1. La guerra dei sette mesi
I numeri parlano da soli: la guerra d’Etiopia del 1935-1936 fu la più grande campagna coloniale della storia, eguagliata anni più tardi – sempre che sia lecito fare un paragone – dai francesi in Algeria e dagli statunitensi in Viet-nam. Come ha scritto Giorgio Rochat: «la mobilitazione italiana assunse dimensioni straordinarie, l’invasione dell’Etiopia fu la più grande guerra coloniale di sempre per numero di uomini, copia e modernità di mezzi, rapidità di approntamento»1. Divenne in tutto e per tutto una guerra nazionale, nel senso che per sostenere il conflitto fu coinvolta gran parte della società italiana. L’impero era al centro di ogni discorso sia pubblico che privato: Addis Abeba a un certo punto divenne più familiare di Roma. I media svolsero un ruolo primario nell’esaltazione delle gesta imperiali.
La guerra d’Etiopia fu anche una guerra fascista, anzi fu la guerra fascista per eccellenza. Le categorie secondo le quali è possibile definire fascista il conflitto italo-etiopico sono diverse, non necessariamente collegate l’una all’altra. Di fatto ogni aspetto del conflitto divenne altamente simbolico e curato nei minimi particolari. Si potrebbe aggiungere che fu anche l’unica genuina guerra fascista, l’unica non condivisa con alleati; sempre Rochat a questo proposito ha scritto che «la conquista dell’Etiopia è la vera guerra fascista, la guerra organica al regime, decisa, impostata e condotta secondo esigenze proprie, essenzialmente di prestigio, con un rapporto di forze grandemente favorevole»2.
Innanzitutto fu una guerra del fascismo. Tutta la gerarchia e il Partito nazionale fascista, in un modo o nell’altro, si ritrovarono coinvolti: dagli intellettuali come Filippo Tommaso Marinetti ai figli di Mussolini3, dai militari come Rodolfo Graziani ai semplici legionari della milizia. In secondo luogo fu una guerra per il fascismo, nel senso che servì a celebrare la maturità del regime. Il simbolo di questo passaggio alla maggiore età furono le decine di migliaia di uomini cresciuti nello spirito del fascismo che diventarono adulti in combattimento e riuscirono in tal modo a perdere quel senso di inferiorità e frustrazione nei confronti dei padri o dei fratelli maggiori che si sacrificarono tra il 1915 e il 1918.
Un altro elemento che contraddistingue come fascista la guerra d’Etiopia fu l’alta presenza di uomini, circa 50 mila, inquadrati nella milizia volontaria per la sicurezza nazionale ripartiti tra sei divisioni («23 marzo», «28 ottobre», «21 aprile», «3 gennaio», «1° febbraio» e «Tevere»). Benché fossero truppe non proprio efficienti e per questo tenute a debita distanza dai rischi, la propaganda attribuì loro gesta eroiche inesistenti. La milizia divenne in tutto e per tutto la quarta forza armata, nella guerra dei sette mesi e negli anni dell’impero. Ufficiali della milizia erano di diritto membri di commissioni, consulte, tribunali militari ecc.
Attribuendo il maggior rilievo possibile alla milizia, il regime voleva inevitabilmente connotare la guerra non solo come fascista ma soprattutto come fascista/bellicista. Non è un caso che volontari alle armi fossero tutti inquadrati nella milizia e che allo stesso tempo fosse assente del tutto il Partito nazionale fascista. I fascisti dovevano apparire come gli eredi del primo fascismo, quello violento, ecco perché furono tutti immessi nella struttura militare contigua alla storia dello squadrismo4.
A partire dal 1933 Mussolini divenne ministro della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica; in pratica assunse tutto il potere militare nelle sue mani. Il generale Pietro Badoglio, capo di stato maggiore generale, aveva poteri poco più che consultivi, e benché avesse senz’altro più peso dei capi di stato maggiore dei singoli corpi, ogni provvedimento spettava a Mussolini.
Anche la decisione di incaricare comandante superiore delle operazioni un fascista come Emilio De Bono non fu casuale. Egli era un alto gerarca della prima ora, quadrumviro della marcia su Roma e un simbolo forte di politicizzazione.
Nelle intenzioni la guerra doveva essere veloce, rumorosa, dirompente, distruttiva. In un’unica parola: moderna. Il simbolo di questa modernità era l’aeronautica, forza armata «giovane» in tutti i sensi, che esercitava notevole influenza sull’immaginario collettivo. Le colonne erano previste autocarrate, per il trasporto degli uomini, delle armi e delle munizioni. Velocità e distruzione erano gli imperativi. I nemici, inferiori e indegni di rispetto, dovevano essere schiacciati senza via di scampo, né alcuna pietà doveva essere concessa a feriti e prigionieri5, e i morti avversari dovevano essere contati nell’ordine delle centinaia. Oltre a questa indubbia modernità, la guerra coloniale raggiungeva un livello notevole di efferatezza da parte di entrambi i belligeranti.
1.1. Motivazioni e cause
Con la guerra d’Etiopia la politica coloniale italiana intraprese un nuovo corso, perché dopo la battaglia di Adua del 1° marzo 18966 – una cocente sconfitta che costò la perdita di 300 ufficiali, 4.600 nazionali, 1.000 ascari, più di tutte le battaglie risorgimentali messe insieme – era stata rimessa in discussione. Allora la classe dirigente crispina si fece da parte e il Corno d’Africa non fu più al centro delle mire espansionistiche dell’Italia liberale. In parlamento prevalsero posizioni favorevoli al mantenimento delle colonie, seppure in un quadro politico generale definito di «raccoglimento», e le posizioni estremiste per l’abbandono dell’Eritrea o per un rafforzamento militare furono messe in minoranza. I militari che fino ad allora avevano gestito gli affari coloniali si disinteressarono progressivamente delle sorti dell’Eritrea e lasciarono spazio a una gestione civile della colonia7. Ferdinando Martini – governatore dell’Eritrea succeduto al generale Oreste Barattieri, maggiore responsabile della sconfitta di Adua – si prodigò per attrarre investimenti, ma non convinse il capitalismo italiano. Per almeno un trentennio, la presenza italiana sulle coste del Corno d’Africa non contribuì allo sviluppo economico della regione8. Le decisioni prese in quel periodo riguardo ai confini tra Eritrea ed Etiopia ancora oggi sono causa di guerre e conflitti.
La colonia primogenita fino ai primi anni Trenta non fu più oggetto di acceso dibattito. In verità le discussioni su un possibile allargamento delle colonie africane scomparvero solamente dal dibattito politico ufficiale, mentre proseguirono nei circoli coloniali e nelle società di esploratori9. Nei quindici anni successivi alla battaglia di Adua, le lobbies colonialiste ampliarono il proprio consenso, pur continuando a muoversi in ambiti ristretti.
Nel settembre del 1911 la politica di raccoglimento fu bruscamente interrotta, nel momento in cui il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti dichiarò guerra all’impero turco e mosse l’esercito contro i territori libici. La guerra contro la Turchia per le forze italiane non presentò eccessive difficoltà, ma la penetrazione della Libia si rivelò più difficile, lunga e costosa del previsto a causa della forte opposizione interna. Per molti anni il controllo politico e militare degli italiani rimase limitato alla costa, la conquista integrale del territorio e la pacificazione interna furono raggiunte soltanto vent’anni dopo10.
Nei confronti dell’impero etiopico, dopo Adua l’Italia liberale mantenne rapporti politici e diplomatici e scambi economici, rinunciando a ogni velleità espansionista. Le cose cambiarono dopo alcuni anni dall’ascesa al potere del fascismo. Nel novembre del 1932 Mussolini invitò il ministro delle Colonie Emilio De Bono a preparare uno studio per una campagna contro l’Etiopia. Per due anni i vertici politici e militari si confrontarono senza esclusione di colpi per ottenere il comando delle operazioni e maggiore visibilità. Fondamentalmente si contrapposero concezioni diverse della condotta bellica, in alcuni casi persino antitetiche. Essendo il territorio etiopico privo di strade e di altre infrastrutture, De Bono reputava fosse lo scenario tipico della guerra coloniale fatta di conquiste graduali, forze contenute, impiego di soldati indigeni; mentre altri, come il generale Pietro Badoglio, capo di stato maggiore generale, valutavano l’opportunità di trasformare l’aggressione in una guerra nazionale. Il 30 dicembre 1934 Mussolini inviò alle massime autorità del regime un promemoria segretissimo – Direttive e piano d’azione per risolvere la questione italo-abissina –, con il quale dava avvio alla mobilitazione vera e propria, ponendo l’autunno del 1935 come data per l’inizio delle operazioni. Rispetto a quanto era andato prefigurandosi fino a quel momento, il duce voleva una campagna massiccia dalle grandi dimensioni; ciò creò non pochi problemi perché rimaneva poco tempo per attivare una mobi...