1. Logografi in cura d’anime
Anno Domini 1951 Arrigo Cajumi, pensatore libertino, individua correnti prefasciste nella storia d’Italia, datando le più recenti dal 1898: siccome nomina Luigi Albertini, fautore d’una dittatura militare, irrompe il vecchio profeta Salvemini, difensore d’ufficio; pour cause, entrambi efferati antigiolittiani, rispondono della catastrofe in cui finisce il primo quarto del Novecento, guardandosi dall’ammetterlo, anzi lanciano accuse. Albertini sostiene una destra arcigna, d’idee corte: pose austere mascherano egoismi e paure; l’alchimista parlamentare cuneese riesce odioso perché rompe la solidarietà oligarchica mantenendo neutrale lo Stato nei conflitti sociali. Scoppiata la guerra mondiale, l’asse Salandra, Sonnino, «Corriere» promuove un intervento motivato da spinte regressive: è già fascismo il modo in cui avviene (le Camere s’arrendono a una piazza mossa dall’esecutivo); il Comando supremo d’Udine configura un polo d’ottuse istanze autoritarie; l’ala democratica lavora contra se ipsam. Chiusure classiste e trauma bellico incubano la controrivoluzione nera. L’antigiolittismo fobico connota anche Luigi Einaudi, assiduo collaboratore del «Corriere».
Nella letteratura d’idee novecentesca Arrigo Cajumi è figura marginale, senza titolo umanistico: viene dalle scuole tecniche; nato fin de siècle, fa gli ultimi mesi della guerra. In odore antifascista perde l’impiego alla «Stampa»: altrettanto inospitale l’editoria, allora diventa dirigente d’industria, senza dimenticare le lettere; morto Cesare De Lollis, mandava avanti la «Cultura», il cui ultimo fascicolo, aprile 1935, contiene un suo articolo sui libertini del Seicento; e «Pensieri d’un libertino» (senza apostrofo eufonico) intitola note clandestine à bâtons rompus. Leo Longanesi gliele pubblica 12 anni dopo, fin dove basta la carta disponibile, tagliando il resto. L’autore rende la pariglia nei pensieri riediti (Einaudi, Torino 1950, 12s.): Longanesi e Mino Maccari, «usciti pettegoli e gazzettieri dall’utero materno, devono sfogarsi o crepare», anche dove lucrano favori, perciò arrischiano innocue fronde; Curzio Malaparte, direttore della «Stampa», «riceve in pigiama sul mezzodì, già bello lustro e liscio» nel quartierino sopra la libreria Lattes in via Garibaldi, fonografo sul comodino e «Voltaire spaiato» sul cassettone; «venne ancora una volta a casa mia», con un cagnolino sotto braccio. Gran conoscitore della letteratura francese e anglosassone, Cajumi detesta l’enflure retorica: scrive a lampi, raziocinante caustico, moralista sotto maschera beffarda, in guerra col falso décor; e quanto ne spaccia la cortigianeria famelica d’Arcadia. Nel «Ponte», dicembre 1951, escono I manutengoli, quattro pagine d’anamnesi politica: Mussolini elabora materiali preesistenti; l’Italia viveva correnti fascistoidi ante litteram; un falso socialista vi pesca dando spettacolo. Il ventennio non erompe ex nihilo, opera d’avventurieri senza radici, svanita come gl’incubi (era l’assunto consolatorio crociano): i sedimenti prossimi datano dal Novantotto, quando possidenti hard to die invocano repressioni eseguite dalla monarchia, donde il regicidio; divampano umori antropologicamente fascisti nel colpo di Stato antiparlamentare guerrafondaio; e il sèguito non lascia dubbi. Inter alios figura Luigi Albertini, panegirista del governo cadorniano.
Sono fatti notori, ma gli salta addosso un iracondo storiografo, antifascista adamantino. Sulle stesse colonne, quattro mesi dopo, Gaetano Salvemini difende Albertini: visceralmente antigiolittiani tutt’e due, nelle «radiose giornate» condividevano l’esperimento stregonesco in odio al parlamento; Mussolini, coéquipier, impara una lezione applicandola sette anni dopo. L’arringa (Opere, Feltrinelli, Milano 1962, IV, I, 567-77) svela un politicante ossesso, nel senso più limpido perché paga ogni volta del suo, subendo innumerevoli scacchi: se li cercava; professa idee edificanti, spesso fiabesche (vedi le virtù politiche dei contadini pugliesi); sogna che dalla guerra disinteressata, a beneficio degli oppressi, nasca in via partenogenetica un’élite pura; sfoga estri da causidico tignoso; batte regolarmente la testa nei fatti, ostinato come Sidney Sonnino, le cui microcefalie deride. Ha talento investigativo e scrive chiaro ma clarity is not enough, se il sovraccarico ideologico oscura le percezioni. Strenuo laico, avendo studiato in Seminario, pratica maniere d’ecclesiarca litigioso. L’Italia alleva tanti profeti: onniloquo, arrembante, mai sfiorato dal dubbio; espone dogmi in forma avvocatesca; vitupera i dissidenti (Prezzolini lo conosceva bene, dal primo Novecento agli anni quaranta americani, e gli dedica rilievi equanimi: L’Italiano inutile, Longanesi, Milano 1954, 364-74). Contro Cajumi, distingue le violenze legali «alla luce del sole» («colpi di Stato», «stati d’assedio», «tribunali militari») dal fascismo 1921-22. Il punto è se la sovversione fascista presupponga o no dei signori che rimpiangono la monarchia 1898 (essendo al governo un bolscevico dell’Annunziata); e i fatti parlano: non avesse dei committenti, dalla cui parte sta il «Corriere», l’ex direttore dell’«Avanti» sarebbe un avventuriero epilettoide in cerca d’improbabili occasioni.
Scorriamo l’autobiografia d’un tecnocrate giornalista. La racconta il primo capitolo dei Venti anni di vita politica (Zanichelli, Bologna 1950-53, 5 voll.). Luigi Albertini nasce ad Ancona, 19 ottobre 1871, primogenito d’un facoltoso imprenditore, poi rovinato da cattivi affari: ventenne paterfamilias orfano, trasloca sotto la Mole antonelliana laureandosi in legge con una tesi d’economia politica, nel cui laboratorio continua gli studi; otto mesi a Londra gli lasciano l’impronta. Nell’anno d’Adua compila un foglio romano delle Banche popolari. Luigi Luzzatti l’ha segnalato all’industriale milanese Ernesto De Angeli, padrone del «Corriere» con Luca Beltrami, Benigno Crespi, G.B. Pirelli, fedeli d’una destra chiusa. Eugenio Torelli Viollier, fondatore e gerente (in lessico moderno, amministratore delegato), lo chiama alla segreteria, dopo un esperimento d’inviato all’incoronazione moscovita e feste millenarie ungheresi; era nato manager: ammoderna le macchine, lancia «Domenica del Corriere» e «Lettura», raccoglie pubblicità. Entra nel nuovo secolo direttore amministrativo nonché socio (quota ancora simbolica, 1/64). Annus mirabilis: morto Torelli, gli succede; poco dopo allontana Domenico Oliva, direttore dimissionario a causa d’un perfido articolo albertiniano sul punto se al secondo governo Pelloux convenisse sciogliere la Camera; «ôte-toi que je m’y mets moi». Ha carta bianca. Erano tattica i dissensi dal predecessore: rimasto solo, naviga barra a destra; venera Sidney Sonnino, consigliere del perdente Pelloux; e punta sullo scudiero Antonio Salandra, ex ministro dell’Agricoltura, coppia sciagurata. Sonnino predica una monarchia dove il re governi (Torniamo allo Statuto, «Nuova Antologia», 1 gennaio 1897): testa marmorea, minima facoltà percettiva, manie inflessibili, Ego smisurato; sui palchi della libreria s’è fatto incidere «quod aliis licet, tibi non» (posa farisaica: Luca, 18.9); e «nitor in adversum». Luigi Aldrovandi Marescotti, suo futuro capogabinetto, nella prefazione al diario 1914-19 (Guerra diplomatica, Mondadori, Milano 1943, 7a ed., 11) parla d’«orgoglio dantesco». Uomo d’altissimi princìpi, dicono gli estimatori, incline alle riforme. Quanto valga la santimonia riformista, consta dal discorso 19 giugno 1901 (il ministro degl’Interni è Giolitti, consule Zanardelli): «ogni proprietà» costituisce «ufficio sociale»; «chi possiede ha cura d’anime», «ipso iure». Il rapporto padrone-colono resti dunque sul piano personale, «spesso bonario e cordiale»: l’intrusione delle leghe fomenta «sordo spirito» rivoltoso; le campagne covano una sovversione contro cui il governo rimane inerte, anzi complice, asservito ai «gruppi sovversivi» (Discorsi parlamentari, Tipografia della Camera dei deputati, Roma 1925, III, 34-51). Albertini suona la stessa musica. L’antigiolittismo fobico è una costante del «Corriere». L’antipatico cuneese viene dalla Corte dei conti: era oscuro deputato, indi ministro del Tesoro; parla poco e secco; indicato da Urbano Rattazzi jr., ministro della Real Casa, forma un governo e cade dopo sette mesi (15 dicembre 1893), colpevole anche d’avere mani pulite negli scandali della Banca Romana. Non ha niente d’eroico né vola, troppo diverso dalla fauna politica italiana. Sommata alle questioni d’interesse, l’antipatia innesca ire paranoidi.
Ha sostituito lo spettrale Zanardelli: dai banchi nessuno gli tiene testa; non volendo strafare, s’eclissa 14 mesi (28 marzo 1905-29 maggio 1906); chiude l’interregno un patetico ministero Sonnino nato e morto in 110 giorni. Risalito a Palazzo Braschi, vi resta tre anni, sei mesi, due settimane. Seconda eclissi volontaria. Stavolta Sonnino dura tre mesi e 20 giorni, seguito da Luzzatti, un anno. Nella quarta avventura ministeriale, dal 30 marzo 1911, alle soglie dei settant’anni, è ancora stratega versatile, non essendo più quelli d’allora congiunture e ambiente. In casa socialista declinano i riformisti, suoi partners naturali, soverchiati dagli ultras parolai: salta fuori il molto temibile Benito Mussolini; imperversa un sindacalismo anarcoide. Tra i colletti bianchi alligna il movimento nazionalista, esponente d’interessi industriali: il programma è dissolvere le classi in una misteriosa identità organica bio-spirituale, scaricando fuori confine gl’impulsi aggressivi; siamo un paese proletario, antagonista degli Stati demoplutocrati. La moda intellettuale prende pieghe irrazionaliste. Giolitti sente poco la politica estera: Triplice e anglofilìa garantiscono l’equilibrio necessario al paese ancora debole; la politica d’espansione implica risorse che non abbiamo, spiegava agli elettori di Caraglio, 7 novembre 1886; lo pensa ancora ma esiste un’Italia malata d’Africa da quando la Francia s’è insediata in Tunisia. L’impresa libica pare comoda: nihil obstat dalle Potenze; i turchi sloggeranno dopo quattro cannonate. L’opinione pubblica chiede Tripoli, e lui l’asseconda malvolentieri, perché l’imperialismo gli ripugna, né stima i militari.
Entusiasmo patriottico, ovvio dissenso da sinistra, escandescenze antimilitariste mussoliniane. S’allinea Prezzolini, in rotta col quale l’antitripolino Salvemini fonda «L’Unità». D’Annunzio, debitore insolvente in Italia, batte le scene mondane francesi, presentato dall’esteta conte Robert de Montesquiou. Varie voci lo descrivono piccolo, rugoso, pallido, quasi calvo, occhi verdi, naso enorme, aspetto malsano: Dio sa come mai streghi le donne; parla benissimo; viene dalla Comédie italienne con l’aria furba d’un Arlecchino che abbia ucciso Pierrot (in Paolo Alatri, D’Annunzio, Utet, Torino 1983, 304s.). Gli arredi della villa fiesolana, venduti all’asta, fruttano 120 mila lire: i debiti superano le 400; e Albertini fa da curatore, liquidandoli lentamente con i proventi dei diritti d’autore. Dal 23 luglio 1911 escono sul «Corriere» le Faville del maglio, note introspettive. Perché siano interrotte alla quattordicesima, «Esequie della giovinezza», lo spiega una lettera ad Albertini (ottobre 1911, manca il giorno) da Arcachon sull’Atlantico: stavolta manda poesia, 54 terzine «ancora calde»; gli sono costate notti d’un lavoro febbrile; le componga su cinque colonne, piena pagina; il manoscritto resta «ai Suoi figlioli, i quali forse un giorno avranno un latifondo in Tripolitania». Il «Corriere» pubblica otto «Canzoni»: i titoli ripetono monotoni genitivi, «d’Oltremare», «del Sangue», «del Sacramento», «dei Trofei», «della Diana», ecc.; diventano dieci nel libro edito da Treves, Merope, quarto delle Laudi (la settima «mutilata da mano poliziesca, per ordine del cavaliere Giovanni Giolitti»); poesia aulica, talmente ardua da richiedere didascalie. «Con... gioia le affido alle cinquecentomila copie»: avevano pattuito mille lire l’una (Mussolini direttore dell’«Avanti» guadagna la metà, al mese, non avendone mai viste tante); e ne strappa 1250. Chiusa la stagione eroica, ripiglia la prosa notturna.
La fortuna delle Canzoni è un sintomo: l’impresa libica ha acceso midolla borghesi; i colletti bianchi patiscono la mediocrità dei tempi. Due guerre balcaniche innescano focolai. Nel calcolo governativo il suffragio universale blandiva le Sinistre. Giolitti mantiene l’impegno (l. 30 giugno 1912 n. 665) chiamando 8.443.205 elettori (erano 2.930.473): cinque milioni d’analfabeti, esclama Albertini, fautore della politica d’élite; e pronostica al demagogo una «maggioranza idropica» (Venti anni, cit., III, 247s.). Ormai expedit, quindi vota anche l’elettorato cattolico, 26 ottobre e 2 novembre 1913: 146 uomini nuovi su 508; crescono i socialisti, 37 seggi in più, e i radicali, 17; non è chiaro se ne perdano 64 o 57 i lato sensu liberali (qualifica molto vaga, include dei conservatori enragés) ma, escludendo 34 cattolici professi, contano 305 teste, su due terzi delle quali confluivano voti pii pattuiti sotto banco. Nell’incipiente XXIV legislatura i vessilliferi eseguono mosse equivoche: Sonnino chiede riforme, invoca un partito liberale progressista, muove verso l’Estrema; Salvemini lo auspica capo d’un terzo governo col sostegno socialista e Bissolati agli esteri; in posa d’ascaro, Salandra rende ossequio al mago cuneese; Arturo Labriola, volatile socialrivoluzionario tripolino, saluta l’ingresso d’anime nazionaliste e dichiara morta l’idea liberale, ma Luigi Federzoni l’11 dicembre raccoglie consensi nelle file moderate qualificandosi erede della nobile destra. Gl’intenditori prevedono la solita eclissi. Forse era concertata la crisi extraparlamentare che inscenano i radicali. Interpellato pro forma, Sonnino declina l’offerta e viene Salandra, 21 marzo 1914: governo caduco, lo tiene in piedi l’assente.
Era capitato due volte: le specole prevedono un ter; e così avverrebbe, inesistente essendo il successore, se a Sarajevo domenica 28 giugno Gavrilo Princip, giovane patriota serbo, non sparasse due colpi di pistola letali contro l’erede al trono absburgico, arciduca Francesco Ferdinando, e consorte. Vienna aspettava l’occasione. La Serbia sbarra le vie d’oriente. A freddo, dopo 25 giorni, l’aquila manda un ultimatum affinché non sia accolto, tanto esose sono le pretese: la Santa Sede, stavolta guerrafondaia, incita Sua Maestà Apostolica; l’Eminentissimo Raffaele Merry del Val spera che finalmente l’Impero «tienne le coup»; se non attacca adesso, quando mai (Albertini, Venti anni, cit., III, 257s.). Nelle sincopi dello Spirito santo anche i cardinali commettono bestialità: era proverbiale l’arte diplomatica absburgica; «sot comme un diplomat autrichien», dicono i competenti, non essendo ancora apparso Sonnino, calamitoso ministro degli Esteri. Tra luglio e agosto, in sequela convulsa, l’Europa va a fuoco: Russia, Francia, Belgio, Inghilterra contro gl’Imperi centrali. Solo i nazionalisti tedescofili vogliono combattere l’occidente: in tal senso parlano nell’assemblea romana 29 luglio Federzoni, soi-disant liberal-conservatore, Roberto Forges Davanzati, corrispondente parlamentare del «Corriere», e Maffeo Pantaleoni, economista ondivago dalle frequenti furie, ma identificare il nemico era questione secondaria, noterà Alfredo Rocco; l’essenziale è la guerra, non importa contro chi. Mancando il casus foederis, perché Vienna e Berlino sono aggressori, l’Italia rimane neutrale. Il piano Schlieffen postulava una Francia sconfitta in sei settimane, prima che la Russia fosse pronta, mediante una corsa dell’ala destra, e male eseguito da Moltke jr., fallisce d’un soffio sulla Marna, 5-12 settembre. In Italia spunta «esile e tenero», «il virgulto dell’intervento»: parole d’Albertini, protointerventista; l’ha piantato e lo coltiva smentendo una boutade (Francesco Papafava nel «Giornale degli economisti», luglio 1900, in Dieci anni di vita italiana, 1899-1909, Laterza, Bari 1913, I, 94), che il «Corriere» sostenga solo l’idea radicata nella testa «degl’innumerevoli suoi lettori... tanto matura da essere già un poco marcia»; stavolta la impianta, poi vi batte. Non è vanteria ma giudizio storico, che porti l’Italia in guerra.
Era interventista anche Sonnino, nella Triplice beninteso: Salandra lo chiama agli Esteri (è morto Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano); scelta assurda, non esiste al mondo uomo meno idoneo; intanato nella Consulta elucubra mosse segrete. Il complice non ha ascendente né buona fama: Nitti lo rievoca torpido, pauroso, corto d’idee, con sprazzi furbeschi levantini o saraceni, l’Io obeso, impulsi da irresponsabile giocatore d’azzardo (Rivelazioni, negli Scritti politici, VI, Laterza, Bari 1963, 388-405); in coppia col maniaco sviluppa spiriti criminaloidi. S’è convinto d’avere sotto mano la chance d’una guerra facile: guidandola, d’un colpo chiude in gloria il Risorgimento e restaura la destra oligarchica; vuol essere l’anti-Giolitti ma siccome l’avversario dispone d’una maggioranza, gli nasconde i passi londinesi da cui nasce l’assurdo patto 26 aprile 1915. L’impreparatissima Italia, ancora alleata dei due Imperi, s’impegna a combatterli entro un mese, col prestito d’un miliardo (ne spenderà 41), senza la minima idea del cosa sia la guerra. Montecitorio tiene poche sedute. Giolitti viene due volte, ottobre e marzo: sa che pendono trattative Roma-Vienna; bene, ma arrivano lettere allarmanti; e ridiscende domenica 9 maggio (il 20 la Camera riapre), quando l’accaduto è irreparabile. Corrono varie ipotesi sulla singolare défaillance. Secondo la più plausibile, riteneva impossibile che due uomini da niente combinassero scempi mettendo paese e parlamento davanti al fatto: confondeva giudizio morale e prognosi storica; nella prassi non esistono cose impossibili perché troppo immorali. La rabbia d’essersi fatto giocare trapela ancora dal discorso a Dronero, 12 ottobre 1919.
Trecento deputati gli lasciano il biglietto in portineria: dunque, rimane padrone del voto; e l’indomani spiega al re cosa significhi condurre l’Italia in guerra, vaso fragile. Mercoledì 12 arriva D’Annunzio e parla da un balcone dell’Hotel Regina. Margherita Savoia, vedova d’Umberto e fascista ante litteram, ascolta. Le dimissioni del governo, annunciate nella notte 14-15, scatenano le cosiddette «giornate radiose», festa violenta sobillata dall’esecutivo contro le Camere. Albertini sta sul posto: con quell’aplomb pare improbabile che sfili o vociferi, ma era stratega della «santa battaglia» (così telegrafano i redattori); da solo, l’abulico Salandra combinerebbe poco. D’Annunzio accusa Giolitti d’alto tradimento e istiga all’omicidio. Il bersaglio dista due passi: via Cavour 71, secondo piano; era pronta la scala. «Sire!», invoca Maffeo Pantaleoni («L’Idea Nazionale», 15 maggio), «prenda consiglio da Sua madre», vecchia musa della reazione patriottarda. Piero Giacosa scriveva ad Albertini d’averle parlato (3 gennaio): pensa come loro due; adora Salandra; detesta il «bergnifun G.G.», nome diabolico; quando è venuto in visita d’ossequio aveva «l’aria sospetta»; «anche lei ne ha una paura bleu». Quanta ne abbia Albertini, consta dalla lettera 15 maggio al dimissionario: l’uomo nefasto vuol prendergli il posto portando lui l’Italia in guerra; «non abbandoni il paese, non abbandoni noi suoi amici ai rischi e all’onta d’un simile inganno». Gl’interventisti in calore sono compagnia promiscua: piccoli borghesi che leggono poesie, socialismo bastardo (Mussolini), galantuomini stralunati (Leonida Bissolati), anarcosindacalisti rampanti (Filippo Corridoni), chierici canaille (Papini, Soffici, Marinetti), negromanti (Pantaleoni e l’inseparabile Giovanni Preziosi, losco spretato). Sensibile all’appello, Sua Maestà reincarica Salandra. Giolitti riparte. In preda a paura fisica, la Camera vota le spese belliche, 407 contro 76 (41 dei quali socialisti), «vilmente» sottomessa al potere esecutivo; spende l’avverbio Salvemini (Lezioni d’Harvard, in Opere, cit., VI, I, 1961, 384s.), raccontando la sagra senza rimorsi, quasi fosse impresa onorevole; se vi sono colpe, risalgono al «ministro della malavita»; aveva corrotto le assemblee.
Deo gratias, siamo in guerra. Albertini sosteneva Carlo Porro quando nello S.M. s’è aperta la successione d’Alberto Pollio, ma il più titolato era Luigi Cadorna. L’evanescente Porro diventa “sottocapo” fannullone. Albertini e Cadorna, due condottieri dallo stretto feeling: il logografo in cura d’anime va e viene, ospite fisso del Comando supremo (solo lui); e il «Corriere» canta lodi del guerriero adibendovi Ugo Ojetti, sebbene Giovanni Amendola insinui dubbi. Cadorna è autocrate bigotto, testa piccola, efferato nel macello umano: figura, frasi, gesta, richiamano il binomio voltairiano “boef-tigre”, bovino e sanguinario; le undici offensive sono capolavori d’inettitudine. Sorpreso dalla Strafexpedition trentina, voleva ritirarsi al Piave con sgomento del governo, e cade Salandra, sostituito dal vegliardo Boselli. In 29 mesi lo sciagurato condottiero dissangua stupidamente due armate (non contando l’Ortigara). Nell’estate 1917 chiede misure contro il nemico interno, id est gl’innocui socialisti: secondo lui, il paese infetto inquina i combattenti, ed è vero l’inverso. Solo l’undicesima battaglia guadagna terreno, lasciando male schierata la II Armata quando gli austrotedeschi sferrano un’offensiva senza fine strategico: non speravano difese tanto deboli, quasi inesistenti nello Schwerpunkt; scardinato l’alto Isonzo, salta l’intero fronte. Domenica 28 ottobre un abietto bollettino incolpa «reparti [...] vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico»: prende piede la favola dello sciopero militare (formula escogitata dalla testa ballerina Bissolati); ogni occhio esperto vede le cause tecniche ma passano anni prima che la verità diventi pubblica. Nella lettera 3 novembre, «riservatissima personale» al nuovo presidente del consiglio V.E. Orlando, lo sconfitto ripete la menzogna: le truppe non vogliono combattere; se vi riesce, raccoglie III e IV Armata sul Piave, dove giocherà «l’ultima carta attendendovi una battaglia decisiva»; deve esporre «la situazione nella sua dolorosa realtà» affinché il governo tragga le conclusioni politiche. Poi nega d’avere ventilato ipotesi d’armistizio. Gli alleati non lo vogliono più tra i piedi. L’offensiva nemica va spegnendosi. Rimane salda la linea Altipiani, Grappa, Montello, Piave. Arriva l’America. Fall...
