Contro l'etica della verità
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Contro l'etica della verità

  1. 182 pagine
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Contro l'etica della verità

Informazioni su questo libro

« Contro l'etica della verità significa a favore di un'etica del dubbio. Al di là delle apparenze, il dubbio non è affatto il contrario della verità. Ne è la riaffermazione, è un omaggio alla verità, ma una verità che ha sempre e di nuovo da essere esaminata e ri-scoperta.» Quando i detentori di una presunta verità assoluta riusciranno a convincersi che la politica e l'etica civile non sono la semplice applicazione delle proprie radicate fedi o convinzioni, ma mediazione tra fedi, convinzioni, opinioni, norme e concrete situazioni? Per accedere a questa, che è poi la condizione della vita democratica, non c'è altra via se non quella che Zagrebelsky chiama 'etica del dubbio', l'unica che fa onore alla verità che nessuno possiede, perché, di epoca in epoca, la verità si trova sempre per via. Umberto Galimberti

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Informazioni

1. I paladini dell’identità e la tolleranza dell’Occidente

Il lamento sull’identità che manca è diventato un luogo comune del dibattito politico. Si può fare bella figura a poco prezzo con qualche perorazione sulla carenza dei «valori identitari» e così c’è modo di attirare l’attenzione, magari perfino per farsi largo in una campagna elettorale. Naturalmente, però, non tutto è petulanza e vanità. I grandi problemi nazionali, europei e mondiali aperti davanti a noi oggi e sempre ci interrogano inesorabilmente su noi stessi, su chi o che cosa siamo e vogliamo essere, in altre parole sulla nostra identità. Ma i termini della discussione attuale sembrano contraffatti. In breve: si ragiona come se le nostre società fossero prive d’identità, avendola perduta o distrutta, e si discute perciò di come darne loro una nuova o di come ripristinare l’antica. La riscoperta delle «radici cristiane» è il punto d’arrivo di questi ragionamenti. Poiché in apparenza si tratta di colmare un’assenza, i promotori d’identità si presentano come disinteressati portatori di doni a un tipo di società che ha bisogno di loro, per sopravvivere. Ma non è così. Essi agiscono non per riempire vuoti ma per avviare sostituzioni. Onde, fuor di contraffazione, deve dirsi che essi combattono una battaglia di egemonia culturale che non è solo per, ma innanzitutto contro. Non sono benefattori ma conquistatori. Precisamente, sono cavalli di Troia.
La contraffazione si avvale di facili rappresentazioni a tinte fosche delle malattie morali delle società europee odierne. Sociologi e psicologi, politici, politicanti, uomini di Chiesa e uomini di mondo sono al lavoro ed è un lavoro facile, che sfrutta luoghi comuni e radicate tendenze all’autocommiserazione. Tanto più le cose sono volte al peggio, tanto più sembrano attendibili. Le società che essi descrivono sarebbero luoghi di disgregazione e disperazione, relativismo etico, egoismo e mancanza di nerbo morale, tutti prodotti del famigerato «pensiero debole». Addirittura è stato detto, da pulpiti tanto elevati quanto irresponsabili, che le nostre società sarebbero giunte al punto di «odiare se stesse»: esse sarebbero preda di una pulsione all’autodistruzione o alla capitolazione. La diminuzione del tasso di natalità e l’invecchiamento delle generazioni sono considerati la prova provata del declino. Tutto ciò, in generale, sarebbe il frutto avvelenato della secolarizzazione e di una cultura degenerata senza valori, che ha prodotto scienze e tecniche frammentate, prive di anima ma dotate di ambizioni smisurate, per le quali lo stesso essere umano è una cosa tra le altre. Priva di orientamento, la ragione umana non si occupa più di fini ma solo di mezzi (la «ragione strumentale») ed è quindi pronta a servire qualunque padrone. Questi, più o meno, i tratti delle società laiche, «postmoderne» o «avanzate», secondo i nostri postulatori di identità. Se siamo vicini alla perdizione e alla capitolazione, cerchiamo chi ci salvi e mettiamoci nelle sue mani.
In queste diagnosi e perorazioni si ritrovano argomenti e si respira l’atmosfera malata del «tramonto dell’Occidente», la triste parola d’ordine che dà il titolo al volumone di Oswald Spengler (1923): argomenti e atmosfere che dovremmo ben conoscere e che tanto efficacemente hanno contribuito a creare il terreno psicologico della crisi, della decadenza e del suicidio dell’Europa, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Anche allora c’era un nemico esterno, il «bolscevismo» internazionale, così come oggi c’è l’Islam. Anche allora si polemizzava contro la corruzione, la debilitazione morale e la diminuzione del tasso di natalità, si invocava il ritorno alle «radici» autoctone, ai valori profondi, all’identità forte e si iniziava così la tragica caccia ai diversi, ai «non integrabili», ai nemici interni. La storia si ripete. In forme nuove forse, ma si ripete. Bisogna prestare attenzione ai segni, ai germi iniziali.
A dire il vero, simili apocalittiche descrizioni e generalizzazioni paiono degne più di sfoghi tra gente frustrata e delusa per come va il mondo che non di un obbiettivo e responsabile atteggiamento di valutazione e comprensione della realtà. Davvero le nostre società sono prive di valori? Forse si dimenticano troppo facilmente gli apporti ideali che, in una storia plurisecolare, sono venuti plasmando la nostra vita collettiva, apporti che hanno tanti nomi in corrispondenza di altrettante conquiste politiche, sociali e culturali: tolleranza nei confronti delle fedi di tutti, laicità, libertà e socialità, razionalismo, pluralismo, uguaglianza, diritti umani, costituzionalismo, democrazia. Alla base, c’è la persona come tale e la sua dignità, in quanto appartenente al genere umano e indipendentemente dall’adesione a questa o quella fede, religione, stirpe, comunità politica. Tutto questo, indubitabilmente, è identità. Essa, a differenza di quella dei procacciatori di identità perdute, non poggia su elementi concreti del tipo: una fede, una religione, una tradizione, un’ideologia o una mitologia, una storia, una terra, una stirpe ecc. Non poggia su unità pre-date perché la democrazia pluralista, per condurre a una vita comune le sue tante componenti, senza far uso di violenza, deve far leva soprattutto su valori astratti, non concreti; formali o procedurali, non materiali. La tolleranza, per esempio, dice che dobbiamo riconoscerci e rispettarci nelle nostre diversità; non dice nulla, invece, sul contenuto di queste diversità e sul modo concreto di farle convivere. La democrazia promette procedure amichevoli per dare soluzione ai conflitti politici, ma è un metodo, non il contenuto di una decisione.
Per quanto astratti e formali, tuttavia, questi non sono «meno valori» di quelli materiali e concreti. Anzi, dal punto di vista del loro significato politico, sono più alti, sono meta-valori, in quanto consentono rispetto e convivenza pure tra quanti aderiscono a visioni della vita diverse, tra quanti aderiscono a differenti valori materiali e concreti, tra quanti, in breve, si riconoscono in distinte identità. Questi caratteri astratti e formali della democrazia, pur così preziosi per chi crede, appunto, nella democrazia, sono fragili e, per questo, c’è da temere dall’attacco dei paladini delle forti identità materiali. Si consideri infatti la natura di tali caratteri, una natura relazionale: tolleranza, uguaglianza, diritti, democrazia ecc. non possono vivere se non sono accettati in una rete di rapporti in cui ciascuno è disposto a dare agli altri quel che pretende per se stesso. Sotto questo aspetto, il loro presupposto psicologico è la benevolenza degli uni verso gli altri, un atteggiamento spirituale di reciprocità agli antipodi rispetto a quello intriso di diffidenza, risentimento, se non qualche volta addirittura di disprezzo o odio, che muove i nostri baldanzosi postulatori di identità.
L’identità della democrazia richiede un’elevata misura di responsabilità nei confronti della dimensione collettiva dell’esistenza. Non così le identità materiali, che vivono per se stesse, ciascuna per proprio conto, e possono contare sulla forza e sulla violenza per imporsi sulle altre. Ecco in che cosa consiste la fragilità delle nostre società, in quanto non rinuncino a essere se stesse: vivono solo a condizione che le parti costitutive siano disposte e riescano a comporsi, senza fare affidamento sull’ordine imposto dalla forza che divide. In effetti, noi vediamo dappertutto e in ogni momento le debolezze, i limiti e le contraddizioni delle nostre società democratiche. Per difenderne l’identità, non possiamo farne un’acritica apologia. Le forze cooperative sono in difetto nella politica; spadroneggiano i più forti; il denaro, da misura di valori materiali, è diventato valore per se stesso e oscura ogni altro; la prevaricazione prevale spesso sul rispetto; la legalità è insidiata non solo dall’illegalità, ma addirittura dalla legalizzazione dell’arbitrio; il potere legale è intrecciato a quello illegale e criminale; gli egoismi prevalgono spesso sulla solidarietà; dilagano la solitudine, il senso di vuoto, di inadeguatezza e di colpa rispetto a una società ultracompetitiva. Chiunque di noi avrebbe sue ragioni d’insoddisfazione da aggiungere a questa lista. Ma non tutto è disgregazione, anche se molto lo è e, per lo più, questo molto proviene proprio da coloro, ipocriti!, che oggi si impalcano a custodi di forti identità morali.
Chi si riconosce nella democrazia dovrebbe dire: per difenderla, operiamo in spirito di concordia, combattiamo le prepotenze e la plutocrazia, rispettiamoci vicendevolmente, coltiviamo la legalità, promuoviamo la solidarietà, diamo sicurezza ai più deboli e rallentiamo la competizione sociale. Cioè: non rinunciamo a noi stessi, a quello che siamo e a ciò in cui crediamo, cerchiamo di correggerne i difetti e combattiamo ciò che la sfigura. In una parola: prendiamoci cura della democrazia.
Invece no. Si dice: basta con questa identità; diamocene un’altra, un’identità militante che ci renda riconoscibili non gli uni verso gli altri, ma gli uni contro gli altri. Le istituzioni non siano neutrali, ma servano a questa battaglia e chi non ci si riconosce, peggio per lui. L’identità ben giustifica il sacrificio degli altri. Darsi questo genere di identità significa precisamente promuovere uno scontro di civiltà. La Chiesa cattolica è direttamente coinvolta. Le si offre l’occasione di una rivincita su un aspetto costitutivo del «mondo moderno», la democrazia: una rivincita che una parte di essa forse ha sempre desiderato e aspettato. I nostri procacciatori d’identità sono i nuovi teologi politici. Essi, in mancanza di chiese d’altro genere – ideologie forti e globali, filosofie della storia, promesse messianiche –, si rivolgono a quella che pare loro l’odierna depositaria di valori identitari utili alla loro battaglia, la Chiesa cattolica, e le offrono un’alleanza. È la grande tentazione del nostro tempo, una delle tre tentazioni sataniche di Gesù di Nazareth nel deserto, la tentazione del potere. Questo discorso sull’identità non potrà non proseguire, con riguardo, precisamente, al rapporto tra la Chiesa cattolica e la democrazia.

2. Stato e Chiesa. Cittadini e cattolici

1. L’epoca della secolarizzazione, si dice, è giunta al termine. Saremmo ormai nel «post-secolarismo». Che cosa ciò positivamente significhi, non è chiaro. Ma, per chi adotta questa espressione e aderisce a ciò cui, con essa, si vuol alludere è chiaro che, nell’epoca post-secolare, prestare ancora fede alla profezia di un Émile Durkheim (la vittoria una «morale sociale», integralmente funzionale alle esigenze della società industriale) o di un Max Weber (il «disincanto» come carattere della «modernità») sulla sconfitta della religione a opera della ragione dell’Occidente, razionalista, economicista, materialista, edonista ecc., significa passare per retrogrado. L’agire sociale, nelle sue tante manifestazioni economiche, tecniche, politiche, culturali, affettive e sessuali, si è bensì reso progressivamente autonomo dalle premesse metafisiche di un tempo, ma questo processo, durato secoli, lungi dall’aver definitivamente sconfitto le concezioni oggettive della realtà umana teologicamente orientate, e lungi dall’averle relegate – allorquando residuino pur tuttavia atteggiamenti religiosi nei confronti del mondo – nel campo del privato irrilevante per la sfera pubblica, ha suscitato un contro-movimento: il post-secolarismo sarebbe questo movimento contrario, determinato dalla crisi della soggettività raziocinante che segna il tempo in cui i soggetti della vita secolari si rivolgono di nuovo costitutivamente, e non per semplice nostalgia o conforto interiore, alla religione e alle prestazioni sociali di cui essa è capace.
Le profezie di Durkheim e Weber avevano molto di sinistro e ributtante. Ma su molti di noi ha esercitato grande fascino il testamento di Dietrich Bonhöffer, indirizzato al mondo nella sua «maggior età», il mondo che può e deve fare a meno del deus ex machina cui per millenni l’essere umano ha fatto ricorso per trovare in lui la potenza che supplisce alla propria pochezza. Anche questo fascino – dice il post-secolarismo – è un abbaglio, è stato solo l’illusoria fascinazione d’un momento. Dio e le religioni sono di nuovo invocati e, parallelamente, le loro chiese-ministre avanzano la loro pretesa di valere come forza sociale unificante di senso, contro la disgregazione relativista o, più precisamente, nichilista in cui la ragione soggettiva avrebbe precipitato il mondo contemporaneo. Non nella maggior età il nostro mondo si troverebbe a vivere, ma in un’età senile in cui le forze si decompongono. Così oggi, come tante altre volte nella storia dell’Occidente, la religione e le sue istituzioni sarebbero ancora una volta chiamate dalle circostanze a distogliersi dal culto della parola di Dio, per offrirsi come puntelli etici per reggere le sorti di società disorientate e incapaci di uscire dalle loro stesse contraddizioni.
2. In questo contesto spirituale è stato pronunciato ed è stato accolto come il «verbo» la «formula pregnante» (Habermas) enunciata a metà degli anni Sessanta dall’eminente costituzionalista cattolico Ernst-Wolfgang Böckenförde, una piccola frase, scritta con rilievo in un saggio del 1964 su La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione1: «lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà». La contraddizione principale, con la conseguente candidatura religiosa e chiesastica a risolverla, concerne la vita politica delle nostre società, in quanto esse aspirano a governarsi in libertà e democrazia, cioè attraverso il sistema politico costituzionale che assume come proprio elemento fondante la capacità ordinante della ragione individuale, cioè un presupposto immanente alle società stesse. Queste società credono di poter vivere senza ricorrere a fondamenti, a premesse che precedono la loro stessa libertà. Il focus della formula di Böckenförde sta dunque negli aggettivi «liberale» e «secolarizzato». Lì si troverebbe condensata la ragione di quel deficit di «forze che tengono unito il mondo», che «creano vincolo» (Bindungskräfte) sociale, senza le quali lo Stato si troverebbe come appoggiato sul niente.
In quella proposizione c’è la risposta disperante a una serie di domande retoriche:
Di che cosa vive lo Stato e dove trova la forza che lo regge e gli garantisce omogeneità, dopo che la forza vincolante proveniente dalla religione non è e non può più essere essenziale per lui? Fino al XIX secolo, in un mondo interpretato dapprima in modo sacrale, poi in modo religioso, la religione era sempre stata la forza vincolante più profonda per l’ordinamento politico e per la vita dello Stato. Ma è possibile fondare e conservare l’eticità in maniera tutta terrena, secolare? Fondare lo Stato su una «morale naturale»? E se ciò non fosse possibile, lo Stato potrebbe vivere sulla sola base della soddisfazione delle aspettative eudemonistiche dei suoi cittadini? Tutte queste domande ci riportano a una domanda più profonda, di principio: fino a che punto i popoli uniti in Stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere cioè un legame unificante che preceda [corsivo mio] tale libertà?
Certo, non si può pensare di imporre autoritariamente i legami sociali, sotto forma di ideologie o sistemi di valore stabiliti dall’alto, perché così lo Stato liberale distruggerebbe se stesso e la libertà dei suoi cittadini. Ma lo Stato basato sulla libertà, che non possa confidare in forze vincolanti interiori dei suoi membri, sarà indotto, per garantire la propria base di legittimità, ad accrescere utopisticamente e illusoriamente le promesse di benessere, con ciò avvolgendosi con le sue stesse mani in una spirale di aspettative d’ogni genere che, oltre un certo limite, non potrà più mantenere e che lo strangolerà.
La diagnosi non è originalissima e appartiene alla polemica ottocentesca anti-liberale, anti-individualista e anti-ugualitaria. Sul terreno letterario, per esempio, la troviamo anticipata in un passo dei Fratelli Karamazov2, dove Fëdor Dostoevskij mette in bocca allo starec Zosima queste parole testamentarie, che hanno solo bisogno d’essere un poco adattate ai tempi nostri:
Dice il mondo: «Tu hai dei bisogni, e dunque soddisfali pure, giacché hai gli stessi diritti che hanno gli uomini più potenti e più ricchi. Non temere di soddisfarli, anzi moltiplicali». Ecco qual è l’insegnamento attuale del mondo; e in questo appunto si ravvisa la libertà. Ora, che cosa viene fuori da questo diritto a moltiplicare i bisogni? Presso i ricchi l’isolamento e il suicidio spirituale, e presso i poveri, l’invidia e l’omicidio: giacché i diritti sì, sono stati concessi, ma i mezzi di soddisfare i bisogni non sono ancora stati indicati. Ci si assicura che più innanzi si va, più il mondo si unifica, si organizza in una società fraterna, per il fatto che raccorcia le distanze, trasmette attraverso l’aria i pensieri, ecc. Ahimè, non credete a una simile unificazione degli uomini. Concependo la libertà come una moltiplicazione e una rapida soddisfazione dei bisogni, stravolgono la propria natura, giacché ingenerano in loro stessi una moltitudine d’insensati e stupidi desideri, insulsissime abitudini e fantasie. Non vivono se non per l’invidia che si portano l’un l’altro, per la sensualità e la millanteria: pranzi, viaggi, carrozze, alti gradi e servitori ai propri ordini, si considerano una necessità tale, da sacrificare per essi anche la vita, l’onore e l’umanità, purché sia soddisfatta; e se non può venir soddisfatta, giungono a uccidersi. Presso quelli che ricchi non sono, vediamo la medesima cosa: sennonché, qui tra i poveri, l’impossibilità di soddisfare ai bisogni, e l’invidia, vengono per ora soffocate nell’ubriachezza. Ma ben presto, invece che di vino, s’ubriacheranno di sangue: a questo li vanno conducendo. Io vi domando: «è libero, forse, un uomo così?».
In termini più attuali, questa diagnosi costituisce una generalizzazione a tutti gli aspetti della vita sociale, fino a coinvolgere quelli etici, della critica già contenuta nella teoria della «crisi fiscale dello Stato», venuta alla luce negli anni Sessanta. Essa si basa, in primo luogo, su una connessione sottintesa, data per inevitabile, tra la libertà, da un lato, e le pretese di benessere individuale, dall’altro; in secondo luogo, su una sorta di reciproco effetto moltiplicatore: la libertà moltiplica le pretese e le pretese soddisfatte moltiplicano la libertà.
Dati questa connessione e questo effetto moltiplicatore, la prognosi appare senz’altro senza speranza, quasi una condanna a morte a effetto ritardato. Più che della «formazione» (Entstehung) dello Stato moderno secolarizzato, sarebbe giustificato parlare della sua «dissoluzione» (Auflösung). Un sistema di convivenza basato esclusivamente sui diritti immanenti dei suoi membri, rivolti come pretese individualistiche ed egoistiche nei confronti dello Stato e come armi offensive nei confronti dei con-cittadini, infatti, non solo non garantisce le sue basi di legittimità, ma le distrugge, consumando progressivamente le proprie risorse etiche. Questa erosione corrisponde al venir meno della forza dell’obbligazione politica, verticalmente, e all’affievolirsi del vincolo di solidarietà sociale, orizzontalmente, senza di che lo Stato stesso, nella sua versione democratica, non avrebbe su che cosa poggiare la propria funzione di garanzia della vita sociale.
Portando avanti questa proposizione, facilmente si arriva a concludere che lo Stato democratico basato esclusivamente su diritti e libertà, privo della capacità d’appellarsi a principi etici comuni trascendenti e, in loro nome, di pretendere dai suoi cittadini limiti, moderazione e rinunce, è destinato alla catastrofe o a trasformarsi in qualcosa di diverso, magari dietro la nuda facciata di istituzioni democratiche in apparenza, ma non (più) nella sostanza.
Noi, qui, non abbiamo da prendere posizione, in linea di principio, sul contenuto di verità della proposizione, enunciata come «legge», di Böckenförde. Non abbiamo cioè da pronunciarci sull’incapacità strutturale dello Stato basato sulla libertà di autoalimentare le proprie basi di legittimità. Possiamo limitarci a sfiorare l’argomento, osservando ch...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. I paladini dell’identità e la tolleranza dell’Occidente
  3. 2. Stato e Chiesa. Cittadini e cattolici
  4. 3. Tre formule dell’ambiguità
  5. 4. Gli atei clericali e la fonte del potere
  6. 5. Stato, Chiesa e lo spirito perduto del Concordato
  7. 6. Il «non possumus» dei laici
  8. 7. Referendum: Chiesa machiavellica ed etica politica dubbia
  9. 8. L’identità cristiana e il fantasma dell’assedio
  10. 9. Cosa pensa la Chiesa quando parla di dialogo?
  11. 10. Cattolicesimo e democrazia
  12. 11. Disagio democratico
  13. 12. La Chiesa, la carità e la verità
  14. 13. Ritorno al diritto naturale?
  15. 14. Né da Dio né dal popolo: dove nasce la giustizia
  16. 15. Decalogo contro l’apatia politica
  17. 16. Democrazia. Non promette nulla a nessuno, ma richiede molto da tutti
  18. 17. Le correzioni di Tocqueville ai difetti della democrazia
  19. 18. Uomini, anche se Dio non esiste
  20. 19. Norberto Bobbio e l’etica del labirinto
  21. Epilogo. Democrazia, opinioni e verità
  22. Fonti