Introduzione. Il figlio comunista
di Alessandro Casellato
[Una prima versione di questo saggio è stata presentata col titolo Le rivoluzioni sono periodi in cui ci si innamora al convegno Le rotte dell’io. Itinerari individuali e collettivi nelle svolte della storia d’Italia (Università di Venezia, 7-8 aprile 2005), i cui atti sono in corso di pubblicazione. Fasi successive della ricerca sono state discusse con Mario Isnenghi, Piero Brunello, Sergio Luzzatto e soprattutto con Filippo Benfante: li ringrazio per tutti i suggerimenti di cui sono stati prodighi, anche per quelli che non ho ritenuto di far miei. Silvia e Gemma Calamandrei, Franca Gigliani e Piero Battaglia, Paolo Regard mi hanno accolto nelle loro case e lasciato che razzolassi nei ricordi personali e negli archivi di famiglia. Spero di non averne abusato. A tutti loro, e agli altri che mi hanno accompagnato, va la mia gratitudine. Infine, forse pleonastico è il rimando – che è un tributo di lettore – al libro aureo e terribile di Giovanni Ferrara, Il fratello comunista (Milano, Garzanti, 2007), che è arrivato proprio mentre questo saggio era in scrittura e ha finito per influenzarne, probabilmente, non solo il titolo.]
1. Saldi di memorie
A volte gli incontri importanti capitano per caso. Per caso ho incontrato il libro di Franco Calamandrei, Le occasioni di vivere. Diari e scritti 1975-19821, in una libreria in liquidazione, all’ultimo giorno di apertura, prezzo ribassato a 1 euro. Come lasciarselo sfuggire? Ero alla ricerca di memorie dei “rivoluzionari disciplinati” – cioè quelli passati attraverso la macchina disciplinare del Partito comunista, rivoluzionari che invecchiano e che si sono lasciati la rivoluzione dietro le spalle, rivoluzionari che si sono fatti uomini d’ordine2 – e lui, dal risvolto di copertina, sembrava proprio il tipo giusto:
Franco Calamandrei, nato a Firenze nel 1917, laureato in diritto internazionale nel 1939, si trasferisce a Roma nel ’40. Autore di racconti brevi e traduttore di Diderot, Nerval e Proust, dopo un impiego all’Archivio di Stato a Napoli e poi a Venezia, abbandonato l’8 settembre 1943, partecipa alla Resistenza romana aderendo al Partito comunista. Nel dopoguerra è alla redazione milanese dell’Unità e dal 1950 corrispondente a Londra e poi a Pechino. Rientra in Italia nel ’56 e, dopo una serie di incarichi di partito, nel 1968 viene eletto senatore nel collegio di Pistoia. Vicepresidente della Commissione esteri e poi della Commissione di indagine sulla Loggia P2, è altresì membro della delegazione italiana all’Ueo e al Consiglio d’Europa. Muore a Roma nel settembre del 1982.
Qui forse non viene fuori granché del rivoluzionario. Ma Franco è conosciuto agli storici soprattutto per due cose: per essere il figlio di Piero Calamandrei e per essere l’autore di un altro diario, più celebre di questo che ne copre l’ultimo periodo di vita. Scritto a cavallo della seconda guerra mondiale, negli anni in cui il giovane Franco passa dall’adesione a un certo fascismo alla militanza comunista, La vita indivisibile. Diario 1941-19473 – questo è il titolo – è un documento eccezionale soprattutto perché è il diario di un gappista, la registrazione quasi quotidiana dei pensieri e delle azioni di colui che comandò l’operazione più controversa della Resistenza italiana, ovvero il gruppo di fuoco che fece scoppiare la bomba in via Rasella, a Roma, il 23 marzo 1944.
Negli anni della piena maturità di vita, Calamandrei continua ad essere visitato dal ricordo di quella stagione. Almeno in privato lo è. Almeno nei diari in cui cento volte comincia a scrivere quello che sente essere il suo vero libro e che mai concluderà. Ma in pubblico nulla traspare. Franco Calamandrei è un uomo importante, fa cose importanti, frequenta i piani alti della politica. Eppure non è soddisfatto. Indossa una maschera di pietra, da uomo di Stato e di partito, che lo ingabbia e lo comprime, ma insieme gli consente di fissare la propria precarietà, di arginare l’irrequietezza esistenziale che si porta dietro sin da giovane e che la grande scuola del Partito comunista gli ha insegnato a controllare e a nascondere.
Al culmine della carriera, Franco Calamandrei si vede vivere. Sente di partecipare a una recita, a una «grande commedia». Descrive un teatro in disfacimento, con gli attori principali che escono di scena, uno dopo l’altro, e le quinte che si sfaldano e sembrano sul punto di crollare. Il diario è un’autoriflessione, complicata e raffinatissima, su questo stato d’animo. Sono gli anni di piombo e del compromesso storico; il Pci, dopo una lunghissima attesa, si sta avvicinando al governo nella peggiore delle condizioni possibili. Il partito della rivoluzione promessa si è fatto Stato; i partigiani sono i custodi del nuovo ordine costituito; Franco, che appartiene all’ala “migliorista” del Pci, è tra gli interpreti più rigorosi di questa linea.
Le occasioni di vivere restituisce l’immagine di un’Italia allo sfascio: Seveso, Lockheed, la fuga di Kappler, il ’77 a Roma e Bologna visto come un’eruzione barbarica. Si respira un’atmosfera da fine repubblica, con padri della patria ormai sfatti, quasi cadaverici: Nenni, prima ritratto con «occhi rossi e acquosi di morte dietro gli occhiali, mano tremante che regge i fogli», poi, al momento del suo funerale, accompagnato da «l’orazione di Craxi (nero africano, retour de Kenia), da cui la storia è latitante, tutta e solo nella bara di Nenni. Davanti, glacializzati, su seggiolette da fucilazione alla schiena, Pertini, Jotti, Fanfani»4; poi il rapimento e l’uccisione di Moro; e ancora altri funerali nel giro di pochi mesi, quelli di La Malfa, di Amendola, di Longo.
Non è solo una questione politica. Franco fa i conti con il proprio invecchiare e lo proietta nel paesaggio che descrive. La sua senilità esce amplificata dal confronto con due figlie giovani, impegnate nel “movimento”, felicemente immerse in una stagione che vivono non come un tramonto, ma come promessa di una rivoluzione:
Il dramma del politico invecchiato con una figlia militante giovane, «nata tardi». Il suo sforzo di dissimulazione, per nascondere lo scetticismo e la sfiducia che lo invadono e lo permeano, per non turbare e inquinare l’entusiasmo e la fede di lei. Le parole e le domande di lei, le sue esperienze di milizia, a volte come colpi di manovella sul motore ormai arrugginito e impannato di lui, che riprende faticosamente a fare qualche giro, ma poi torna ad arrestarsi5.
Una di queste figlie sono andato a cercarla. Sapevo che si chiamava Silvia, che era la curatrice del libro che avevo tra le mani (insieme ad Alessandro Galante Garrone) e che da poco aveva curato anche l’edizione di un altro scritto di famiglia – questa volta del nonno Piero6 – di cui avevano parlato i giornali. Ci scambiammo alcune e-mail; le chiesi se ci fossero in casa altri diari di suo padre, altre testimonianze di questo scavo nell’interiorità che mi sembrava così inconsueto per un uomo politico, a maggior ragione per un comunista. Silvia mi spedì, praticamente “al buio”, sulla fiducia, sempre via e-mail, la trascrizione dell’epistolario di Franco con i genitori nei primi anni quaranta, e una memoria scritta da Maria Teresa Regard – moglie di Franco, madre di Silvia – sui suoi anni giovanili, fino al ’48. Mi invitò a Bruxelles, e ci andai.
Silvia mi parlò a lungo di sua madre e di suo padre, dei conflitti tra genitori e figli che di generazione in generazione avevano attraversato la sua famiglia, del lavoro che stava portando avanti sulle carte dei suoi. Mi raccontò soprattutto degli ultimi anni di Teresa, di come visse il processo a Priebke, di quanto intensamente avesse voluto comparirvi come testimone d’accusa, di cosa quell’evento avesse scatenato in lei, facendola ripiombare nel clima della clandestinità7. Anche Teresa era stata nei Gap, a Roma. In quel frangente aveva conosciuto Franco. Branda a branda, in uno dei covi. Da allora non si erano più separati.
Non so quanto possiamo immedesimarci, noi oggi, con quello che loro avevano vissuto a Roma nell’inverno del ’44. Non era poi tanto chiaro, standoci dentro, quale fosse la cosa giusta da fare. Mettere bombe e sparare a bruciapelo doveva fare una certa impressione, anche se lo si faceva in mezzo a una guerra. I Gap, piccolo gruppo di fuoco, quasi tutti giovanissimi, quasi tutti sino allora completamente digiuni di violenza, si improvvisarono giustizieri sulla base di un mandato politico che allora non era certo una garanzia. Era una scommessa, sul futuro e sul presente: ancor prima che gli esiti della guerra avessero stabilito da che parte fosse la ragione e da quale il torto – a Teresa e a Franco la Repubblica avrebbe conferito una medaglia d’argento – la partita si giocava giorno dopo giorno avendo per posta la sopravvivenza quotidiana: arrivare alla sera senza essere presi e ammazzati, vivendo in un labirinto, esposti alla massima precarietà, ma allo stesso tempo assaporando la massima intensità di vita, il cui gusto risaltava quando si sentiva così prossima la morte. Era necessario avere una fiducia totale nei compagni, anche se si sapeva che da tutte le parti c’era chi faceva il doppio, se non il triplo gioco. Spie che fingevano di essere spie al servizio di coloro che spiavano, e magari tradivano prima gli uni e poi gli altri. Il tema delle identità multiple, qui, non era un gioco post-moderno, ma una questione molto concreta...