Stalin e il comunismo
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Stalin e il comunismo

  1. 322 pagine
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Stalin e il comunismo

Informazioni su questo libro

Solo tre settimane dopo la sua morte gli eredi ordinano la liberazione di oltre un milione di prigionieri, la fine delle torture e il rispetto dei diritti degli arrestati. Solo tre anni dopo, nel 1956, denunciano al mondo che "il Massimo Genio e il Massimo Condottiero di tutti i tempi e di tutti i popoli" è stato un tiranno spietato. Passano due anni dal crollo del muro di Berlino e la sua grandiosa costruzione economica si affloscia, inerte, su stessa. Ma, dal 1917 al 1953, Stalin aveva dispiegato un'attività prodigiosa, dando prova di rara intelligenza, originalità di pensiero e volontà di potenza, unite a una spietatezza che lascia stupefatti. Icona del totalitarismo, egli è un rivoluzionario per cui tutto è possibile, dalla liquidazione di interi gruppi sociali alla deportazione dei popoli, all'uso della fame per imporre quel socialismo cui guarda sempre, sia pure a suo modo, come meta finale. Il suo regime è, fino al 1941-42, un regime imposto con la forza a popolazioni ostili. Lo salva la vittoria contro un nemico feroce, quella guerra che è sua e al tempo stesso dei popoli che aveva oppresso. Ma se la sconfitta di Hitler è parte del suo lascito, a suo debito sono sofferenze e soprusi fino all'annientamento della cultura russa e al distacco della nazione dall'Europa. Il tutto per rincorrere una potenza straordinaria ma illusoria, il cui inesorabile esaurimento suscita interrogativi grandi quanto quelli posti dalla sua nascita e dal suo sviluppo.

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Stalin e il comunismo
di Andrea Graziosi
Dopo il 1991 la storia dell’Urss ha conosciuto una stagione straordinaria, che ho avuto la fortuna di vivere, legata all’apertura di buona parte degli archivi ex sovietici. L’immagine di quella storia ne è uscita sostanzialmente modificata, e lo stesso Stalin ha acquistato un volto diverso. Non che quello precedente sia scomparso: che Stalin fosse crudele era noto, ma dagli archivi è emerso un uomo ancor più malvagio di quel che immaginavamo. Soprattutto il grigio re dei burocrati, l’uomo dell’apparato descritto da Trockij, è stato sostituito da un individuo di grandissima forza, anche intellettuale, dotato di una fortissima personalità. Lo Stalin che emerge dagli archivi è insomma, come avevano capito Heller e Nekrič, una figura, se non «immensa», come ha scritto Molotov nelle sue memorie, di grandissima potenza e presenza e di intelligenza e malvagità «prodigiose» (l’aggettivo è di Berija), e un grande pensatore: non un intellettuale, certo, ma un uomo che rifletteva di continuo1.
Dagli archivi è emerso anche un uomo privo di carisma, vale a dire di capacità di presa diretta sul «popolo» e di rapporto immediato con esso, quel rapporto che Hitler, Mussolini e in modo minore lo stesso Lenin furono invece capaci di instaurare. Come vedremo, nel caso di Stalin bisogna piuttosto parlare di costruzione del culto, una costruzione orchestrata da lui stesso e intimamente legata alle sue riflessioni sul potere e il modo di esercitarlo.
Stalin aveva però una straordinaria capacità di soggiogare psicologicamente, manipolare, terrorizzare, tenere in pugno chi gli stava vicino. Egli ebbe sempre, infatti, un seguito personale, che spesso cambiò e variò, sterminandone parti, ma attraverso cui agì, esercitando sulla psiche dei suoi componenti una presa fortissima. Poiché ci è stato domandato di parlare di esseri umani concreti, e credo la richiesta sia più che giustificata visto il ruolo che le grandi personalità hanno giocato nella storia del XX secolo, penso che un paragone adeguato sia quello con un padre crudele e vessatorio, pronto a punire e disposto a tutto pur di avere il controllo su chi gli stava più vicino. Solo così si capisce l’urlo di Chruščëv al XX Congresso, che è un urlo che scaturisce anche dalle umiliazioni subite ed è per questo autorizzato, malgrado dubbi e perplessità, da quasi tutti i membri della cerchia di Stalin che quelle umiliazioni avevano condiviso.
Come tutti gli esseri umani, malgrado alcune stabilità di fondo, specie caratteriali, anche Stalin non fu naturalmente sempre la stessa persona e conobbe anzi una profonda evoluzione, legata da un lato alle straordinarie esperienze storiche da lui vissute, e dall’altro alla sua già ricordata capacità di riflettere. Questa evoluzione passò attraverso diverse tappe, ed è intorno alla discussione di alcune delle principali tra esse che ho organizzato la mia esposizione. Parleremo quindi dello Stalin di prima del 1914 e di quello di guerra, rivoluzione e guerra civile, dello Stalin della rivoluzione dall’alto – una sua definizione –, vale a dire dello Stalin della collettivizzazione forzata, dell’industrializzazione e della grande carestia del 1929-1933, nonché dello Stalin del «Grande terrore» del 1936-1938, di quello della seconda guerra mondiale e del vecchio e vittorioso despota degli anni che precedettero il 1953. Sarà naturalmente quasi una cavalcata, ma proverò a guidarla ragionando sulle prospettive aperteci dalle nuove fonti emerse dopo il 1991.
Prima di tutto va ricordato che l’intero arco dell’evoluzione di Stalin va iscritto sotto il segno della coscienza che l’azione rivoluzionaria sarebbe stata «una guerra disperata, sanguinosa, di sterminio»2. Sono parole, scritte da Lenin nel 1906, che riassumono bene la fede, quasi apocalittica, nella necessità di una grande rivoluzione sterminatrice e la volontà di condurne una nel nome del socialismo che unirono tutta la dirigenza bolscevica. La Grande Guerra gli offrì l’opportunità di realizzare questa speranza, ma non furono le contingenze a «costringere» questo gruppo a usare la violenza, anche se è probabile che la guerra civile li portasse al di là di dove avevano immaginato di arrivare. Lenin, Stalin e i loro compagni sapevano insomma quel che volevano e lo dicevano. E una delle grandi lezioni che ho appreso studiando la storia sovietica è quella della necessità di «ascoltare», di dar peso a quello che le persone dicevano di sé e delle loro intenzioni, di non leggere le loro parole superficialmente, perché non si trattava solo di «parole», come potremmo pensare oggi. Si trattava piuttosto di dichiarazioni di intenti: per prendere il potere occorreva fare una guerra sanguinosa, disperata e di sterminio, l’unica che avrebbe permesso di vincere, e di mantenersi al potere una volta vinto.
Ma veniamo al periodo precedente il 1914. Come tutti sanno Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili, Gori, 18 dicembre 1878, ma lui dichiarava 1879 – Mosca, 5 marzo 1953) era un georgiano, figlio di un ciabattino alcolizzato, uso a picchiare la moglie, quella madre alla quale egli fu invece molto legato. Colpito dal vaiolo a 7 anni, e travolto poco dopo da un carro che gli lesionò il braccio sinistro, salvandolo nel 1914 dalla chiamata alle armi, frequentò dal 1895 il seminario ortodosso di Tbilisi, dove scrisse i primi versi, di ispirazione patriottica georgiana. Subito ateo, nel 1898 entrò nel partito socialdemocratico e, espulso dal seminario, si tuffò in un’intensa attività politica clandestina che gli costò diversi esili e comprese una famosa e sanguinaria rapina per finanziare il partito. Soprattutto l’attività politica nel Caucaso, in Georgia prima e in Azerbaigian poi – dove vide grandi scioperi condotti da un proletariato plurinazionale, ma assistette anche ai violentissimi pogrom antiarmeni e antiazeri – lo mise in diretto contatto con quello che è ancora uno dei focolai principali delle rivendicazioni nazionali in Europa. Di qui la sua precoce percezione della fondamentale importanza della questione nazionale, e di quella della composizione plurinazionale di buona parte dei territori dell’Europa orientale, abitati a macchia di leopardo da gruppi linguistici, e religiosi, diversi, che l’emergere delle piattaforme nazionali – il 1848 diciamo – aveva messo in conflitto tra loro e con le vecchie nazionalità dominanti.
Quella di Stalin era però la percezione di un autodidatta, con tutti i limiti che ne derivavano, e tale, ancorché di grande potenza, egli restò per tutta la vita. Grazie all’incontro con Lenin, avvenuto in Finlandia nel 1906, quella percezione acquistò però un originale spessore, anche teorico. Contrariamente alla massa dei marxisti affascinati dall’internazionalismo, Lenin e Stalin ebbero chiaro che il problema chiave del XIX e del XX secolo era la costruzione degli Stati nazionali, legata alla dissoluzione degli imperi, prima di quelli europei e poi di quelli coloniali, e che la questione nazionale era quindi un elemento fondamentale di qualunque movimento rivoluzionario. Ed entrambi compresero che la Russia non era l’impero russo e non poteva coincidere con esso. Ma se Lenin, che riconobbe il diritto ucraino e bielorusso (oltre che quello polacco, finlandese ecc.) all’indipendenza, vedeva la Russia in prospettiva come una nazione come le altre, che poteva diventare democratica, e socialista, solo rinunciando ai suoi domini, e anche su questa base concepì poi l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (che di russo non aveva formalmente nulla), Stalin, sulla base della sua esperienza caucasica, percepiva la «Russia» come una specie di continente, una piccola Europa, o un’India, a sé stante, abitata dai «popoli della Russia», fra cui i russi erano certo i più importanti, ma che aveva una sua unità culturale e statale, e cui Mosca era chiamata a imporre ordine. Non a caso, il primo libro importante, forse il più importante, di Stalin è appunto Il Marxismo e la questione nazionale, scritto a Vienna nel 1913. È un’opera diseguale, con parti banali mescolate ad altre di grande acume, che combinano Herder e la teoria «linguistica» della nazione con l’evoluzionismo darwiniano e il marxismo, facendo della nazione un oggetto storico e quindi in continua evoluzione, un’evoluzione manipolabile da chi fosse capace di comprendere le leggi del suo movimento.
Il nodo successivo è quello del 1914-1922, che è per Stalin quello della rivoluzione e della guerra civile, visto che della guerra egli percepì solo gli effetti al ritorno dall’esilio nel febbraio 1917. Il ruolo di Stalin in esso è stato a lungo sottovalutato, dimenticando che egli era stato scelto da Lenin già nell’estate del 1917 per leggere al suo posto il rapporto al congresso del partito, e che poi gli era stata affidata la gestione della questione nazionale, con quella militare e quella contadina la principale di quegli anni, visto che la rivoluzione e la guerra civile, come Lenin e Stalin scrissero ripetutamente, furono fatte e vinte grazie ai contadini e alle nazionalità, e non certo grazie ai pochi operai dell’impero zarista. Alla morte di Sverdlov poi, nel 1919, Stalin, già capo di un proprio seguito personale, divenne anche il gestore della fazione leninista del partito, posizione da cui condusse, con la benedizione di Lenin, la lotta contro Trockij nel 1919-1921, mentre Lenin si occupava di alta politica.
Sono questi anni cruciali nella formazione di Stalin, in un contesto che è quello della violenta guerra sterminatrice intravista da Lenin nel 1906. I bolscevichi condussero questa guerra non solo contro i «bianchi» ma anche contro tutte le forze che gli si opponevano, dagli anarchici agli altri partiti socialisti e liberali, agli operai che non sottostavano alle direttive dello Stato-partito, e soprattutto contro contadini il cui «socialismo» – che pure i bolscevichi avevano cavalcato nel 1917-1918 – era molto diverso dal loro. Gli archivi sovietici sono pieni di rapporti come questo, scritto dalla polizia politica del governatorato di Omsk nel febbraio 1922, un rapporto che ho scelto perché relativo agli anni in teoria «pacifici» della Nep, il compromesso con i contadini varato da Lenin nel marzo 1921:
Le violenze degli ammassatori raggiungono dimensioni assolutamente incredibili. I contadini arrestati vengono rinchiusi in granai gelidi, frustati e minacciati di fucilazione... Quelli che non hanno soddisfatto agli obblighi di consegna sono stati inseguiti per le vie del villaggio e calpestati coi cavalli, poi denudati e rinchiusi in granai privi di riscaldamento3.
Immaginiamo quindi l’asprezza della guerra tra il nuovo Stato e i contadini negli anni ferrigni del comunismo di guerra (1918-1921), quelli in cui si formarono Stalin e il gruppo dirigente bolscevico. Torniamo qui al rapporto di apprendistato che legò allora Stalin a Lenin, in cui il primo riconobbe sempre il suo maestro. In una riunione del Presidium (l’organo che aveva sostituito l’Ufficio politico) di fine 1952, poche settimane prima della sua morte, Stalin si rivolse a Molotov e Mikojan (la moglie del primo e il figlio del secondo erano già stati arrestati e deportati) accusandoli rispettivamente di avere «posizioni antileniniste» e di «commettere errori di carattere trockista». Molotov, terrorizzato, prese a balbettare «S-s-sono s-sempre stato un allievo del compagno Stalin», per essere bruscamente interrotto dalla voce irata del capo: «Stalin non ha allievi. Solo il compagno Lenin ne ha»4, un’esplicita rivendicazione del suo essere tale.
La rivendicazione non era infondata. Tra ...

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