Vivere per scrivere
eBook - ePub

Vivere per scrivere

40 romanzieri si raccontano

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Vivere per scrivere

40 romanzieri si raccontano

Informazioni su questo libro

Quaranta romanzieri raccontano come nascono le storie, da dove viene l'ispirazione, con quali metodi hanno scritto i loro libri più belli. Una passeggiata con gli autori più amati, tra confessioni, aneddoti e incontri miracolosi. Sabina Minardi, "L'Espresso"

«Per scoprire che cos'è e come si scrive un romanzo, non c'è niente di meglio che interrogare uno scrittore. E di scrittori, grazie al mio lavoro di giornalista, ho avuto la fortuna di incontrarne tanti. In queste pagine, quaranta di loro parlano dei libri che scrivono e di quelli che amano, di come nasce una storia e del proprio metodo narrativo, dei propri maestri, delle proprie vite.»

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Informazioni

Nick Hornby

Se i grandi romanzi potessero incrociare i guantoni sul ring con le grandi opere della musica, della pittura, del cinema, il più delle volte, secondo Nick Hornby, vincerebbero i romanzi. «Il Cenacolo di Leonardo da Vinci contro Delitto e castigo di Dostoevskij? Vince ai punti Dostoevskij in quindici riprese».
Diventato un grande scrittore grazie alle liste, di dischi preferiti e di ex fidanzate in Alta fedeltà, di memorabili partite di calcio in Febbre a 90°, era inevitabile che, prima o poi, Hornby producesse una lista di libri. Una vita da lettore è una raccolta di recensioni scritte per un mensile alternativo americano. È quindi, a prima vista, un libro sui libri, l’elenco dei titoli di narrativa e saggistica da lui amati e consigliati. Ma è anche una passeggiata fra i libri: un modo per orientarsi fra classici e best seller, biografie e poesia, erotismo e manuali fai-da-te, fra libri comprati e mai letti, libri che prima o poi bisognerà leggere ma non si ha ancora avuto la forza di cominciare, libri che ogni tanto è meglio mollare per andare a vedere una partita di pallone, libri in cui ci si vorrebbe perdere. La biblioteca ideale di uno scrittore, che è anche, inevitabilmente, la ‘cucina’ della sua arte. Con la consueta leggerezza e ironia, l’autore confida le sue preferenze, le sue antipatie e soprattutto restituisce una gioiosa e vitale voglia di leggere. Sostenendo che la letteratura è più forte di tutte le arti: i romanzi stendono al tappeto perfino il calcio, aggiunge quando ci incontriamo, pur essendo un tifoso sfegatato del football in generale e dell’Arsenal in particolare.
Dice proprio sul serio, signor Hornby?
«Oh sì! Mi capita di vedere una o due partite di calcio veramente buone a stagione, ma so di poter leggere un libro che mi piace, un buon libro o talvolta un grande libro, praticamente ogni settimana. Certo, un romanzo non può produrre l’esplosiva eccitazione di un gol. Ma non può nemmeno deprimerti come una brutta partita di calcio, perlomeno non intenzionalmente».
Come fa lei in questo libro, anche Hemingway usò la metafora della boxe, immaginando in che modo se la sarebbe cavata, sul ring, contro alcuni dei giganti letterari del passato, per esempio affrontando Tolstoj. Chi sono a suo parere i campioni del mondo del romanzo, nelle categorie pesi leggeri, pesi medi, pesi massimi?
«Dickens, credo, è il Mohammed Alì della narrativa. Non si tratta soltanto del ‘peso’ dei suoi libri, ma dell’energia, della vitalità, dell’ambizione che c’è dentro. Il mio campione dei massimi è lui. Anne Tyler è la mia preferita nei pesi medi, e naturalmente questo, come nella boxe, non significa che sia uno scrittore di minor valore, soltanto che tira pugni in una categoria differente. E Wodehouse, nessuno può tenergli testa tra i pesi leggeri».
Stiamo parlando di narrativa. Ma legge anche saggistica? Sceglie l’una o l’altra secondo il caso, l’umore o che cosa? E a suo parere è vero che un thriller va bene per un lungo viaggio in aereo o per una vacanza su una spiaggia, mentre un romanzo letterario necessita circostanze di lettura differenti e un libro di saggistica altre ancora?
«Col tempo mi sono reso conto che il cervello mi dice quello di cui ha voglia e bisogno, proprio come lo stomaco certe volte dice se vuole una banana o una bistecca. Così ogni tanto sono stufo di leggere narrativa perché ne ho fatta una abbuffata, e di colpo ho voglia di qualcosa di reale, o di istruirmi un po’ su un particolare argomento. Quanto al resto, l’unico momento in cui riesco a leggere un libro grosso e serio è quando ho il tempo di farlo con continuità e tranquillità, in vacanza su una spiaggia. I thriller dovrebbero essere tenuti come lettura domestica, quando sei stanco morto dopo una giornata di lavoro».
Italo Calvino scrisse un bellissimo libro intitolato Perché leggere i classici. Perché leggerli, ammesso che secondo lei sia obbligatorio?
«Non penso affatto che sia obbligatorio. Da troppe parti ci sentiamo dire quel che ‘dobbiamo’ leggere e ciò distrugge il piacere della lettura. Io preferisco dire alla gente che leggere è divertente, è una godibile e coinvolgente alternativa alla televisione o al cinema. Mentre di solito i critici dei giornali raccomandano di leggere ciò che dovrebbe farci bene, come se la letteratura fosse cibo dietetico e il resto della cultura cioccolata. Se le cose stanno così, non c’è da sorprendersi che sia difficile persuadere la gente a comprare libri. Se uno ‘vuole’ leggere i classici, li legga. Ma se leggerli gli sembra un’agonia, ci rinunci».
Grandi libri, nel senso di lunghi, con centinaia e centinaia di pagine; e piccoli libri, nel senso di smilzi: è più facile leggere i primi quando si è giovani? Viene un momento, nella vita di un lettore, in cui si pensa: non ce la farò a rileggere un’altra volta Guerra e pace o a colmare la lacuna di non avere mai letto Alla ricerca del tempo perduto?
«Penso che la cosa più difficile sia leggere grossi libri quando uno lavora, ha dei figli, una famiglia. Forse, chissà, ridiventa facile quando si è più anziani, in pensione? Uno dei miei contrasti con i critici letterari è che, se vieni pagato per leggere, se leggere è il tuo mestiere, allora il tuo modo di leggere non dovrebbe interessare o insegnare niente a nessuno. Se per esempio sei un critico, e leggi un romanzone impegnativo alle undici del mattino per venti mattine consecutive, allora la tua esperienza di lettura è molto diversa da quella della maggior parte della gente, che lo leggerà di sera, a letto, in preda alla stanchezza, al ritmo di un paio di pagine a notte per cinquecento notti».
A proposito di riletture, una volta un letterato russo annotò nel suo diario: «Ho appena finito Guerra e pace per la quindicesima volta e ho finalmente compreso il significato della mia vita». Le è mai capitato un momento del genere?
«No, e francamente mi fido poco di chi dice che gli è capitato. Concordo con chi sostiene che le arti, compresa la letteratura, non ci aiutano a vivere meglio tanto quanto noi speriamo o vorremmo credere».
In Come un romanzo Daniel Pennac sostiene che il lettore non deve sentirsi in colpa se interrompe a metà un libro che non gli piace. Su questo è d’ accordo?
«Assolutamente sì. Con tutto il resto è lecito non insistere, spegniamo la tivù, togliamo un disco, ma c’è questa idea assurda che un libro ci faccia bene soltanto se è noioso. Ci sono libri meravigliosi, capaci di ispirare e intrattenere, per ognuno di noi. Perciò, se il libro che hai in mano ti sembra una fatica improba, chiudilo, significa che non fa per te. E non vuol dire che sei uno stupido, se lo chiudi».
Lei ama i libri. Li amo anch’io. Ma come possiamo fare in modo che i nostri figli li amino allo stesso modo? Ed è verosimile aspettarsi che i figli apprezzino i libri che hanno commosso i loro padri, quando erano ragazzi? Ha senso aspettarsi che leggano I tre moschettieri, L’isola del tesoro, Le avventure di Tom Sawyer, come li abbiamo letti noi?
«Secondo me tutto appartiene a una determinata epoca storica. Non c’era nulla di permanente o universale in Tom Sawyer o in L’isola del tesoro, e la verità è che io e lei, quando li abbiamo letti, eravamo più vicini alla loro data di pubblicazione di quanto ci piacerebbe ammettere! Da allora sono trascorsi un bel po’ di anni, ed è improbabile che quei libri abbiano ancora un significato per i ragazzi d’oggi. Recentemente è stato chiesto a un gruppo di scrittori inglesi di fare una lista dei dieci libri che ogni bambino dovrebbe leggere prima di finire le scuole, e il nostro poeta laureato, Andrew Motion, ha scelto titoli come Ulisse e Don Chisciotte. Beh, io credo che un simile approccio uccida la lettura. Dobbiamo insegnare ai ragazzi che leggere è un piacere, non un lavoro».
Parliamo di un altro dei suoi libri. È la notte di Capodanno. In cima a un grattacielo londinese, mentre tutti attorno brindano, bevono e festeggiano, un presentatore televisivo in profonda crisi professionale e coniugale contempla la città dall’alto, un attimo prima di buttarsi giù. Senonché, quando sta per compiere il passo decisivo, si accorge di non essere solo: vicino a lui c’è una ragazza-madre, senza lavoro, senza marito, senza speranze, in procinto di farla finita. Ma non è tutto: spuntano pure, in cima al grattacielo, una quindicenne in lacrime e un musicista fallito, anch’essi andati lì per suicidarsi. Forse sono un po’ troppi per riuscirci, e infatti le loro tragedie individuali, grazie a questa paradossale situazione, assumono una vena imprevista, perfino umoristica: i quattro disperati fanno conoscenza, scoprono nuovi desideri, vengono gradualmente rimessi in piedi da una corrente di solidarietà reciproca. È la trama di Non buttiamoci giù. Il «Sunday Times» l’ha definita «lo scrittore migliore della sua generazione», cresciuta con lei, identificandosi nei suoi libri, nei suoi tic, nelle sue passioni: l’amore per la musica rock e per il calcio, da giovani, la ricerca dell’anima gemella e i problemi di mettere su famiglia, da adulti, lo spaesamento, i sogni e le paure della mezza età, in seguito. La sua opera è stata per gli inglesi e non solo per gli inglesi una sorta di autobiografia collettiva: ora, con questo libro, l’autobiografia accenna un metaforico salto nel vuoto? Vorrei chiederle, insomma, come mai ha scritto un romanzo sul suicidio: ma poi mi è venuto in mente che i precedenti sono fortemente basati sulle sue esperienze personali e ho quasi ritegno a porre la domanda.
«Non sono ancora morto, se è questo che vuole sapere: una volta tanto un mio romanzo non ha nulla di autobiografico. Avevo letto un paio di notizie sull’argomento: il fatto che certe notti dell’anno c’è un picco nel numero dei suicidi; e che ci sono luoghi, alcuni ponti per esempio, in cui molti vanno a togliersi la vita. Questo mi ha fatto pensare all’ipotesi di più persone che si incontrano, nello stesso momento, nello stesso posto, per suicidarsi».
E soltanto da lì è nato il romanzo?
«Riconosco che non è una risposta completa. Deve esserci un motivo più intimo, se ho pensato a un romanzo sul suicidio. Sebbene non fossi tentato dal commetterne uno, ero attratto dal tema. Mi attirava perché mi ha permesso di sviluppare la mia naturale inclinazione alla malinconia e al pessimismo, per poi tentare di redimerli con un guizzo di fiducia nella vita».
Lasciando perdere il suicidio, è mai stato male, nei guai, in crisi, come i personaggi della sua storia?
«Adesso sto benone, toccando ferro, ma non faccio fatica a identificarmi con quei personaggi. Ho un figlio disabile. So cosa significa temere di non riuscire a esprimere il proprio talento. E so che chiunque può cadere in preda a un’incontrollabile depressione, di colpo, senza un motivo apparente».
Il titolo del romanzo, in italiano, ha un doppio senso: non buttiamoci giù dalla cima del grattacielo ma anche non intristiamoci troppo, non vediamo tutto nero. È questo secondo lei, il messaggio del libro?
«In effetti, in italiano il titolo dice tutto: potrei consigliare al mio editore di pubblicare solo quello, lui risparmierebbe sulla carta e i lettori risparmierebbero tempo. Scherzi a parte, l’idea è sforzarsi di vedere il bicchiere mezzo pieno, ricordarsi sempre di chi se la passa peggio, magari molto peggio. Il che non significa accontentarsi. Ma talvolta basta cambiare di un millimetro il proprio punto di vista per vedere la realtà in tutt’altro modo».
In testa al libro ha messo una spiritosa epigrafe che dice: «La cura dell’infelicità è la felicità». Nel primo capitolo c’è una battuta ironica sugli psicoanalisti. And...

Indice dei contenuti

  1. Quaranta più uno
  2. Prologo. Charles Bukowski
  3. Nick Hornby
  4. Martin Amis
  5. Ian McEwan
  6. Frederick Forsyth
  7. Zadie Smith
  8. Julian Fellowes
  9. P.D. James
  10. James G. Ballard
  11. J.K. Rowling
  12. Hilary Mantel
  13. Michel Faber
  14. Sophie Kinsella
  15. William Boyd
  16. Hanif Kureishi
  17. Alan Bennett
  18. Howard Jacobson
  19. Peter James
  20. Paula Hawkins
  21. Al Alvarez
  22. Esther Freud
  23. Annalena McAfee
  24. Jonathan Coe
  25. Irvine Welsh
  26. John Banville
  27. Roddy Doyle
  28. Catherine Dunne
  29. Sam Millar
  30. Eugen O. Chirovici
  31. Bret Easton Ellis
  32. Clive Cussler
  33. J.J. Abrams
  34. Nathan Englander
  35. Amos Oz
  36. David Grossman
  37. Abraham B. Yehoshua
  38. Aleksandr Solgenitsyn
  39. Anatolij Rybakov
  40. Evgenij Evtushenko
  41. Aleksandra Marinina
  42. Epilogo. Una visita a casa Tolstoj