Spiegare la disuguaglianza
Come si spiegano queste tendenze inquietanti? Tradizionalmente esiste una forte discordanza di opinioni fra i vari economisti e studiosi della società riguardo alle cause della disuguaglianza. Nell’Ottocento si provarono a spiegare e giustificare (o criticare) i livelli palesemente alti di disparità. Marx parlava di sfruttamento. Nassau Senior, il primo titolare della cattedra Drummond all’All Souls College di Oxford (la prima cattedra di economia della storia), parlava dei rendimenti di capitale come di un pagamento per l’astinenza dei capitalisti, il loro «non consumo»1: non era sfruttamento del lavoro, ma la giusta ricompensa per la loro rinuncia a consumare. Gli economisti neoclassici svilupparono la teoria della produttività marginale, secondo cui la retribuzione riflette più in generale il contributo dei vari individui alla società.
Mentre il concetto di sfruttamento suggerisce che chi sta in alto ottiene quello che ottiene togliendolo a chi sta in basso, secondo la teoria della produttività marginale chi sta in alto riceve semplicemente quello che dà. I sostenitori di questa visione sono andati oltre, ipotizzando che in un mercato competitivo il fenomeno dello sfruttamento (per esempio, come effetto di un potere di monopolio o della discriminazione) non può durare a lungo e che gli accrescimenti del capitale provocano un aumento dei salari, e quindi che i risparmi e l’innovazione di chi sta in alto portano benefici anche per i lavoratori.
Più nello specifico, la teoria della produttività marginale sostiene che tutti quelli che prendono parte al processo di produzione ottengono una remunerazione pari alla loro produttività marginale, grazie alla concorrenza. Questa teoria associa un reddito più elevato a un maggiore contributo apportato alla società, giustificando, per esempio, un trattamento fiscale preferenziale per i ricchi: tassando i redditi alti li priveremmo della «giusta ricompensa» per il loro contributo alla società, e, soprattutto, non li incoraggeremmo a esprimere il loro talento2. Inoltre, maggiore è il loro contributo (più impegno mettono in campo e più soldi risparmiano), meglio è per i lavoratori, i cui salari cresceranno di conseguenza.
Queste idee che legittimano la disuguaglianza sopravvivono perché contengono un briciolo di verità: a volte, chi fa molti soldi dà un contributo notevole al benessere della nostra società, e in alcuni casi riserva per sé soltanto una frazione di quello che offre alla collettività. Ma questa è soltanto una parte della storia, ci sono anche altre possibili cause della disuguaglianza. La disparità può derivare dallo sfruttamento, dalla discriminazione, dall’esercizio di un potere di monopolio. Inoltre, in generale, la disuguaglianza è fortemente influenzata da una serie di fattori istituzionali e politici – per esempio le relazioni industriali, il funzionamento del mercato del lavoro, i sistemi di welfare e i sistemi fiscali – che possono agire indipendentemente dalla produttività e condizionare la produttività.
Che la distribuzione del reddito non possa essere spiegata unicamente attraverso la teoria economica standard si capisce dal fatto che la distribuzione prima delle tasse e dei trasferimenti varia nettamente da paese a paese. La Francia e la Norvegia sono esempi di paesi Ocse che complessivamente sono riusciti a resistere alla tendenza verso un aumento della disuguaglianza (grafici 2 e 3). I paesi scandinavi hanno un livello molto più elevato di uguaglianza di opportunità, indipendentemente dal parametro adottato per valutarla. La teoria della produttività marginale nelle intenzioni dovrebbe essere applicabile a qualsiasi situazione. La teoria neoclassica insegnava che si possono spiegare i risultati economici senza fare riferimento, per esempio, alle istituzioni. Asseriva che le istituzioni di una società sono semplicemente una facciata: il comportamento economico è determinato dalle leggi fondamentali della domanda e dell’offerta, e il lavoro dell’economista consiste nel comprendere queste forze di base. In altre parole, la teoria standard non riesce a spiegare perché paesi con livelli simili di sviluppo tecnologico, produttività e reddito pro capite possano differire così tanto nella distribuzione del reddito prima delle tasse.
I dati indicano, però, che le istituzioni contano. Non solo è possibile analizzarne l’effetto, ma anche spiegarne l’esistenza stessa, a volte con la storia, a volte con i rapporti di forza e a volte con forze economiche (come le asimmetrie informative) tralasciate dall’analisi standard3. Pertanto, uno degli obiettivi principali dell’economia moderna è comprendere il ruolo delle istituzioni nel creare e plasmare i mercati. La domanda allora è: quali sono il ruolo e l’importanza relativa di queste ipotesi alternative? Non è semplice fornire una risposta quantitativa chiara, ma recentemente alcuni eventi e studi hanno dato peso a teorie che concentrano maggiormente l’attenzione sulla rendita e lo sfruttamento. Ne discuteremo nel prossimo paragrafo, prima di soffermarci sui fattori istituzionali e politici che sono alla radice dei recenti cambiamenti strutturali nella distribuzione del reddito.
La ricerca di rendita e i redditi più alti
Il termine «rendita» veniva usato originariamente per indicare i ricavi delle terre, perché il possidente riceve i pagamenti in virtù del suo titolo di proprietà e non per qualcosa che fa. Il termine fu poi esteso fino a includere i profitti di monopolio (o rendite di monopolio), cioè il reddito che deriva semplicemente dal controllo di un monopolio, e in generale i ricavi riconducibili a diritti di proprietà affini. La ricerca di rendita (rent seeking) significa quindi ricavare reddito non come ricompensa per aver creato ricchezza, ma attraverso l’accaparramento di una quota più ampia di una ricchezza che sarebbe stata prodotta comunque. In realtà i rentiers, sottraendo reddito ad altri, normalmente distruggono ricchezza. Un monopolista che impone un prezzo eccessivo per il suo prodotto sottrae denaro a quelli che usufruiscono di quel prodotto, e allo stesso tempo distrugge valore. Per ottenere il suo prezzo di monopolio, deve limitare la produzione.
Negli ultimi tre decenni, la crescita dei redditi più alti è stata trainata principalmente da due categorie occupazionali: quelli che lavorano nel settore finanziario (sia manager che professionisti) e i dirigenti delle imprese non finanziarie4. I dati indicano che le rendite hanno largamente contribuito al forte aumento dei redditi di queste due categorie.
Guardiamo prima di tutto i dirigenti in generale. Che l’aumento delle loro retribuzioni non riflette la produttività è indicato chiaramente dalla mancanza di correlazione fra compenso del manager e andamento dell’azienda. Già nel lontano 1990 Jensen e Murphy, studiando un campione di 2.505 amministratori delegati in 1.400 aziende, scoprirono che le variazioni annuali delle retribuzioni dei manager non riflettevano variazioni dell’andamento dell’impresa5. Successivamente, il lavoro di Bebchuk, Fried e Grinstein ha dimostrato che negli Stati Uniti il colossale incremento delle retribuzioni dei dirigenti avvenuto dopo il 1993 non era giustificato né dai risultati aziendali né dalla struttura del settore, ma era sostanzialmente legato a una governance aziendale imperfetta, che in pratica consentiva ai manager di stabilire da soli il proprio compenso6. Mishel e Sabadish hanno esaminato 350 aziende, dimostrando che le retribuzioni degli amministratori delegati crescevano a un ritmo molto più veloce rispetto al valore di mercato della società; la cosa più sorprendente era che queste retribuzioni aumentavano notevolmente perfino nei periodi in cui le quotazioni di borsa scendevano7.
Ci sono altri motivi per dubitare della teoria della produttività marginale tradizionale. Negli Stati Uniti, il rapporto fra il salario di un amministratore delegato e quello del lavoratore medio è salito da circa 20 a 1 a 354 a 1 nel 20128. Non c’è stato nessun cambiamento tecnologico che possa motivare una variazione della produttività relativa di questa portata, né si capisce perché questo cambiamento tecnologico sarebbe dovuto avvenire negli Stati Uniti e non in altri paesi simili. Inoltre, guardando il modo in cui sono progettati i sistemi di retribuzione aziendali è evidente che non sono concepiti per premiare l’impegno: in genere, sono legati alla performance delle azioni, che salgono e scendono in funzione di molti fattori che non dipendono dagli amministratori delegati, come i tassi di interesse di mercato e il prezzo del petrolio. Sarebbe stato facile progettare una struttura di incentivi meno rischiosa, semplicemente collegando il salario alla performance relativa (relativa a un gruppo di aziende comparabili)9. I tentativi dell’amministrazione Clinton di introdurre sistemi di tassazione che incoraggiassero la cosiddetta performance pay (una retribuzione basata sulla prestazione, ma senza l’imposizione di condizioni che garantissero che fosse effettivamente così) e gli obblighi di informativa (che avrebbero permesso agli operatori di mercato di valutare meglio l’entità della diluizione del capitale associata ai piani di stock option degli amminis...