Modus vivendi
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Modus vivendi

Inferno e utopia del mondo liquido

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Modus vivendi

Inferno e utopia del mondo liquido

Informazioni su questo libro

Se vogliamo capire in che mondo viviamo e non sbagliare le mosse, interpretandolo con le categorie che abbiamo utilizzato in passato e che oggi non servono più, è opportuno leggere Modus vivendi di Zygmunt Bauman. Il libro è bellissimo. La condizione umana, dipinta come un inferno, invoca un'utopia che la possa riscattare. Umberto Galimberti

Con un libro folgorante, Zygmunt Bauman si conferma lucidissimo nelle sue analisi sul tipo di mondo nel quale ci è capitato di vivere. Corrado Augias

Modus vivendi è uno dei più bei libri scritti da Bauman. Lelio Demichelis, "Tuttolibri"

In questo saggio la modernità liquida è sinonimo di rapacità, e l'hobbesiano homo homini lupus si ripresenta al centro della scena. L'analisi di Bauman è cupa e tuttavia condita da una buona dose d'ironia. Benedetto Vecchi, "il manifesto"

Domande frequenti

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Informazioni

1. La vita liquida moderna e le sue paure

«Se vuoi la pace, cura la giustizia», asseriva la saggezza antica; e a differenza della conoscenza, la saggezza non invecchia. L’assenza di giustizia sta sbarrando la strada alla pace oggi come duemila anni fa. Le cose non sono cambiate. Ciò che è cambiato è che la «giustizia» oggi, a differenza dei tempi antichi, è una questione planetaria, che si misura e si valuta con confronti planetari; e questo per due ragioni.
La prima è che, in un pianeta attraversato in tutte le direzioni da «autostrade dell’informazione», nulla di quanto vi accade da qualunque parte può di fatto, o almeno potenzialmente, rimanere in un «fuori» intellettuale. Non c’è una terra di nessuno, non ci sono zone in bianco sulla mappa mentale, non ci sono terre e popoli ignoti, né tanto meno inconoscibili. La sofferenza umana di località distanti e modi di vivere remoti, e la dissolutezza di altri luoghi distanti e altri modi di vivere remoti entrano nelle nostre case attraverso le immagini elettroniche nella stessa vivida, straziante, vergognosa o umiliante maniera della miseria e dell’ostentata prodigalità degli esseri umani che incontriamo vicino a casa nelle nostre passeggiate quotidiane per le strade della città. Le ingiustizie a partire dalle quali sono stati forgiati i modelli di giustizia non rimangono più confinate alle immediate vicinanze, non c’è più bisogno di andarle a cercare nella «privazione relativa» o nei «differenziali salariali» rispetto ai vicini della porta accanto, o agli amici che occupano il gradino successivo della scala sociale.
La seconda ragione è che, in un pianeta aperto alla libera circolazione delle merci e dei capitali, qualunque cosa accada in un posto comporta ricadute su come la gente vive, spera o si aspetta di vivere in tutti gli altri posti. Niente può essere considerato davvero materialmente «esterno». Niente è veramente, o può rimanere a lungo, indifferente a qualsiasi altra cosa, intatto e senza contatto. Il benessere di un luogo ha la sua parte di responsabilità nella sofferenza di un altro luogo. Nel succinto sommario di Milan Kundera, una «unità dell’umanità» come quella portata dalla globalizzazione significa principalmente che «non c’è possibilità di fuga, in nessun posto e per nessuno»1.
Come ha fatto notare Jacques Attali nella Voie humaine2, la metà del commercio mondiale e oltre la metà degli investimenti a livello globale vanno a vantaggio di appena ventidue paesi che ospitano un misero 14 per cento della popolazione del pianeta, mentre i quarantanove paesi più poveri, dove vive l’11 per cento della popolazione mondiale, ricevono complessivamente soltanto lo 0,5 per cento del prodotto globale, quasi lo stesso ammontare del reddito totale dei tre uomini più ricchi del pianeta. Il 90 per cento della ricchezza totale del pianeta resta nelle mani dell’1 per cento appena degli abitanti. E non si vedono all’orizzonte frangiflutti in grado di contenere la marea montante della polarizzazione della distribuzione del reddito a livello globale, che continua a crescere minacciosamente.
Le pressioni volte a sfondare e a smantellare i confini, che vanno comunemente sotto il nome di «globalizzazione», sono riuscite nel loro intento, con poche eccezioni, tutte in via di rapida sparizione: adesso tutte le società sono completamente e veramente spalancate, a livello materiale e intellettuale. Mettete assieme tutti e due i tipi di «apertura» – intellettuale e materiale – e capirete perché qualsiasi danno, privazione relativa o indolenza congegnata giunga ovunque corredato anche dalla beffa dell’ingiustizia: il senso del torto che è stato perpetrato, un torto che chiede a gran voce di essere riparato, ma che prima di tutto costringe le vittime a vendicarsi delle proprie avversità...
L’«apertura» della società aperta ha acquisito un nuovo significato, che Karl Popper, al quale si deve l’espressione, non avrebbe mai immaginato. Come prima, questa espressione indica una società che ammette francamente la sua incompletezza e quindi smania di occuparsi delle proprie possibilità, ancora non intuite, né tanto meno esplorate; ma indica anche una società impotente, come mai prima d’ora, a decidere il proprio cammino con un minimo grado di certezza, e a tutelare l’itinerario scelto una volta presa la decisione. L’«apertura», un tempo prodotto prezioso ancorché fragile di una capacità di farsi valere coraggiosa e faticosa al tempo stesso, oggi è associata prevalentemente a un destino cui non ci si può opporre; agli effetti collaterali, non pianificati né previsti, della «globalizzazione negativa»: una globalizzazione selettiva di commercio e capitali, sorveglianza e informazione, violenza e armi, delitti e terrorismo, tutti unanimemente concordi nel rifiuto del principio della sovranità territoriale e nella mancanza di rispetto per qualsiasi confine statale. Una società «aperta» è una società esposta ai colpi del «destino».
Se l’idea della «società aperta» in origine stava a indicare l’autodeterminazione di una società libera che aveva a cuore la sua apertura, adesso ai più fa venire in mente la terrificante esperienza di una popolazione eteronoma, sventurata e vulnerabile, messa di fronte a (e forse sopraffatta da) forze che non controlla né capisce a fondo; una popolazione atterrita dalla propria incapacità di difendersi e ossessionata dalla tenuta delle sue frontiere e dalla sicurezza degli individui che vivono al loro interno, mentre sono proprio questa impermeabilità dei confini e questa sicurezza che le sfuggono di mano e sembrano destinate a restare sfuggenti finché il pianeta sarà soggetto esclusivamente alla globalizzazione negativa. In un pianeta globalizzato negativamente è impossibile ottenere la sicurezza, e tanto meno garantirla, all’interno di un solo paese o di un gruppo scelto di paesi: non con i loro mezzi soltanto, e non a prescindere da quanto accade nel resto del mondo.
E neanche la giustizia, condizione preliminare di una pace duratura, può essere raggiunta, né tanto meno garantita, all’interno di un solo paese. L’«apertura» perversa delle società imposta dalla globalizzazione negativa è essa stessa causa prima di ingiustizia e quindi, per vie traverse, di conflitti e di violenza. Come dice Arundhati Roy, «quando le élites, da qualche parte al vertice del mondo, portano avanti il loro viaggio verso le destinazioni fantasticate, i poveri finiscono intrappolati in una spirale di crimine e di caos»3. Le azioni del governo degli Stati Uniti, dice Roy, insieme ai suoi vari satelliti, malamente camuffati da «istituzioni internazionali», come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione mondiale per il commercio, hanno portato, come «pericolosi sottoprodotti», «nazionalismo, fanatismo religioso, fascismo e, ovviamente, terrorismo, che progredisce di pari passo con la globalizzazione liberista».
«Mercati senza frontiere» è la ricetta per l’ingiustizia e per il nuovo disordine mondiale che rovescia la famosa formula di Clausewitz, condannando la politica a diventare la continuazione della guerra con altri mezzi. La deregulation, che sfocia nell’illegalità planetaria, e la violenza armata si alimentano a vicenda, si rafforzano reciprocamente e traggono vigore l’una dall’altra; come avverte un altro adagio di antica saggezza, inter armas silent leges (quando parlano le armi, le leggi tacciono).
Prima di inviare i soldati in Iraq, Donald Rumsfeld dichiarò che «la guerra sarà vinta quando gli americani si sentiranno di nuovo sicuri»4. Da allora, quel messaggio è stato costantemente ripetuto – giorno dopo giorno – da George W. Bush. Ma l’invio dei soldati in Iraq ha fatto crescere e continua a far crescere la paura dell’insicurezza, negli Stati Uniti e altrove, fino a livelli mai raggiunti prima.
Come si poteva prevedere, la sensazione di insicurezza non è stata l’unica vittima collaterale della guerra. Le libertà personali e la democrazia hanno seguito ben presto la stessa sorte. Per citare l’avvertimento profetico di Alexander Hamilton:
La distruzione violenta di vite e di beni che è insita nella guerra, il perpetuo stato di allarme e di tensione che è determinato da un pericolo incombente, farà sì che perfino le nazioni a cui sta più a cuore la libertà, ricorreranno, per raggiungere sicurezza e distensione, ad istituti che potrebbero compromettere i loro diritti civili e politici. A lungo andare, pur di ottenere una certa sicurezza, esse diverranno propense a correre il rischio di divenire meno libere5.
Ora questa profezia si sta realizzando.
Una volta abbattutasi sul mondo degli uomini, la paura si alimenta da sola, acquisisce una sua logica di sviluppo, cresce e si diffonde – in modo inarrestabile – senza quasi bisogno di cure, di ulteriori apporti. Per usare le parole di David L. Altheide, la condizione peggiore non è la paura del pericolo, ma piuttosto quello in cui questa paura può trasformarsi, ciò che può diventare6.
La paura ci spinge a un atteggiamento difensivo. Una volta assunto, esso dà immediatezza e concretezza alla paura. Sono le nostre reazioni che trasformano gli oscuri presagi in realtà quotidiane, facendo diventare carne la parola. La paura ormai ci è entrata dentro, saturando le nostre abitudini quotidiane: non ha quasi più bisogno di altri stimoli dall’esterno, bastano le azioni che ci induce a compiere giorno dopo giorno a fornire tutta la motivazione e tutta l’energia di cui ha bisogno per riprodursi. L’intreccio di paura e azioni ispirate dalla paura, con la sua capacità di riprodursi autonomamente, è il meccanismo che più si avvicina al modello sognato del perpetuum mobile.
Sembra che le nostre paure siano diventate capaci di perpetuarsi e rafforzarsi da sé; come se avessero acquistato slancio di per sé e potessero continuare a crescere attingendo esclusivamente alle loro risorse. Quest’apparente autosufficienza è ovviamente soltanto un’illusione, come è stato per i tanti altri meccanismi che reclamavano il miracolo del moto perpetuo, capace di autoalimentarsi. Chiaramente il ciclo della paura e delle azioni dettate dalla paura non si perpetuerebbe così facilmente né andrebbe avanti aumentando la velocità se non continuasse ad attingere la sua energia dai tremori esistenziali.
La presenza di tremori del genere non è esattamente una novità: i terremoti esistenziali hanno accompagnato gli esseri umani per tutta la loro storia, perché nessuno degli ambienti sociali all’interno dei quali si sono sviluppate le scelte di vita degli uomini ha mai offerto un’assicurazione assolutamente infallibile contro i colpi del «destino» (così chiamati per distinguerli dalle avversità che gli esseri umani potevano evitare, e non tanto per esprimere la natura peculiare di questi colpi in quanto tali, quanto per attestare l’incapacità umana di prevederli, e tanto meno di impedirli o tenerli a bada). Per definizione, il «destino» colpisce senza preavviso ed è indifferente a quanto le sue vittime possano fare, o astenersi dal fare, per sfuggire ai suoi colpi. Il «destino» sta a indicare l’ignoranza e l’impotenza umane, e deve il suo potere spaventoso e terrificante proprio a queste debolezze delle sue vittime. E, come i redattori della «Hedgehog Review» hanno scritto nell’introduzione al numero speciale della rivista dedicato alla paura, «in mancanza di agio esistenziale» la gente tende ad accontentarsi dell’«incolumità, o di una presunta incolumità»7.
Il terreno su cui poggiano le nostre prospettive di vita è notoriamente instabile, come sono instabili i nostri posti di lavoro e le società che li offrono, i nostri partner e le nostre reti di amicizie, la posizione di cui godiamo nella società in generale e l’autostima e la fiducia in noi stessi che ne conseguono. Il «progresso», un tempo la manifestazione più estrema dell’ottimismo radicale e promessa di felicità universalmente condivisa e duratura, si è spostato all’altra estremità dell’asse delle aspettative, connotata da distopia e fatalismo: adesso «progresso» sta a indicare la minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui, senza un attimo di tregua. Il progresso è diventato una sorta di «gioco delle sedie» senza fine e senza sosta, in cui un momento di distrazione si traduce in sconfitta irreversibile ed esclusione irrevocabile. Invece di grandi aspettative di sogni d’oro, il «progresso» evoca un’insonnia piena di incubi di «essere lasciati indietro», di perdere il treno, o di cadere dal finestrino di un veicolo che accelera in fretta.
Incapaci di far rallentare il ritmo sbalorditivo del cambiamento, e tanto meno di prevederne e controllarne la direzione, ci concentriamo sulle cose che possiamo (o crediamo di potere, o ci hanno garantito che possiamo) influenzare: cerchiamo di calcolare e di minimizzare il rischio che corriamo noi personalmente, o chi in quel momento ci è più vicino o più caro, il rischio di cadere vittime degli infiniti e innumerevoli pericoli che ci riservano il mondo impenetrabile e il suo futuro incerto. Siamo tutti presi a spiare i «sette segnali del cancro» o i «cinque sintomi della depressione», o a esorcizzare lo spettro della pressione alta, o il livello del colesterolo, dello stress o dell’obesità. In altre parole, cerchiamo dei bersagli di riserva sui quali scaricare l’eccesso di paura esistenziale che non riesce a sfogarsi in modo naturale, e troviamo questi bersagli di ripiego nelle elaborate precauzioni per evitare di inalare il fumo della sigaretta di un’altra persona, di ingerire cibi grassi o batteri «cattivi» (mentre ingurgitiamo avidamente quei liquidi che ci assicurano di contenere quelli «buoni»), di esporci al sole o di praticare il sesso senza protezione. Quelli di noi che se lo possono permettere si trincerano contro tutti i pericoli, visibili e invisibili, attuali o annunciati, noti o ancora poco familiari, diffusi ma onnipresenti, chiudendosi in casa, riempiendo le vie d’accesso alle nostre abitazioni di telecamere, assumendo guardie armate, guidando veicoli blindati (come i famigerati Suv), indossando vestiti corazzati (come le «scarpe con la suola rinforzata») oppure facendo corsi di arti marziali. «Il problema», per citare ancora David L. Altheide, «è che queste attività contribuiscono a riaffermare e a produrre una sensazione di disordine che le nostre azioni accelerano». Ogni serratura in più alla nostra porta d’ingresso, in reazione all’ennesima voce su criminali dall’aspetto forestiero che girano con i pugnali nascosti sotto al mantello, ogni ritocco della dieta in reazione all’ennesimo «panico alimentare» ci fa apparire il mondo più infido e terribile, e ci spinge a ulteriori azioni difensive, rafforzando ancora di più, ahimé, la capacità della paura di autopropagarsi.
Insicurezza e paura possono essere (e lo sono) molto redditizie da un punto di vista commerciale. «I pubblicitari», commenta Stephen Graham, «hanno approfittato deliberatamente delle paure diffuse di catastrofici attentati terroristici per aumentare ulteriormente le vendite dei già lucrosissimi Suv»8. I mostri militari succhia-benzina, denominati in maniera fuorviante «sport utility vehicles», hanno già raggiunto il 45 per cento del totale delle vendite complessive di autoveicoli negli Stati Uniti e sono stati arruolati nella vita urbana quotidiana come «capsule difensive». Il Suv è
un simbolo di incolumità che, al pari delle comunità recintate dove più facilmente li si vede circolare, viene presentato dalla pubblicità come un veicolo invulnerabile alla rischiosa e imprevedibile vita urbana di fuori [...]. Veicoli come questi sembrano placare la paura che provano le classi medie urbane quando si spostano – o stanno in coda nel traffico – nelle «loro» città.
Come il capitale liquido pronto a qualsiasi tipo di investimento, il capitale della paura può essere indirizzato verso qualsiasi tipo di profitto, commerciale o politico. E così è l’incolumità personale a diventare uno dei principali, se non il principale selling point in tutti i tipi di strategie di marketing. «Legge e ordine», slogan ridotto sempre più alla promessa di incolumità personale (più precisamente, fisica), è diventato uno dei principali, forse il principale selling point dei manifesti politici e delle campagne elettorali; e mettere in mostra le minacce all’incolumità personale è diventata una delle principali, se non la principale risorsa nella guerra degli ascolti tra i mass media, rimpinguando continuamente il capitale della paura e rendendone ancora più efficace l’utilizzo, sia commerciale che politico. Come dice Ray Surette, il mondo visto alla TV somiglia a una «citizen-sheep», una cittadinanza-gregge protetta dalle aggressioni dei «criminali-lupi» ad opera dei «poliziotti-cane da pastore»9.
La distinzione più feconda delle incar...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Coraggiosamente fin dentro al focolaio delle incertezze
  2. 1. La vita liquida moderna e le sue paure
  3. 2, L’umanità in movimento
  4. 3. Stato, democrazia e gestione delle paure
  5. 4. Separati in casa
  6. 5. L’utopia nell’età dell’incertezza