunciava lo sganciamento dal secondo conflitto mondiale. Forse anche loro pensavano che la guerra in Italia fosse realmente conclusa per tutti, ma non la pensavano così i loro capi, che da tempo avevano previsto gli eventi e anticipato i piani per fronteggiare tale eventualità tutt’altro che remota. Il 30 agosto erano state diramate le direttive di Achse che ritenevano fondamentale il disarmo su ampia scala delle forze armate italiane, facilitandone lo scioglimento: «Per gli italiani la guerra è finita e ciascuno dopo aver consegnato le armi può tornare alla vita civile o arruolarsi nella Wehrmacht come ausiliario»2. Si sottolineava di «disarmare immediatamente le unità italiane più facilmente raggiungibili» e di procedere in successione, sistematicamente, «fino all’ultima»; si raccomandava di recuperare gli armamenti concessi alla divisione Centauro II, e in particolare i preziosi panzer regalati dai tedeschi.
L’ordine di allerta era stato confermato dall’Okw appena il 7 settembre, con l’accortezza che niente di scritto su questo piano doveva cadere in mani italiane. I tedeschi si aspettavano la defezione ed erano pronti ad applicare le contromosse, ma anche loro erano rimasti spiazzati dalle modalità e dai tempi con cui l’avevano appresa. E sempre lo stesso giorno il generale Alfred Jodl, capo dell’Ufficio comando e operazioni dell’Okw, aveva stilato l’ultimatum da presentare a Badoglio per indurlo a sottostare all’occupazione della Wehrmacht, appena mascherata dall’eufemistico «controllo militare», ovvero la subordinazione ai comandi tedeschi. Gli italiani avrebbero dovuto revocare gli ordini sui blocchi militari nelle zone strategiche alpine al confine con l’ex Austria, rimuovere le cariche di demolizione posizionate su ponti e tunnel, stemperare le manifestazioni di ostilità verso i tedeschi durante le manovre di rimpatrio, spostare le truppe verso la zona del fronte a sud dove premevano gli angloamericani e non su Roma dove c’erano gli alleati della Wehrmacht. Si trattava di una vera e propria neutralizzazione dell’apparato bellico cui veniva rimproverato un indirizzo decisamente antigermanico. Jodl era stato anticipato per poco.
Reazione, rabbia, vendetta, punizione: ogni parola era una stilettata in petto per l’anziano maresciallo Pietro Badoglio, l’uomo buono per tutte le stagioni, che al solo sentir nominare i tedeschi si vedeva afferrato, sbattuto contro un muro e fucilato. Aveva paura. Una paura in parte razionale e in buona parte accentuata dalla sua senilità e dalle sue insicurezze per il ruolo che aveva accettato come una sorta di rivincita nei confronti di Mussolini, che alla fine di novembre del 1940 l’aveva messo all’angolo dopo averlo ricoperto di onori, prebende e grassi stipendi che sommava come gli incarichi, ai quali si era guardato bene dal rinunciare. Il suo decisionismo di facciata l’aveva forse sprecato tutto all’indomani dell’accettazione della nomina a capo del governo, quando aveva stabilito misure severissime sull’ordine pubblico, disponendo che le truppe dovessero muovere «in formazione di combattimento», aprendo il fuoco a distanza «anche con mortai e artiglieria, senza preavvisi di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche»; il soldato «che compia il minimo gesto di solidarietà con i dimostranti o si ribelli o non obbedisca agli ordini o vilipenda superiori ed istituzioni venga immediatamente passato per le armi». Misure draconiane che sarebbero state necessarie l’8 settembre, efficaci persino se di molto annacquate; invece di quel Badoglio non c’era traccia, c’era un vecchio comandante roso dal timore dei tedeschi. Aveva raccomandato al capo della polizia, Carmine Senise, di sondare in continuazione il loro atteggiamento nei confronti dell’Italia, e nei suoi in particolare.
Senise era una singolare figura di poliziotto e di uomo delle istituzioni. Napoletano, cinquant’anni, era stato nell’ufficio stampa del ministero dell’Interno con Giovanni Giolitti, divenendone responsabile con Nitti e Bonomi; dopo una parentesi nella Direzione generale delle carceri e quindi della sanità, nel 1930 era passato nella polizia e due anni dopo era prefetto e vice capo. Con la morte di Arturo Bocchini, il 22 novembre 1940, era stato messo al vertice della Pubblica sicurezza dal sottosegretario di Stato Guido Buffarini Guidi: Senise aveva rifiutato una prima volta, poi aveva detto di sì riuscendo abilmente a scansare un tentativo di ridimensionamento e di controllo. Non era fascista ma si sentiva un uomo dello Stato, ligio al suo dovere di «Dirigente generale capo della polizia» e impegnato nel preservare una forma di autonomia dal regime. Era caduto in disgrazia e Mussolini l’aveva esonerato il 14 aprile 1943, sostituendolo col prefetto e generale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn) Renzo Chierici, legionario fiumano e fascista antemarcia; ma di lui si era ricordato Badoglio che l’aveva reintegrato nel ruolo. Senise aveva peraltro recitato una parte attiva nel colpo di Stato del 25 luglio, le cui trame aveva tessuto nell’ombra.
La stessa ombra che avvolgeva il suo particolare rapporto, di amicizia fin troppo intensa, con il responsabile della censura teatrale, l’intellettuale molisano Leopoldo Zurlo, assieme al quale divideva un piccolo appartamento, «la modesta casa del mio fraterno amico». Gli strali del regime contro l’omosessualità e il mito fascista della virilità non sfioravano neppure il potente capo della polizia, né tantomeno il suo compagno. Come la pensasse nell’eseguire l’incarico, rimane traccia nelle sue memorie del dopoguerra: «Il mio programma fu quindi di rafforzare la Polizia in modo da farne un solido organismo; di renderla, anche nello spirito, un organo dello Stato indipendente dal partito, in modo da poter contare su di essa quando nell’interesse della Patria si fosse dovuta schierare contro il regime: di stabilire fratellanza di spirito con l’Arma dei Carabinieri in modo che le due forze, solidali nel sentimento, costituissero un blocco compatto superiore alle forze del regime [...] quando il Sovrano avesse ritenuto giunta l’ora di liberare il Paese dal regime che lo stava conducendo alla rovina. Di questo mio modo di sentire feci qualche accenno al generale [Remo] Gambelli, Comandante Generale dell’Arma, e più diffusamente al generale [Azolino] Hazon, comandante in seconda dell’Arma, al generale [Angelo] Cerica, tenente generale dell’Arma e ad altri ufficiali superiori ai quali sapevo di poter aprire il mio animo. [...] Eguale raccomandazione [la desiderata intima fusione tra le due forze di polizia] rivolsi a tutti i Questori del Regno che gradualmente venivano da me a conferire».
Era stato lui a elaborare il piano del colpo di Stato da far seguire al voto del Gran Consiglio e a suggerire che il re convocasse Mussolini al Quirinale, per comunicargli la destituzione, e lì si procedesse all’arresto dopo aver interrotto le comunicazioni telefoniche della presidenza del Consiglio e del ministero dell’Interno; il Partito fascista doveva essere sciolto, la Mvsn doveva subito essere incorporata nel Regio esercito per evitarne una reazione («i militi, che erano bene armati, sarebbero scesi in piazza, non per amore verso Mussolini, del quale poco si curavano, ma per difendere il proprio pane, ed avrebbero costituito un assai grave pericolo»), e l’eventuale militarizzazione delle guardie di Pubblica sicurezza e del corpo ferroviario.
La mattina del 24 luglio era stato chiamato dal generale Giuseppe Castellano per un colloquio a tre col generale Angelo Cerica, nel frattempo divenuto comandante in capo dei carabinieri per la morte di Hazon durante il bombardamento di Roma del 19 luglio, al fine di definire le modalità di intervento su Mussolini e il fascismo. Senise aveva coinvolto il questore di Roma, Francesco Peruzzi, «del quale conoscevo i sentimenti tutt’altro che fascisti, e il fido Generale [Fernando] Soleti, Ispettore del Corpo delle Guardie. Al Questore dissi di richiamare in Questura tutti gli agenti sparsi per il ritorno dell’ex duce, di racimolare tutte le forze possibili, di prendere insieme con l’autorità militare i necessari accordi per il mantenimento dell’ordine pubblico e poi di raggiungermi al Viminale, dove io mi recavo in compagnia del Generale Soleti [...]. Soleti mi fu utilissimo. [...] Provvidi poi d’accordo col Generale [Antonio] Sorice, nuovo ministro della Guerra, all’applicazione dei piani O.P.». Non aveva neppure esitato nell’utilizzare il suo successore-predecessore, Renzo Chierici: «Mi fu utilissimo; per meglio dire fu utile al Paese. Quella notte stessa egli, e il Generale [Giuseppe] Corticelli, Sottocapo di Stato Maggiore della Milizia, a mia richiesta, convinsero il Generale [Enzo] Galbiati di dare disposizioni affinché la Milizia non resistesse agli ordini del Re. Contemporaneamente il Generale Cerica persuadeva [Carlo] Scorza, suo compagno d’armi nella passata guerra, a fare altrettanto col partito. [...] Avevo detto sin dalla prima volta al Duca Acquarone che dai fascisti non c’era nulla a temere nell’attuare il colpo di stato. Gli avvenimenti mi dettero ragione».
Nella fase successiva Badoglio aveva fatto affidamento sul mestiere e sull’abilità di Senise per stornare i sospetti dei tedeschi sulle tresche finalizzate a nascondere il luogo di detenzione di Mussolini e gli abboccamenti per arrivare all’armistizio con gli Alleati, preservando naturalmente la sua persona e la sua integrità fisica. «Feci tutto il possibile – racconterà Senise nelle sue memorie – per raccogliere notizie sicure: e di molto aiuto mi fu un assai intelligente e giovane funzionario della mia segreteria, il dottor Raffaele Alianello. Era questi da anni legato da personale amicizia col maggiore [Herbert] Kappler, addetto alla polizia presso l’Ambasciata tedesca3; io l’invogliai a mettersi più che mai alle costole di Kappler, specialmente nelle ore serali, e quando i tedeschi per abbondanti libazioni sono di solito facili ad aprire il loro animo. Alianello assolse assai bene il suo compito e seppe accattivarsi a tal punto la fiducia del Kappler che questi gli confidò, in gran segreto, che il colpo era stato deciso, ma si aspettava l’occasione per eseguirlo; gli promise inoltre che al momento decisivo gliene avrebbe dato notizia telefonica, in una forma convenuta, che Alianello portò anche a mia conoscenza, ma ora non ricordo più. Appena ebbi questa sicura prova nelle mani, ne informai il maresciallo Badoglio il quale già aveva avuto segnalazioni del comportamento tedesco da me, dai carabinieri e dal S.I.M. La mia informazione era sicura».
Badoglio si era convinto che i tedeschi volessero toglierlo di mezzo, e chissà perché riteneva che volessero farlo approfittando dei suoi spostamenti da casa al Viminale. Aveva quindi compiuto un maldestro passo formale con l’ambasciata tedesca attraverso il ministro degli Esteri Raffaele Guariglia, col solo risultato di irritare i tedeschi che a quel punto avevano preteso una concreta base documentale alle insinuazioni del maresciallo, da rintracciare nei rapporti di polizia. Lo spaventato Badoglio, allora, aveva chiesto a Senise, «al Generale Cerica, Comandante dei Carabinieri, e al Generale Carboni, Commissario per il S.I.M., tre distinti rapporti in proposito», costringendo il capo della polizia a fare i salti mortali per preservare la sicurezza della sua fonte. Adesso che non poteva giocare più al gatto col topo, e soprattutto nella consapevolezza di essere lui la preda, Badoglio si rendeva conto che gli eventi, che pure aveva contribuito a realizzare, lo stavano travolgendo. A luglio Dollmann, con un’iniziativa diplomatica fuori dai consueti canali, aveva chiesto tramite Senise un incontro con Badoglio, del quale aveva pure tradotto in tedesco i ricordi della guerra d’Etiopia, per fare il punto della situazione; solo che, neanche un’ora dopo aver fissato l’appuntamento pomeridiano, Kappler aveva inoltrato un «ordine perentorio del quartier generale del Führer di evitare l’incontro a ogni costo», costringendo al dietrofront Dollmann che in fretta e furia si era dovuto recare in casa di Zurlo per informare il capo della polizia – il quale aveva sollecitato tale iniziativa – della piega presa dagli avvenimenti. Una piega che non aveva certo rassicurato Badoglio, ingigantendo i suoi timori.
Nulla trapelava invece dalla maschera di cera di Vittorio Emanuele III, l’anziano sovrano che da piccolo era stato prussianamente educato dal colonnello Egidio Osio a nascondere ogni forma di emozione. Mussolini, nella sua stanzetta in cima agli Appennini, stava dormendo, ma a Roma chi aveva il potere, o una briciola di esso, non dormiva affatto. Tranne forse il maresciallo Badoglio, che a nessun costo rinunciava alle sue inveterate e sistematiche abitudini. Andava a letto a orari fissi, senza lasciarsi condizionare da nulla. Dormiva la notte del 24 ottobre 1917 durante i prodromi della rotta di Caporetto (ma poi era stato abile a lavarsi le mani da ogni responsabilità, e ne aveva tante, facendo ricadere le colpe sugli altri), e dormiva persino nella tarda serata del 7 settembre, quando in gran segreto erano stati condotti a Roma i due emissari di Eisenhower, il generale Maxwell Taylor – comandante dell’artiglieria dell’82ª divisione paracadutisti del generale Matthew Ridgway – e il suo aiutante di campo tenente colonnello William Tudor Gardiner. Badoglio, tirato giù dal letto, aveva accolto gli sconcertati ospiti in vestaglia da notte. Carboni, che non l’aveva mai visto in pigiama, lo descriverà impietosamente: «Il cranio pelato, il lungo collo giallastro e grinzoso, gli occhi assonnati, vitrei e quasi senza ciglia, le spalle ossute e anguste, lo facevano somigliare a uno strano uccello, spennato e pronto per essere cucinato». Se la forma era quella che era, la sostanza era ancora peggio. Agli americani era sembrato di essere stati proiettati come comparse in una commedia degli equivoci, con loro a interpretare i risoluti e gli italiani a recitare a soggetto il ruolo degli sprovveduti; oppure dei «soliti italiani» finti ingenui e reali furbastri, doppiogiochisti e attendisti.
L’avvisaglia, quella frenetica sera in cui avevano attraversato la Città Eterna sotto le mentite spoglie di prigionieri di guerra a bordo di un’ambulanza per stornare i sospetti dei tedeschi, l’avevano avuta quando erano stati portati nella sede del quartier generale dell’esercito a Palazzo Caprara. Erano stati accolti dal colonnello Giorgio Salvi, dal maggiore Luigi Marchesi e dal tenente Raimondo Lanza di Trabia (che fungeva da interprete) ed era stato loro riferito che Ambrosio – che pure era al corrente della preannunciata visita – non c’era e i generali riposavano, ma intanto potevano godere dell’ospitalità italiana con una cena raffinata. Erano venuti per vedere i piani militari spiegati dai vertici e si vedevano offrire le specialità gastronomiche da ufficiali di seconda fascia. Volevano sapere se era stato disposto tutto per l’Operazione Giant II, e Marchesi, che pure aveva partecipato alle trattative di Cassibile, era rimasto interdetto quando i due americani gli avevano spiegato che il giorno seguente sarebbe stato quello dell’armistizio e che i paracadutisti erano pronti all’imbarco, mentre già la flotta d’assalto muoveva nel Tirreno per l’Operazione Giant I. Una responsabilità troppo grande per un semplice maggiore, che infatti tramite Salvi aveva fatto chiamare d’urgenza il generale Carboni. Un nuovo incontro, verso le 23, si era rivelato ancora più sconcertante, perché il generale di Corpo d’armata e capo del Sim pareva essere stato scagliato su un’altra dimensione. Avrebbe dovuto lui informare gli americani su dove far sbarcare l’82ª divisione aviotrasportata – Operazione Giant II – per andare a irrobustire le unità italiane appena annunciato l’armistizio, ma non aveva fatto nulla e non sapeva neppure indicare uno scalo aereo saldamente in mani italiane. Per la prima volta apprendeva la località dello sbarco, Salerno, ma già Taylor e Gardiner avevano capito che ...
Indice dei contenuti
- Introduzione
- Prologo. Azione e reazione
- I. Il re in fuga da Roma
- II. Mussolini in fuga da Campo Imperatore
- Epilogo. Memoria condivisa e memoria manipolata