Hitler e il nazismo
di Vittorio Vidotto
Berlino agli inizi degli anni Trenta era una grande città moderna di straordinaria vivacità culturale, politica ed economica. Brillava nelle arti tradizionali e in quelle di avanguardia, cinema, letteratura, pittura, poesia, teatro. Celebrata nel suo modernismo con il ritmo delle immagini nel film Berlin, die Symphonie der Großstadt (Berlino, sinfonia di una grande città , 1927) di Walther Ruttmann e nel suo dinamismo sociale in Menschen am Sonntag (Gente di domenica, 1929) di Robert Siodmak e Billy Wilder (due cineasti destinati a grande fortuna a Hollywood), Berlino con le sue numerose ferrovie metropolitane sotto e sopra il livello stradale, il traffico intenso e la grande animazione appariva come la più americana delle città europee. Una forte componente di ebrei largamente assimilati primeggiava nelle arti, nelle professioni e nelle attività imprenditoriali. Con quasi quattro milioni e mezzo di abitanti racchiudeva tutte le tensioni e le conflittualità di oltre un decennio di esasperata violenza politica. La presa del potere nazista avrebbe spento le avanguardie, annientato le opposizioni, ma non avrebbe rallentato la modernizzazione della città culminata nel grande successo organizzativo delle Olimpiadi del 1936. Nove anni dopo Berlino era un ammasso di rovine, occupata da eserciti stranieri, con una popolazione ridotta e stremata, vittima di ogni possibile violenza e rappresaglia (fig. 1).
Fig. 1. Le rovine di Berlino alla fine della seconda guerra mondiale.
Non solo Berlino ma anche Amburgo, Colonia, Essen, Lipsia, Dresda, città antiche e recenti insediamenti industriali, erano stati largamente distrutti. La Germania aveva perso su tutti i fronti 3.250.000 soldati, ma più alto, 3.600.000, era il numero dei civili caduti. Mentre le vittime sovietiche della guerra tedesca assommavano a 10.000.000 di caduti in azione, a cui dovevano aggiungersi i 3.300.000 morti in prigionia e nei lavori forzati nei territori controllati dai tedeschi e i 7.000.000 di civili. In questa ecatombe vanno contati anche 6.000.000 di polacchi e infine 6.000.000 di ebrei di ogni parte di Europa1.
Il vento della distruzione, partito dalla Germania, aveva attraversato tutta l’Europa e coinvolto parte del Pacifico e dell’Asia orientale. Come era potuto accadere?
Nella visione semplicistica della dinamica di quegli anni la Germania e Adolf Hitler, il dittatore tedesco al potere dal gennaio 1933, portano per intero la responsabilità dello scatenamento della seconda guerra mondiale.
La questione della responsabilità unica o prevalente non è il terreno su cui preferiscono misurarsi gli storici, inclini invece alla ricerca di spiegazioni più articolate, legate alla varietà e complessità delle forze interagenti sulla scena del mondo. Tuttavia di fronte a eventi così drammatici e distruttivi il fascino di una interpretazione semplice e forte rimane intatto per l’opinione diffusa, rafforzato dall’esito dei processi istituiti dai vincitori dopo la guerra.
Semmai un nodo interpretativo che non ha perso la sua forza è quello relativo alla particolarità della storia tedesca nel suo insieme, caratterizzata secondo l’opinione di molti, pubblicisti più che storici, da fattori permanenti e antichissimi che giustificherebbero gli esiti finali del nazismo. Così il problema delle responsabilità potrebbe essere riformulato secondo l’interrogativo: fu la colpa di un uomo solo, affiancato da un’élite politica e partitica, o quella invece di un intero popolo?
A questo riguardo è illuminante un breve testo, tratto dalla voce dedicata a Hitler nella seconda appendice dell’Enciclopedia Italiana (Treccani) del 1948, scritta quindi a poca distanza dagli avvenimenti.
I giudizî sul fenomeno H. si imperniano su due posizioni estreme e antitetiche: chi vede in esso il satanico spirito del male, piombato a turbare il corso della storia tedesca e a corromperne l’anima, imponendosi con la violenza di una «gang» catilinaria; chi vede in esso l’espressione, portata a gradi parossistici, di tendenze che sarebbero immanenti all’animo tedesco e alla sua storia. La prima interpretazione vuole scagionare la nazione tedesca da ogni colpa, vittima essa per prima della tirannide nazista; la seconda coinvolge in una stessa responsabilità H., nazismo, nazione tedesca. Ma se è vero che H. fu una forza elementare, ossessiva nel caparbio martellare su alcuni pochi concetti non originali razzolati nel ciarpame della sua scarsa e dozzinale cultura, figura di «meneur» di folle quale può sorgere presso ogni popolo, non è men vero che il modo e la misura in cui quella forza si impose, fu accettata, si svolse ed operò, rispondevano ad atteggiamenti tipici dello spirito tedesco, quale si era venuto formando storicamente, anche nelle sue doti migliori: il senso del dovere, lo spirito di obbedienza e di sacrificio, la volontà di riscatto dalle umiliazioni di Versailles, doti che H. e il nazismo piegarono ai lor fini, esasperarono, pervertirono fino all’epilogo nibelungico di Berlino2.
Le due posizioni enunciate in questo testo tendono in genere a sovrapporsi collocandosi saldamente nelle opinioni diffuse sulla Germania e sui tedeschi. Tuttavia oggi sono ormai diversi gli strumenti di analisi che gli storici mettono in campo per analizzare l’ascesa del nazismo, la conquista del potere, il consenso e la repressione, la guerra, lo sterminio, la sconfitta. Credo quindi sia opportuno abbandonare il terreno degli stereotipi, e provare a ragionare sui fondamenti del potere e le dinamiche del consenso in un’epoca segnata dal protagonismo delle masse e dalla utilizzazione consapevole ed efficiente dei mezzi di comunicazione. Senza la radio, e prima ancora senza il microfono per l’amplificazione della voce, e senza il cinema, non è neppure pensabile l’ascesa e il successo politico di Hitler.
Ma prima ancora è nella guerra mondiale e nel suo esito che va individuato l’evento periodizzante per l’Europa, per la Germania e per la stessa biografia di Hitler.
Hitler era nato nel 1889 da una famiglia della piccola borghesia provinciale austriaca, da poco uscita dal mondo contadino. Dopo la scuola dell’obbligo si trasferì a Vienna, nella speranza di iniziarvi una carriera artistica di pittore o architetto, ma non fu ammesso all’Accademia delle Belle Arti. Era un autodidatta e assorbì, nell’atmosfera viennese, quell’antisemitismo radicale che era così diffuso nella capitale dell’Impero e che sarebbe rimasto l’elemento dominante e ossessivo della sua ideologia. Era un irregolare, uno spostato, un originale, ostile a ogni forma di disciplina, tant’è vero che, quando fu il momento di rispondere alla leva militare, si trasferì nella vicina Germania, a Monaco di Baviera. Fuggì dunque da un obbligo di disciplina, ma qui, travolto dagli entusiasmi per lo scoppio della guerra, si arruolò volontario in un reggimento della fanteria bavarese. Combatté come portaordini sul fronte occidentale, fu ferito due volte – una volta alla gamba e una volta agli occhi – e ottenne due decorazioni, la Croce ...