Gli italiani di New York
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Gli italiani di New York

  1. 288 pagine
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Gli italiani di New York

Informazioni su questo libro

Il giudice di Madison Square, i difensori di Arthur Avenue, le panelle di Ridgewood, Staten Island fra Gesù e Mazzini, a Bensonhurst il prete di frontiera, i dollari di San Gennaro, la baronessa della Nyu, i banchi della Rutgers University, il veterano dell'Onu, i riformisti di Tammany Hall, da Koch a Bloomberg, generazione 'Streetfighter', l'imprenditore fuggito dall'Italia, dove regna Anna Wintour, la fisica teorica fra Lenin e Goldman Sachs, le quattro stelle di Lidia, lo scrittore di Ocean City, la regista afroitaliana, l'architetto del "New York Times", il designer dei pezzi unici…C'è un elemento che distingue gli italiani della Grande Mela: la convinzione che mettendocela tutta qui ogni risultato è davvero possibile. Per la semplice ragione che «"We are hardworking people", siamo gente che lavora sodo».A spasso per New York, con un corrispondente come amico per scoprire come ce l'abbiamo fatta.

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Informazioni

Il popolo

Gli eroi di Ground Zero

L’attacco all’America dell’11 settembre 2001 fa 2976 vittime delle quali 2752 trovano la morte a Ground Zero e fra queste 302 hanno cognomi di origine italiana. Fra loro vi sono 4 Esposito, 4 Mauro, 3 Giordano, 3 Marino, 2 Virgilio assieme ad Abate, Acquaviva, Amato, Angelini, Benedetti, Calcagno, Cannizzaro, Colasanti, Difazio, Fiori, Gallo, Ingrassia, Perroncino, Pugliese, Ragusa, Vitale e tanti altri ancora. A questi bisogna aggiungere gli italoamericani che hanno cognomi americani. Dopo anglosassoni e ispanici, gli italiani sono il gruppo etnico che somma più perdite nell’assalto dei 19 terroristi kamikaze di Osama bin Laden lanciatisi contro l’America a bordo di quattro aerei commerciali trasformati in rudimentali missili. Fra le 302 vittime italiane rimaste sotto le Torri Gemelle c’è Peter Ganci, di Massapequa a Long Island, il pompiere più alto in grado di New York con alle spalle trentatre anni di carriera, che all’età di cinquantaquattro anni quella mattina è al settimo piano del quartier generale del Fire Department a Brooklyn. Alle 8.46 vede dalla finestra del suo ufficio il volo 11 dell’American Airlines schiantarsi contro la North Tower e si rivolge d’istinto a Dan Nigro, capo delle operazioni dei pompieri: «Guarda, un aereo ha appena colpito il World Trade Center». Pochi minuti dopo sono a bordo di un’auto che a tutta velocità supera il ponte di Brooklyn e li porta a ridosso delle Torri. Assieme decidono di girargli attorno, guardando all’insù, per vedere quali sono i danni reali. La parte più colpita della North Tower è il lato nord, quello dell’impatto. Ganci stabilisce un punto di comando sotto la South Tower, alla base, e da lì guida per radio i pompieri che entrano nella North Tower. Alle 9.03 arriva il secondo schianto. Il volo United Airlines 175 colpisce la South Tower. Ganci e Nigro sono coperti di polvere, le radiotrasmittenti funzionano male, si dividono. «Chief Ganci», come tutti lo chiamano, capisce che la South Tower è in condizioni peggiori di quella North. Si mette a fare il vigile urbano di fronte al World Trade Center 1 per allontanare quante più persone possibile. Alle 9.59 la South Tower crolla e viene quasi sepolto ma, quando la polvere scende, assieme alla sua squadra riesce a uscire dalle macerie e riprende il lavoro. Dice ai suoi uomini «go North», andate verso nord, mentre lui fa l’opposto, torna verso sud sul luogo del crollo e crea un «posto di comando» da dove vuole cercare i sopravvissuti. Le testimonianze sui suoi ultimi attimi di vita lo descrivono «heading right back into the chaos», mentre si dirigeva verso il caos. Alle 10.28 crolla anche la North Tower e «Chief Ganci» muore dopo aver contribuito a mettere in salvo con i suoi pompieri quasi 20 mila persone. Sono 343 i pompieri che perdono la vita a Ground Zero, almeno 64 vengono da famiglie italiane. Fra i sopravvissuti c’è Daniel Tardio, capitano dell’Engine 7 nella sede di Duane Street, che arriva con i suoi uomini fin sotto la North Tower da dove vede «le persone che si gettano nel vuoto». Non dormirà per tre giorni di seguito.
Sono in migliaia a trovarsi dentro le Torri al momento dell’impatto e fra loro c’è Lucio Caputo, presidente dell’Italian Wine and Food Institute. Come ogni mattina arriva in ufficio alle 8 al 78° piano della Torre numero 1, quella Nord, e sale fino al 107° per fare colazione al Club Windows on the World, poi riscende alle 8.30. È al telefono con l’Italia quando un boato gli fa cadere la cornetta dalla mano. Lo specchio antico che di fronte a lui copre tutte la parete si sposta di un metro, va via la luce, le porte sbattono, suonano le sirene, dal soffitto cade talmente tanta polvere che il divano verde diventa bianco. Pensa a una bomba come avvenne nel 1993, prova a telefonare ma le linee sono cadute, esce in corridoio e si trova nella nebbia. Frammenti di marmo per terra, gente che piange e urla. Viene a sapere dell’impatto dell’aereo. Aspetta le istruzioni dall’altoparlante della Torre, come durante le esercitazioni, ma non succede nulla. Allora prende una torcia, una bottiglia d’acqua e un asciugamano bagnato e inizia a scendere per le scale, di corsa. Ha di fronte 78 piani. Al 40° piano incrocia i pompieri che salgono, appesantiti da maschere, tute e tubature. Chiede «Cosa è successo» e la replica è «I don’t know», non lo so. Si imbatte in una donna nuda, bruciata e senza pelle, e in un cieco accompagnato dal cane. Il tutto in un silenzio surreale. Lungo le scale c’è fair play, niente spintoni, la gente fa passare i feriti. Dopo un’ora arriva al 23° piano, dove due persone in abiti civili spingono tutti in una grande stanza con l’aria condizionata. Ma Caputo teme il peggio, cerca le scale di emergenza e corre ancora fino alla hall, irriconoscibile con vetri rotti, detriti, marmi e lampadari in frantumi, un’infinità di pezzi di carta che volano per aria. Esce e fugge verso Broadway in tempo per sfuggire all’onda di fumo che si sprigiona dal crollo, dentro la quale vi sono oggetti e detriti umani. «Sarà un ricordo che porterò con me per il resto della vita» dice, considerandosi «fortunato». Fra chi sopravvive c’è Andrea Fiano, corrispondente di «Milano Finanza» con l’ufficio dentro la sede di Dow Jones, e la cenere di resti umani gli fa tornare alla mente quanto passato dal padre Nedo, sopravvissuto oltre mezzo secolo prima ad Auschwitz.
Nei giorni dopo il crollo si contano i morti. Gli agenti del Police Department e di Port Authority caduti sono 58 e 9 di loro hanno un cognome italiano: Amoroso, Cirri, D’Allara, Infante, Langone, Mazza, Morrone, Pezzulo e Vigiano. Ogni funerale riunisce l’intero corpo di polizia. A tendere una mano alle famiglie dei caduti è il sergente Giovanni Porcelli, campano di Raito, presidente della Columbia Association che riunisce i poliziotti newyorkesi di origine italiana nel nome di Joseph Petrosino, il cui fratello ha un cognato morto a Ground Zero con la divisa dei pompieri. «L’11 settembre vi furono molte vittime fra gli italiani e l’impatto sulle famiglie è stato pesante, i lutti hanno portato dolore, dispute finanziarie, perdite di case. L’impatto della tragedia continua tutt’oggi» spiega Porcelli, soffermandosi sul fatto che «dall’Italia a offrire aiuto furono gruppi di carabinieri e polizia ma non il governo in quanto tale». Il gesto di solidarietà che più colpì gli agenti della Columbia Association fu l’iniziativa dei «colleghi e compatrioti» californiani nel Columbus Day che si celebrò circa un mese dopo il crollo delle Torri: quell’anno i poliziotti di New York non riuscirono a sfilare lungo la Fifth Avenue nella rituale parata che celebra l’eredità italiana e così il loro stendardo venne innalzato durante la sfilata di San Francisco.
Nel caso del Fire Department il bilancio di vittime è talmente pesante che il nuovo sindaco Michael Bloomberg il 1° gennaio 2002 decide di ristrutturarlo interamente. Il compito cade su Nicholas Scoppetta, classe 1932, padre di Amalfi e madre napoletana, cresciuto in un orfanotrofio di New York e divenuto viceprocuratore generale cittadino, che ricorda così i suoi primi giorni da Fire Commissioner: «343 vittime e pochi corpi recuperati, facevamo funerali senza le salme, dentro le bare non c’era nulla, ci stringevamo gli uni agli altri come una grande famiglia, fu terribile, bisognava ricostruire tutto». La conseguenza fu che molti dei sopravvissuti scelsero la pensione, lasciando il posto a nuove leve per le quali Scoppetta ha rimodellato i compiti e aggiornato la tecnologia «per poter affrontare ogni evenienza, anche la più terribile». Anche Scoppetta l’11 settembre era a Ground Zero: «I pompieri facevano a gara per essere assegnati, in ogni sede c’erano turni che si sovrapponevano, chiunque chiamammo rispose, vennero tutti, nessuno si tirò indietro e molti morirono per questo, come Chief Ganci».
Ma l’11 settembre continua a uccidere. Joseph Graffagnino, trentatre anni, di Brooklyn, cade il 23 agosto 2007, assieme a Robert Beddia, cinquantatre anni, di Staten Island, quasi sei anni dopo gli attacchi, nell’incendio che avvolge l’edificio della Deutsche Bank rimasto in piedi e in via di demolizione con la cura necessaria per poter prima recuperare tutti i resti umani che vi si trovano. John Botte invece rischia la morte. È l’agente di polizia a cui il comandante Bernard Kerik affida l’incarico di scattare migliaia di foto sui resti delle Torri: lavora senza pause sulle macerie fumanti dal 12 settembre al 31 dicembre 2001, inalando le esalazioni nocive che gli hanno distrutto i polmoni. «Sentivo di camminare dentro l’inferno, inalavo un vapore che mi consumava e l’aria era pesante, densa di ceneri, ma andai fino in fondo per documentare cosa era avvenuto» ricorda, tradendo un orgoglio che non è fiaccato dalla grave malattia. A ricordare vittime ed eroi «italiani e di origine italiana» di Ground Zero è una targa in pietra all’entrata della sede del Consolato su Park Avenue, posizionata in maniera da farla vedere a chiunque entri.

Police Plaza

La piramide rovesciata in mattoni rossi, alta tredici piani, al numero 1 di Police Plaza, il quartier generale della polizia di New York, per trent’anni è stata la casa di George Grasso, che fino al 2009 ha ricoperto il ruolo di First Deputy Commissioner del Dipartimento ovvero l’agente n. 2 della città. I newyorkesi conoscono il suo nome perché dopo l’11 settembre il capo della polizia Ray Kelly gli affida il coordinamento delle attività con l’Fbi, il che implica avere le chiavi della sicurezza cittadina, a cominciare dagli avveniristici megacomputer del Real Time Crime Center, all’ottavo piano del quartier generale: nel maggio 2010 hanno consentito di individuare in 53 ore l’identità del terrorista pakistano-americano Faisal Shahzad che aveva lasciato un’autobomba davanti al Miskoff Theatre di Times Square con l’intento di compiere una strage di bambini. George Grasso viene da una famiglia originaria della Basilicata e la sua identità italiana è soprattutto legata al nonno Angelo, nato nel 1897 alla periferia di Melfi, che dopo aver visto da vicino gli orrori della Prima guerra mondiale combattendo sulle Alpi decide di lasciare tutto e andare in America. Arriva a Ellis Island il 16 marzo 1921 con 20 dollari in tasca dopo due settimane di navigazione. Agli ufficiali che lo interrogano dice di non essere «né criminale né poligamo» e quando gli consentono di sbarcare va a trovare una sorellastra al 2355 di Atlantic Avenue, a Brooklyn, dove si insedia. La prima cosa che fa è cercare moglie, lucana come lui. A colpirlo è Maria Fabrizio, di nove anni più giovane, perché la vede in strada mentre trascina un grande sacco di spazzatura e si convince che una donna con tale forza fisica fa per lui. Si sposano nel 1922, hanno sei figli – quattro maschi e due femmine – e Angelo inizia a lavorare fabbricando mattoni, poi si mette a fare il cuoco. La sua passione è il vino e, proprio come avveniva a Melfi, inizia a farlo nella cantina di casa a Rockaway Avenue. È vino rosso. L’odore riempie l’abitazione, giorno e notte. Lui ne è orgoglioso. Educa i figli ai valori di lealtà, lavoro duro e apprezzamento per il buon cibo. Non va mai al ristorante perché convinto che a casa si mangia meglio e quando i figli crescono, si sposano e nascono i nipoti è il suo vino rosso, al pari di ravioli e linguine, a diventare l’ossatura della coesione famigliare. Il figlio George, padre dell’omonimo First Deputy Commissioner, è un tipografo che ogni giorno torna a casa alle 17 per mangiare puntuale con moglie e figli, tutti attorno al tavolo. Per il piccolo George il momento più atteso della settimana è la domenica mattina, quando tutti gli uomini della famiglia Grasso – una quindicina – si ritrovano per giocare a bocce mettendo in palio un tacchino e poi corrono a casa a mangiare pasta fatta in casa, al sugo. «Per mio nonno come per mio padre la famiglia era tutto – racconta George, parlando in un inglese costellato di frequenti parole italiane – e se avevano il culto del lavoro duro era perché serviva a mantenerla, niente altro era importante». Nel 2006 George va per la prima volta a Melfi, cerca e trova l’anziana Luigina, sorella del nonno, che lo accoglie con un molto famigliare «perché ci hai messo tanto a venire?». Quel giorno mangiano assieme pasta fatta in casa e vino rosso. Come faceva Angelo. Ma perché il nipote del cuoco e figlio del tipografo ha scelto di fare il poliziotto? «Perché credo nel lavoro duro e nella lealtà che mi sono stati insegnati» risponde. Per spiegare cosa intende per lealtà racconta cosa avveniva nel giorno di Natale – «il più bello dell’anno» – in casa Grasso: nonno Angelo si vestiva da Babbo Natale e alle 21 in punto scendeva le scale dal piano di sopra per consegnare i regali ai nipoti, che però dovevano essere «leali fra loro» ovvero mettersi in fila uno dietro l’altro dal più piccolo al più grande. «Se qualcuno barava sull’età, Babbo Natale lo scopriva e lo mandava dietro, in fondo alla fila». Come Grasso anche il sergente Giovanni Porcelli si sofferma sul concetto di «lealtà» per spiegare perché «di generazione in generazione gli italiani vestono la divisa e portano il distintivo». «Lealtà significa lavorare duro per mantenere la famiglia, dare sicurezza ai parenti, senza protestare per la fatica che ciò comporta» sottolinea Porcelli, che dopo essere andato in pensione lavora per la sicurezza dell’American Express nella sede al numero 200 di Vesey Street proprio a ridosso di Ground Zero. A suo avviso «la sicurezza può venire tanto dall’essere nella polizia che nella mafia, con la differenza che nel primo caso è legittima e nel secondo illegittima». Molte famiglie si sono spaccate fra le due fedeltà, ci sono poliziotti con fratelli mafiosi e viceversa fra i quali c’è un «reciproco rispetto», come avviene fra «parenti nemici» anche perché «di esempi simili ve ne sono tanti, basti pensare ai soldati italoamericani che sbarcarono in Sicilia per combattere contro i loro fratelli arruolati dai fascisti». «Ma se contiamo il numero degli italiani in divisa e quelli dentro il crimine organizzato ci accorgiamo che i primi sono di gran lunga di più» sottolinea Grasso. In effetti gli italiani sono i più numerosi nel corpo di polizia dopo gli irlandesi. «Polizia e pompieri sono i corpi più ambiti dagli immigrati perché consentono una rapida integrazione» concordano Grasso e Porcelli, secondo cui «l’integrazione degli italiani nel tessuto di New York deve molto ai distintivi d’argento». Da qui l’importanza di Joe Petrosino, il poliziotto campano che per primo spinse gli italiani a rompere l’omertà che proteggeva i criminali della Mano Nera, e che a oggi resta l’unico agente di New York caduto all’estero, essendo stato ucciso mentre era in missione a Palermo nel 1909. La piazza che porta il suo nome sorge alla confluenza fra Lafayette Street e Spring Street, nel cuore della vecchia Little Italy dove prima di lui spadroneggiavano i clan mafiosi che facevano capo a Don Vito Cascio Ferro, il padrino dell’epoca. «Joe Petrosino è simbolo di orgoglio e dedizione per tutti noi» sottolinea Porcelli, paragonando il suo assassinio da parte dei clan a quello «del sindacalista Marco Biagi compiuto dai brigatisti rossi». Ogni mese sono circa 400 i poliziotti italiani che si ritrovano nel club intitolato a Petrosino. Si tratta in gran parte di veterani della lotta a Cosa Nostra, che oggi si chiama «crimine organizzato», le cui radici sono nel fenomeno stesso dell’immigrazione perché quando alla fine dell’Ottocento la gente arrivava senza nulla e aveva bisogno di tutto «la polizia era nemica, essendo composta quasi solo da irlandesi, e chiedeva aiuto a chi poteva darlo, in Sicilia o a New York». Sono due i motivi per cui Petrosino è un esempio per i poliziotti di origine italiana: riuscì a cambiare l’immagine della divisa «da nemica ad amica» a Little Italy e inventò le Bomb Squad, che si infiltravano nei clan, per comprendere le evoluzioni contemporanee del crimine. «Anche oggi la mafia si trasforma, di continuo, e il suo nuovo fronte d’azione è quello finanziario» conclude Porcelli, spiegando che se in America la criminalità organizzata italiana è scivolata alle spalle delle concorrenti cinese e russa «a New York resta in cima alla classifica» grazie all’aggressività della ’ndrangheta calabrese.

Ammiragli e generali

Il comandante dei sottomarini della Nato, il primo marine a guidare le intere forze armate degli Stati Uniti e l’ufficiale che comandava i soldati che hanno catturato Saddam Hussein sono tutti generali di origine italiana che in comune hanno un forte senso della famiglia. Per capire meglio chi sono bisogna iniziare da Thompson Street al Greenwich Village. È la strada che molti newyorkesi conoscono per Le Poisson Rouge, sull’adiacente Bleecker Street, il locale di spettacoli burleschi rifugio notturno di molti squattrinati nei mesi duri seguiti al sisma finanziario del 2008. Ma all’inizio del Novecento Thompson Street è una strada dove si parla quasi solo italiano e al civico 206 Emma Capellino cresce nella Italian Fine Cake Bakery vendendo pane appena sfornato e dolci delle Marche, da dove sono immigrati i genitori. Emma Capellino è la «nonna» della quale l’ammiraglio Edmund Giambastiani parla quando si tratta di raccontare la sua identità italiana. Giambastiani è l’ex comandante della flotta sottomarina della Nato – uno degli incarichi più delicati del Pentagono – che George W. Bush soprannomina «Admiral G» assegnandogli nel 2005 l’incarico di vicecapo degli Stati Maggiori Congiunti che ricopre fino al 2007. Per la comunità italoamericana è uno degli onori più grandi, anche perché Giambastiani è nato e cresciuto a Canastota, un villaggio di 4425 anime vicino al lago Oneida, a nord di New York, dove quasi tutti gli abitanti hanno la stessa origine. Siamo nella contea di Madison dell’Upstate New York, fra Syracuse, Milan e Rome, dove gli immigrati provenienti da famiglie contadine si insediarono in massa fra fine Ottocento e inizio Novecento andando a lavorare in miniere, fabbriche e lungo il fiume Erie: venire da qui significa essere cresciuto in una sorta di isola italiana incastonata nel New England. Giambastiani riceve così nel 2008 la nomina a Grand Marshal della parata italiana del Columbus Day lungo la Fifth Avenue ed è questo il momento in cui, con la fascia tricolore al petto, parla per la prima volta in pubblico del rapporto con nonna Emma: «Quando penso a cosa significhi per me essere italiano, la mia mente va alla famiglia, alla mia famiglia, ai miei genitori e nonni che non ci sono più e in particolare a mia madre e soprattutto a mia nonna materna che mi hanno allevato con una straordinaria quantità di affetto, è la base della mia italianità». In realtà l’identità italiana del generale che ha guidato alcune delle operazioni sottomarine più segrete degli ultimi anni ha radici che si diramano un po’ ovunque: se i nonni paterni arrivarono da Lucca e quelli materni da Montemarciano, in provincia di Ancona, il padre artigiano delle decorazioni viveva a Staten Island e lavorava a Manhattan – dove prese parte alla realizzazione del Chrysler Building – prima di sposarsi e andare a Canastota. «I miei nonni si sono dedicati sempre a questo grande Paese e ai figli ma hanno sempre guardato con affetto alla patria dei loro antenati» sottolinea l’ammiraglio, descrivendo l’equilibrio costante vissuto fra due patriottismi.
Se Giambastiani nel giorno del Columbus Day parla della nonna, il suo diretto superiore è anch’egli d’origine italiana e nel momento più importante della carriera si commuove ricordando i genitori. Stiamo parlando di Peter Pace, il primo soldato del corpo dei marines a diventare nel 2005 capo degli Stati Maggiori Congiunti. Nato a Brooklyn in una famiglia originaria di Noci (Bari), cresciuto a Teaneck nel New Jersey, giocatore appassionato di calcio e alunno modello, Peter Pace nel 1968 è in Vietnam e guida un plotone di marines alla riconquista della cittadella di Hue durante una delle battaglie più cruente dell’Offensiva del Têt. Gli cadono accanto cinque dei suoi uomini e la foto del primo a morire, il soldato scelto Guido Farinaro, è da quel momento sempre su ogni sua scrivania di comando. Somma i teatri militari in Giappone, Corea e Thailandia e nell’aprile del 2003 è un alto ufficiale dei reparti di marines che entrano a Baghdad, dimostrando nell’occasione anche non comuni capacità di dialogo con i grandi media. La doppia qualità colpisce Bush, che lo richiama a Washington per assegnargli il grado più alto delle Forze armate. È il primo italoamericano a ricoprire questo ambito incarico ma la ratifica della nomina spetta alla commissione Forze armate del Senato, che lo chiama a deporre il 10 luglio 2006 nel Chapman Conference Center di Miami. Fra i senatori che lo bersagliano di domande sulle difficoltà della guerra in Iraq e sui rapporti col ministro della Difesa Donald Rumsfeld ci sono pesi massimi di Capitol Hill come Ted Kennedy, John McCain e Lindsey Graham. Il generale Pace risponde a ogni quesito con fermezza e competenza incarnando una miscela perfetta fra militare e uomo di comunicazione, ma tutto svanisce in un attimo quando si trova a parlare delle origini pugliesi. Racconta la povertà in cui viveva da piccolo nella casa di Brooklyn, il liceo a Teaneck, e si sofferma sui sacrifici del padre e gli stenti della madre per riuscire a crescere quattro figli, portandoli tutti a lauree che gli hanno schiuso successi e prosperità. È una sintesi dell’American dream che porta alle lacrime il generale, al punto da non essere più in grado di parlare, precipitando l’aula nel silenzio. «Ci ha commosso enormemente – gli dice Ted Kennedy – speriamo che il Congresso e l’America la ascoltino». «Quando si ha sangue italiano – aggiunge il senatore repubblicano Graham, della South Carolina – non si resiste al cuore, solo un vero marine riesce a piangere». Proprio su questa impronta del «sangue italiano» Pace si sofferma spesso, descrivendosi così: «Sono chiaramente un americano ma apprezzo le mie radici. Ho imparato da giovane l’importanza di avere sangue italiano, che fa battere forte il cuore quando ci si emoziona. Avere sangue caldo spesso mi è ...

Indice dei contenuti

  1. — mappa di New York
  2. — dedica
  3. Introduzione
  4. Il popolo
  5. La fede
  6. L’Italia
  7. La politica
  8. Il business
  9. Le arti
  10. Mappe dei luoghi visitabili
  11. Illustrazioni