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- Italian
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eBook - ePub
"È l'Europa che ce lo chiede!" Falso!
Informazioni su questo libro
Aumenta il profitto di pochi e si riduce il reddito di molti.Il dogma qual è?Che il profitto non si tocca, è sacro, così come è diventato sacro lo strapotere bancario e speculativo. Non c'è quasi più bisogno di contese elettorali.È qui la lezione amara. È qui che l''europeismo' d'accatto perde la maschera.
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Informazioni
Argomento
EconomiaCategoria
Politica economica1. Fine senza gloria della religione «bipolare»
Siamo spettatori di un paradosso. Il paradosso è che, al termine di un ventennio consacrato,
con regolari vampate salmodianti, al culto del «bipolarismo», i medesimi idolatri
siano ora passati, con analoga foga, al culto della «coesione». Il nuovo dogma è:
fare «tutti insieme» le “cose che contano”, le fondamentali sulle quali è «ovvio»
che «siamo tutti d’accordo». Buono a sapersi. Evidentemente il bipolarismo serviva
a non farle, le “cose che contano”.
La religione del bipolarismo può comunque vantare alcuni bei successi: non solo ha
distrutto la cosiddetta “Prima Repubblica” ma ha ridotto la sinistra alla caricatura
di se stessa, ad una macchietta speculare della destra, protesa a «contendere il centro
alla destra» con le stesse “armi” lessicali e concettuali dell’antagonista. Inglobata
nella pulsione bipolaristica, la sinistra è diventata infatti, via via, sempre meno
sinistra.
Dovendo fare insieme le “cose che contano” – cioè far deglutire ai gruppi sociali
più deboli una cura da cavallo a botte di tassazione indiretta – centro-destra e centro-sinistra
archiviano il bipolarismo. E lo archiviano per un periodo lunghissimo visto che la
cura da cavallo è programmata per il prossimo ventennio se vuole risultare «efficace».
(E non sarebbe male cercare di chiarire cosa s’intenda per “efficacia”.)
Il processo è stato abbastanza lineare:
1) si abroga il principio proporzionale e si innesca il maggioritario (più o meno
totale) in omaggio alla religione idolatrica del bipolarismo;
2) bipolarismo significa necessariamente penalizzazione delle ali dette pomposamente
“estreme” e convergenza al centro dei due «poli»;
3) il perseguimento di tale “conquista” ha come effetto la crescente rassomiglianza
tra i due poli, i quali infatti rinunciano ben presto a chiamarsi destra e sinistra,
e adottano una formula (centro-destra versus centro-sinistra) che almeno per il 50% ribadisce la coincidenza, se non identità,
dei due cosiddetti «poli»;
4) quando questo processo è finalmente compiuto, si constata che la “via d’uscita”
dal grave momento nazionale e mondiale è la «coesione»;
5) a quel punto l’idolatrato bipolarismo non solo boccheggia ma viene senz’altro archiviato,
e l’operazione appare agevole (o almeno fattibile) perché la marcia dei poli verso
il centro ha dato finalmente i suoi frutti, e infatti – come ci viene ripetuto – sulle
“cose fondamentali” si deve andar tutti d’accordo!
6) a questo punto i teorici del “superamento” della distinzione destra/sinistra in
quanto concetti obsoleti possono esultare. E difatti esultano. È impressionante che,
in Italia, inconsapevoli della gaffe lessicale, alcuni si dispongano addirittura a dar vita ad un «Partito della Nazione»
(il partito fascista si chiamò per l’appunto «nazionale», e «nazionali» erano detti
i seguaci di Franco, mentre «socialista-nazionale» era il partito del «Führer»);
7) l’effetto della progressiva assimilazione tra i due poli culminata nella «coesione»
è il non-voto di coloro che non si riconoscono nella melassa. Ma questo non preoccupa
l’ormai «coesa» élite, passata giocosamente attraverso la dedizione ad entrambe le ideologie (bipolarismo
prima e coesione poi). Anzi, si gioisce ulteriormente perché si può sperare, procedendo
per questa strada, di raggiungere i record delle cosiddette “grandi democrazie” dove
– come negli usa – vota meno della metà degli aventi diritto. Anzi i più sfacciati
dicono che il fenomeno del non-voto è un segno di maturità della democrazia.
2. Il partito della nazione
Un «partito della nazione» lo aveva abbozzato, in certo senso, già Ciampi al tempo
della sua presidenza. Alla base di una tale costruzione, descritta come «patriottismo
repubblicano», c’erano molto Risorgimento e, in dosi minori, un po’ di Resistenza,
resa però il più possibile apartitica, così come già era stato sterilizzato – da una
lunga tradizione parascientifica – il Risorgimento, impastato in un’unica “polpetta”,
e trasformato in moto corale armonico e univoco (l’esatto contrario di ciò che era
stato nella realtà).
Ma il progetto naufragò, perché non era facile replicare sulla Resistenza la stessa
operazione. La vicenda della guerra civile italiana, nel corso della quale si era
sviluppato il movimento di liberazione, non poteva essere sterilizzata agevolmente.
Bisognava rimuoverne la componente comunista, innegabilmente maggioritaria. Con schietto
entusiasmo, uno studioso italiano che appare oggi incerto sull’orientamento da adottare,
parlò – in un saggio dell’ormai lontano 1976 – di «epopea» comunista nella Resistenza
italiana1 (ed europea). Né era facile, sol perché nell’89-’91 era crollato il “socialismo reale”,
far svanire nel nulla tale epopea, così determinante per la vittoria del côté antifascista nella guerra civile italiana. Per altro verso il crollo del “socialismo
reale” incoraggiava la sub-storiografia alla Montanelli-Pansa, intenta a fare della
Resistenza, con un notevole successo editoriale, un bersaglio costante ed un costante
oggetto di discredito.
In conseguenza di ciò, più che sterilizzarla, si provvide ad espungere la Resistenza
dal codice genetico di un possibile “partito della nazione”: tanto più che, nel frattempo,
il centro-destra, insediatosi saldamente al potere grazie alle infami leggi elettorali
di tipo maggioritario, provvedeva a ricollocare in una luce positiva larghe fette
dell’esperienza fascista. E il fascismo come tale riprendeva comunque quota – nella
frastornata coscienza diffusa – per il fatto stesso di essere stato l’antagonista
più coerente del comunismo, che ideologi colti e meno colti si affannavano, per intanto,
a descrivere come il vero male assoluto del secolo.
A questo punto il basamento ideale di un auspicato “partito della nazione” («patriottismo
repubblicano» già diventava qualcosa di troppo sbilanciato a sinistra) si riduceva
a quasi nulla. Oltretutto, nel frattempo, anche il Risorgimento veniva preso a spallate
e fatto oggetto di scherno da parte del pilastro politico che ha consentito, per anni
e anni, al centro-destra di governare, e cioè la Lega Nord; il cui leader carismatico
incitava, in pubblici comizi, ad adoperare la bandiera nazionale come risorsa d’emergenza
per l’igiene intima.
Venuti meno entrambi gli ingredienti, la destra non leghista si appagava della genericissima
qualifica di “liberale” e il centro-sinistra adottava come propria qualifica fondante
“l’Europa” (assunta quasi come un valore in sé!). E poiché sia gli uni che gli altri
pretendevano a spada tratta di non essere né illiberali né anti-europei, ne scaturiva
che una qualche significativa e qualificante distinzione tra i due gruppi cominciava
a diventare problematica (fatta eccezione, beninteso, per il diverso modo degli uni
e degli altri di impiegare il tempo libero e soprattutto le serate).
1 E. Galli della Loggia, Ideologie, classi e costume, in L’Italia contemporanea. 1945-1975, a cura di V. Castronovo, Einaudi, Torino 1976, p. 391.
3. Sinistra, destra, centro
Questo snodarsi di successivi passaggi e dei relativi pseudoconcetti si è manifestato da ultimo, in un crescendo particolarmente incalzante, nel nostro paese. È da noi che la logica aristotelica ha subìto un serio scacco. Da noi A = non-A.
Ma è forse soltanto un temporaneo offuscamento della ragione? Agevolato dal “gioco delle tre carte” delle leggi elettorali di tipo maggioritario, che ha fatto scomparire dalla vista interi partiti e gruppi di partiti? Certo, da quando una terapia d’urto ha reso le cosiddette “estreme” semplici portatrici d’acqua in favore dei due semi-centri (il centro-destra e il centro-sinistra), destra e sinistra paiono svanite nel nulla, e le due parole come tali son divenute quasi impronunciabili. Ma si può ritenere che davvero destra e sinistra non esistano più? Non sarà, invece, la loro scomparsa piuttosto un fenomeno inerente alla società politica che non alla realtà? Uno sguardo retrospettivo può risultare giovevole.
Come si sa, gli antichi “parlamenti”, quelli ad esempio dell’ancien régime, composti di notabili e magistrati, non conoscevano distinzioni tra destra e sinistra. È con le tre assemblee della prima fase della Rivoluzione francese – la Costituente, la Legislativa e la Convenzione – che filomonarchici e moderati prendono posto alla destra del presidente e gli altri, di opposto orientamento, alla sinistra. Nougaret, nei suoi Aneddoti del regno di Luigi XVI, ci scherza su: «O per effetto del caso – scrive – o forse perché l’ide...
Indice dei contenuti
- Premessa Chi ci ridusse a tale?
- 1. Fine senza gloria della religione «bipolare»
- 2. Il partito della nazione
- 3. Sinistra, destra, centro
- 4. Bando alle «ideologie»!
- 5. Il partito unico articolato
- 6. «Fare l’Europa»: il commissariamento progressivo
- 7. Come uscire vivi dalla morsa
- 8. La delinquenza bancaria
- 9. Gli esecutori costosi
- 10. Il falso bersaglio
- 11. Il ritorno della schiavitù
- 12. Il profitto non è l’approdo della storia umana
- 13. «Omnia orta occidunt»
- 14. La marcia indietro