1849. Contro i Savoia
di Bianca Montale
Negli anni della Restaurazione, e sino alla vigilia delle riforme albertine, Genova rappresenta un problema di non facile soluzione per il governo subalpino. Dopo la forzata annessione al regno di Sardegna, la città è sicuramente qualcosa di diverso rispetto agli altri domini sabaudi: quasi un corpo estraneo che stenta a inserirsi, mostrando diffidenza e scarsa disponibilità alla collaborazione. La morte della vecchia repubblica oligarchica, avvenuta per cause naturali ancor prima che per le note vicende politiche, lascia una specie di vuoto, per cui la discussa unione al Piemonte, a un giudizio più sereno, ha anche qualche riflesso positivo; il nuovo Stato, tutto sommato, ha strutture migliori e ordinamenti ben più efficienti. Ma i ricordi di un passato glorioso, le tradizioni, il rimpianto per l’indipendenza perduta e la secolare avversione che i genovesi hanno nei riguardi di Torino – rafforzata in più di un’occasione nel corso del Settecento – rappresentano un bagaglio pesante. Invano a Vienna Agostino Pareto e Antonio Brignole Sale avevano tentato di proporre soluzioni diverse: orgoglio municipale, rifiuto di una monarchia assoluta, convinzione di un’incompatibilità di interessi economici contribuiscono ad alimentare uno stato d’animo diffuso di malcontento e di vittimismo. Si parla apertamente di rovina del paese, di commercio sacrificato, di totale discordanza di sentimenti e di opinioni. Lo stesso La Tour, che si rende lucidamente conto della complessità del problema, suggerisce per la Liguria una forma di governo diversa da quella del Piemonte, o di dare ai territori dell’antica repubblica ordinamenti più liberali. Al momento dell’annessione, dopo il tracollo economico provocato anche dalle guerre francesi, il regno sabaudo eredita una situazione davvero delicata, col rifiuto di gran parte dei genovesi di adeguarsi alla nuova realtà .
Per decenni tra gli storici si è consolidato il mito di una città oppressa e perennemente irrequieta, sempre portata ad attribuire a Torino responsabilità vere o presunte di ogni situazione negativa. Oggi uno studioso di grande qualità , Giovanni Assereto, ci ha dato, su elementi degni di attenzione, un’interpretazione assai diversa: assolvendo in linea di massima e con qualche riserva il governo piemontese e sottolineando l’incomprensione e l’avversione sterile e preconcetta dei genovesi per il nuovo status, forse non peggiore di quello precedente.
La lunga fase di transizione dall’indipendenza a un regime assoluto non è indolore e fa sentire l’annessione come un’umiliazione: sono notissimi i quadri di Felice Guascone, che raffigura Genova venduta a Vittorio Emanuele I, che si impadronisce della città con il denaro e passa tra la miseria e l’indifferenza della popolazione.
Genova è stata in passato città ricca, con attività commerciali e finanziarie che l’hanno resa importante in tutta Europa: uno Stato tipicamente cittadino che amministrava e tassava poco il proprio dominio, trascurava ogni forma di promozione economica, non era attento ai problemi delle riviere, che appunto per questo accettano con molte speranze l’unione al regno di Sardegna. Ora l’antica oligarchia rimpiange il potere perduto e nella sua maggioranza rifiuta un coinvolgimento; la rovina della grande finanza genovese crea una situazione di crisi. Almeno nei primi anni la sovrapposizione di due diverse realtà politiche ed economiche provoca stagnazione, politica daziaria rigida, ignoranza dei meccanismi portuali, intoppi burocratici.
Ma Torino si rende conto della difficoltà dell’integrazione, e non ignorando il carattere particolare della nuova conquista è disposta ad alcune concessioni. Le regie patenti del 30 dicembre 1814 pareggiano a quelli piemontesi i nuovi sudditi; garantiscono il debito pubblico, concedono il porto franco e un Senato analogo a quello di Torino; istituiscono un tribunale di commercio e un consiglio provinciale con parere consultivo sulle imposizioni straordinarie; conservano titoli nobiliari, gradi e impieghi; equiparano l’università a quella della capitale; creano un discusso e disertato corpo decurionale municipale. Anche se le cariche politiche più alte – il governatore, i comandi dell’armata – spettano ai piemontesi, importanti ruoli locali sono attribuiti a genovesi disposti ad accettare il fatto compiuto: la presidenza del Senato, organismo giudiziario; della Deputazione degli studi; della Camera di commercio. A un livello superiore, Gian Carlo Brignole diviene ministro e Antonio Brignole Sale, figura di grande prestigio e di antica nobiltà , ambasciatore a Parigi. Ma permangono reciproca diffidenza e timori: viene rafforzata la cerchia di mura con una serie imponente di forti, sono edificati nella città , non certo per una difesa verso l’esterno, il San Giorgio e il Castelletto ed è mantenuta a Genova una pletorica guarnigione di oltre 7.000 soldati. Malgrado non poche eccezioni, un sentimento di ostilità o semplicemente di indifferenza permane nella grande maggioranza dell’opinione pubblica, almeno sino agli inizi degli anni Quaranta.
Per Giovanni Assereto, che conosce a fondo classe dirigente e istituzioni, l’annessione al Piemonte non ha solo aspetti negativi: comporta anzi parecchi vantaggi che modificano l’antica e fatiscente struttura oligarchica. Dal punto di vista dell’organizzazione statale, secondo lo storico, la modernità sta dalla parte del regno di Sardegna, che ha strumenti legislativi e amministrativi ben più efficienti. Il governo subalpino pone Genova, seconda città del regno, a capitale di un vasto ducato; crea una marina militare e a partire dal 1818 abolisce i dazi interni; avvia nel tempo una lenta ricostruzione della flotta commerciale; si rende conto che occorrono cautela e rispetto per un graduale e non facile avvicinamento. C’è tuttavia un chiuso assolutismo politico che pesa, con vincoli strettissimi nel campo dell’istruzione e della stampa. L’errore del governo è però quello di puntare a un dialogo privilegiato col patriziato genovese, che spesso rifiuta visceralmente il colloquio, fermo in sterili rimpianti per il passato e animato da un forte orgoglio municipale. Con un’ostilità lamentosa e comunque preconcetta, si addebitano a Torino crisi e ritar...