Succede ad Aleppo
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Succede ad Aleppo

  1. 144 pagine
  2. Italian
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Succede ad Aleppo

Informazioni su questo libro

Che cosa era Saleh prima di vendere l'automobile per potersi comprare un mitra? E cosa era Nour prima che lasciasse i suoi figli per combattere? E il padre di Mansour aveva la stessa aria dolce e risoluta nel suo barracano nero, dopo aver perso suo figlio?Tutti, giovani e vecchi, uomini e donne, si trascinano dietro la paura come lo sporco attaccato alle scarpe. Perché Aleppo è insieme Guernica e Stalingrado, Sarajevo e Grozny.

Aleppo, città millenaria fondata dagli Ittiti e perla dell'Impero romano, la città dove hanno convissuto per secoli arabi, armeni, curdi e circassi non esiste più. Anni di guerra hanno spazzato via i 2.000.000 di abitanti, lasciando soltanto macerie. Che cosa rimane oggi di Aleppo? Che cosa ne è di quel luogo di pace in cui gli uomini pregavano Dio chiamandolo con nomi diversi? Per raccontarlo ci vorrebbero le apocalissi di Dürer o la furia lugubre del Greco con i suoi cieli di agonia. Ad Aleppo sembra che a muovere la guerra sia la Natura, non più gli uomini. Si sente la presenza delle forze del Male che scivolano lungo i muri. Non perdonano né le rovine di interi quartieri né le isole intatte.Domenico Quirico ripercorre in queste pagine gli anni della guerra civile con la forza di una testimonianza vissuta drammaticamente. Dalle prime manifestazioni contro il regime, sulla scia delle speranze della primavera araba, alle battaglie nelle vie dei vecchi quartieri ormai abbandonati. Dallo scontro tra Armata siriana libera, esercito di Bashar e milizie dello Stato islamico, alla fine della rivoluzione. Un affresco corale che racconta di assassini e di angeli, di bambini e di contrabbandieri, di forza e di paura.

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Informazioni

1.
L’inizio

L’attacco e la difesa di una città richiedono
molto talento e valore da parte di un generale,
oltre che una grande quantità di congegni.
Deve prendere infinite precauzioni,
e nascondere i suoi piani di attacco...
L’assediato conosce i pericoli che lo minacciano
e può trovare mezzi per opporvisi.
Onasandro, Strategikos, capitolo 23
Quando ha iniziato a morire Aleppo? Non lo so. Forse ha cominciato a morire, e non ce ne siamo accorti, nel momento in cui sembrava ancora viva e in tumulto. E invece la guerra era entrata in lei, lentamente, subdolamente: già ne rodeva le viscere e i centri nervosi. Scriveva in silenzio il capitolo della lentissima agonia, quando non sarebbe più stato possibile tornare indietro, predisporre le cure. Nessuno di noi, testimoni, lo sapeva. Nessuno degli abitanti di Aleppo, quelli che scendevano in strada e quelli che li accusavano di essere ribelli e traditori, i soldati leali al governo e quelli che simpatizzavano per l’Armata siriana libera, nel tempo in cui si accontentavano di tentare di proteggere le manifestazioni dai picchiatori del regime. Chi poteva intuirlo? Eppure...
Non ero ad Aleppo il 15 marzo del 2011, quando i primi sparuti cortei di contestazione al governo di Bashar Assad cominciarono a sfilare, timidamente, per le vie delle maggiori città.
E neppure il 18, quello che nei libri di Storia si chiamerà il venerdì della dignità, quando i cortei si fecero via via più intrepidi e gli slogan più forti. Era la primavera araba che correva, anche qui, sul filo delle immagini televisive che rimbalzavano dal Cairo, da Tunisi e da Tripoli, con le dittature sorelle di quella di Bashar che cadevano nella polvere, scoperchiate dalle mani alzate e dagli sguardi decisi di folle di adolescenti.
Forse Aleppo ha cominciato a morire durante il Ramadan del 2011, quando in città e a Damasco il regime decise di scatenare gli shabiha per scagliarli contro coloro che avevano fama di oppositori, intimidirli e farli sparire. Forse. È allora che la paura ha cominciato a scendere sulla città, a dividerla in quartieri.
E poi... e poi il 3 maggio del 2012, in una spedizione punitiva all’università, vennero massacrati quattro studenti. Fu l’avvio della rivoluzione violenta e delle battaglie di strada tra gli uomini degli infiniti Servizi di sicurezza e quella che ormai si chiamava l’Armata siriana libera, formata da disertori e civili, soprattutto ragazzi.
Aleppo: che sapevo io di questa città e di questa rivoluzione? Entrarci allora, nel luglio del 2012, con il mondo in tumulto, era la rivelazione divina del tempo. La guerra devastava la Siria, città intere sparivano in un’ora, popoli morivano sotto la vergogna, altri si sollevavano in questa parte del mondo in nome della collera, i cadaveri diventavano migliaia, e migliaia di uomini qui e altrove non pensavano ad altro che al modo migliore per uccidere altri uomini.
Ad Aleppo, non lo immaginavo, quella sera l’angelo della morte regnava come un padrone ancora sornione, cauto: ma già sapeva di avere la città in pugno. Aspettava.
Che cosa c’era di diverso tra quel mio arrivo e quello dei viaggiatori di un tempo, quando Aleppo era mito ed esotismo? Nulla. Apparentemente. Aleppo rumoreggiava mentre la notte scendeva tiepida e quieta. La cittadella specchiava l’ultimo riflesso sanguigno del tramonto e pareva un fiume di luce tra le masse nere dei palazzi e delle case. Dall’alto dei minareti sottili, intatti, rosati dal crepuscolo, scendeva sulle tenebre tumultuose delle vie un canto strano e malinconico, insistente e lamentoso come un pianto senza conforto e dolce come una preghiera. Sembrava un addio al giorno che muore. Erano i muezzin che cantavano la gloria di Allah.
Dagli edifici irregolari, cemento grigio e sporco, affastellati negli anni, sporgevano in mille modi, sopra un intrico di mensole, di sostegni, i balconi, prolungamento di case troppo piccole per famiglie troppo grandi.
C’erano ancora i mercati, allora. Ma forse confondo con qualche libro di viaggio del primo Novecento: mi sembra di ricordare che i venditori lanciassero ancora, coraggiosamente, gridi speciali, a cantilena, per esaltare la propria merce. Forse ho comprato una camicia in un mercato. Forse.
Nella città vecchia intravedevi da una porta socchiusa un cortile di marmo, calmo e ridente. Un’antica fontana nel mezzo, vuota, asciutta, priva del sussurro della sua secolare canzone d’acqua. Si scorgevano delle donne che rapide si nascondevano. Un cortile di una moschea: sul suo limite pareva che il tumulto della via si spegnesse. Gli archi arabi, eleganti e snelli, correvano intorno, i ricchi marmi con la patina austera dell’età. I fedeli immobili pregavano prostrati sul pavimento lucido per il passaggio di piedi nudi che li specchiava.
Eppure... eppure c’era la guerra.

2.
Uomini

È con un esercizio giornaliero e condotto
a lungo che tutte le arti si perfezionano.
Se questa massima è vera per le piccole
cose, come non può esserlo per quelle
più importanti? E chi non sa che l’arte
della guerra è la più importante, la più grande
di tutte? È attraverso di lei che la libertà
si conserva, e la dignità di un popolo
si perpetua.
Flavio Vegezio, Istruzioni militari, libro III
Tutti sono stati plasmati dal conflitto e dal suo trauma; consciamente o inconsciamente si sono rimodellati, hanno assunto un atteggiamento, indossato una maschera, si sono lasciati compenetrare profondamente da quella esperienza e ne sono usciti riconfigurati. Ma prima com’erano? Cosa era Saleh prima di vendere l’automobile per potersi comprare un mitra e combattere? Si sentiva un uomo come ora che lo mostra orgoglioso, quasi fosse un figlio?
E cosa era Mudar che ti insegue, umilmente petulante, per mostrarti come prova del suo coraggio, della sua nuova identità, un video sul telefonino? E si vedono sequenze di battaglia, blindati che manovrano sotto il fuoco dei lanciarazzi e poi cadaveri di soldati a terra, tutti curiosamente senza scarpe («faceva un caldo tremendo, se l’erano tolte sui pick-up e quando li abbiamo attaccati non hanno avuto il tempo...»)? La voce che grida ossessivamente «Dio è grande» nel sonoro, roca e spezzata dalla corsa e dall’emozione, è la sua. E forse erano così, un tempo, gli eroi di Omero nella pianura di Ilio: mostravano lo scudo pieno di ammaccature e ognuna era una vittoria.
E cosa era Nour che non vede i suoi due figli da tre mesi, sono in Turchia, e spiega che li ha lasciati lì per essere più libero quando combatte? Aveva, prima, questo padre affettuoso lo stesso piglio di ardito e spicciativo furfante? E il padre di Mansour detto «la tigre» per la sua furia e che ora non c’è più, martire, ma dopo aver liberato questa zona e quella di Qala’at Al-Najam dai soldati di Bashar? Che cosa era prima di ribellarsi, ai tempi del dittatore padre? Aveva la stessa aria dolce e risoluta nel suo barracano nero, nonostante quel figlio perduto?
E questo ragazzo che racconta il massacro di cinque paesani, tre fratelli e due dei loro figli: commercianti, senza legami con la rivoluzione, li avevano fermati gli uomini dei Servizi alla barriera di Elamun all’ingresso di Aleppo, di qui sono trenta chilometri; hanno poi ritrovato quei malavventurati in campagna, nella loro auto, le mani legate dietro la schiena, orrendamente torturati e mutilati. Avrebbe avuto questo ragazzo, cinquecento giorni fa, prima che la rivoluzione scoppiasse, la stessa quieta risolutezza nel mostrarti, anche lui, un video che ha girato sul telefonino, tremendo, volti irriconoscibili per i colpi, mani tagliate, quando l’odio diventa delirio? «Erano di una grande famiglia, gli Oso, qui della zona, che ha ragazzi nella rivolta...»: avrebbe avuto questo coraggio, prima dell’erta di quei cinquecento giorni?
Poi uno dei ragazzi dell’Armata siriana libera che mi scortano ha detto: «Tu forse non puoi capire tutto perché non sei vissuto qui negli ultimi quarant’anni: nemmeno in casa, nemmeno quando eri solo con i figli o con tuo padre, avevi il coraggio di parlare liberamente, ti guardavi attorno, sussurravi. Potevi bestemmiare il tuo Dio, senza danni, quanto volevi; ma se pronunciavi il nome di Assad eri morto».
Le stesse parole me le ha dette un uomo della rivoluzione libica a Bengasi quando Gheddafi era già caduto: ecco, la paura. Riassume il passato della gente che ha combattuto e combatte la rivoluzione araba in questa città. Si sono trascinati dietro la paura come qualcosa di sporco attaccato alle scarpe, giovani e vecchi, uomini e donne, risoluti e tentennanti. Per generazioni. Si battono per scuotersela di dosso e per sempre.
Hanno esitato prima di gettarsi nella rivoluzione come in un fiume per lavarsi del passato. Avevano paura, lo ammettono, ma non del figlio Bashar: erano le vecchie croste della paura del padre, che aveva ucciso senza muovere un muscolo del viso quarantamila persone che si erano ribellate. Come ora. In questi mesi del 2012 mi era parso inspiegabile che gli uomini del regime si accanissero contro i bambini, torturandoli, uccidendoli: «Era un modo per ricordarci che non hanno limiti in quello che possono fare, per ridare forza a quella paura».
Avevano paura dei diciassette Servizi di sicurezza, tutti indipendenti l’uno dall’altro, tutti rapaci e malefiziosi, tutti onnipotenti e «ognuno dei suoi capi è come un altro piccolo Assad...».
Fino a ieri ripetevano un proverbio che mi sembrava misterioso, senza senso: «chi entra è perso e chi esce è nato». Parlava di coloro che, arrestati, venivano portati nella prigione di Palmira, nel deserto. Lì sparivano, inghiottiti nel nulla; neppure i cadaveri restituivano ai parenti. Anzi, per punizione venivano tolte loro case e proprietà. Palmira: che per noi era soltanto meraviglia, Storia e pietre...
Per tutto questo la regione di Aleppo, qui nel Nord, quando quasi a sorpresa la rivoluzione è scoppiata, è rimasta apparentemente tranquilla, indifferente. In realtà si preparava. Tutti hanno un fucile in casa: perché se non lo possiedi non sei un uomo, non puoi difenderti; altre armi sono arrivate attraverso il confine turco. E ora, nel gennaio del 2012, vaste zone, città e villaggi sono liberi, si amministrano affidati ai notabili o a qualche imam venerato.
Per arrivarci il viaggio è breve nello spazio ma lungo, interminabile nelle vibrazioni dell’anima e della Storia. Al di qua della frontiera la Turchia è la luce, energica arrogante aggressiva narcisista proprio come questo Paese che sprizza orgoglio e desiderio quasi dalla terra, che vuole espandersi, far da modello e comandare. Eppure, al di qua del confine si spengono subito alcune certezze nel sanguinoso imbroglio siriano. Che la Turchia sia a fianco dei ribelli, li addestri, li aiuti, li armi. Senza dirlo, Erdoğan vuole due cose: vedere Assad nella polvere e riprendersi Aleppo. Aleppo, la città mito che per i turchi è turca... Mille giravolte e un unico scopo: Aleppo! I generali, gli ufficiali e i soldati siriani che hanno disertato e si sono rifugiati oltre confine sono in pratica prigionieri nei campi, controllati a vista: niente armi, nessun istruttore. Ankara, ossessionata dal problema dei curdi, è larga di parole ma avara di fatti, e modellerà su questo la sua azione.
E poi altre delusioni: «Agli americani – mi racconta un ufficiale disertore – abbiamo chiesto gli Stinger, i missili terra-aria, ci servono contro gli aerei e gli elicotteri. Ora cerchiamo di abbatterli tirando con le mitragliatrici verso l’alto, sdraiati con la schiena per terra. Li hanno dati ai libici. A noi hanno risposto no: dicono che temono di perderli, che finiscano in mani ignote. Già, ma di quelli dati ai libici che cosa sanno?».
Al di là della frontiera chiusa la Siria è il buio. L’attesa a Kilis per attraversare è lunga, in uno spiazzo accanto allo stazzo di un gregge di pecore, l’odore acuto che arriva a zaffate. Giovani uomini escono continuamente dall’ombra, sono disertori che hanno deciso di raggiungere l’armata degli insorti. Fioriscono nel marcio della guerra, come fiori velenosi, i «passeur»: contrabbandieri di roba di armi di uomini, sono un po’ turchi un po’ siriani, gente di confine, si offrono, assicurano che i soldi servono ad aiutare la rivoluzione. Chissà.
A fari spenti un’auto ci porta in mezzo alla campagna, il buio dapprima lascia intravedere disordinate forme inorganiche. È la città che si sfilaccia nella notte segnando la fine dei quartieri poveri e l’inizio dei campi con lunghe file di ulivi che presidiano il niente. La luce della luna crescente del Ramadan svela la trama di un ...

Indice dei contenuti

  1. Prologo. Come muore una città
  2. 1. L’inizio
  3. 2. Uomini
  4. 3. Prigionieri
  5. 4. L’ospedale di Dar al Shifaa
  6. 5. Piombo e polvere
  7. 6. Fuggire
  8. 7. Illusioni
  9. 8. Salaheddine
  10. 9. Massacro
  11. 10. Macerie
  12. 11. Le notti
  13. 12. Bombardamento
  14. 13. Il cecchino
  15. 14. La città vecchia
  16. 15. Il tempo nuovo
  17. 16. Ritorno
  18. 17. Gli uomini neri
  19. 18. La mano di Dio
  20. 19. Pallottole
  21. 20. Il veterinario
  22. 21. Morire
  23. 22. Il silenzio degli altri
  24. 23. I fuggiaschi
  25. 24. I bambini di Aleppo
  26. Epilogo