III.
La divulgazione scritta
Il morto era sdraiato sul fianco sinistro, ed era completamente vestito, senza disordine nell’abbigliamento, salvo i punti ove apparivano le ferite: al collo e all’addome. Il colletto e l’apertura superiore della camicia erano lacerati, il gilet, completamente sbottonato, lasciava vedere il ventre, dal quale uscivano gli intestini. Il cappello, il bastone e la cravatta si trovavano al suolo, sur un ciuffo d’erba, pochi passi discosto.
Nella mano destra il morto stringeva un rasoio affilatissimo, ancora macchiato di sangue.
Nelle tasche dello scrittore erano cinquantasei lire d’argento e null’altro, nessuna lettera, nessun documento, che potesse gettare il minimo sprazzo di luce sulla tragica avventura.
Quando giunse sul posto dall’Ufficio civile d’igiene il dottor Borione, si poterono stabilire con esattezza le cause della morte. L’infelice, dieci ore innanzi, e precisamente nella mattinata, era salito lassù, in quell’angolo di bosco remoto e tranquillo, che era un luogo a lui particolarmente caro, ove soleva sovente appartarsi per meditare indisturbato i suoi racconti fantastici; si era sdraiato sul suolo e aveva compiuto subito, con furia pazzesca, l’orribile delitto contro se stesso... Adoperando il rasoio con estrema violenza, – accresciute le forze dal terribile stato d’esaltazione in cui doveva trovarsi, – Salgari si colpì ripetutamente prima al ventre, poi al collo, segandosi le vene. La morte dovette correre quasi istantanea, per emorragia. Malgrado le raccapriccianti ferite, i lineamenti del morto, nella luce azzurrognola del crepuscolo, si distinguevano ancora. Salgari era un uomo piuttosto piccolo di statura, tozzo nella persona, dai folti baffi brizzolati, e dalla capellatura grigia, completa. Sul volto rotondo, pallido, già segnato di rughe, si leggevano i segni di sofferenze e di stenti passati. Negli occhi piccoli, che usava tenere semi-chiusi, dopo una grave malattia che lo aveva minacciato della cecità, brillava sovente un lampo d’arguzia.
1. Di professione, scrittore
In Italia il processo di trasformazione dell’attività del letterato in lavoro di scrittore economicamente remunerato e legalmente riconosciuto prende avvio nella riflessione di alcuni illuministi – Gianmaria Ortes, Melchiorre Gioia – e si sviluppa nella prima metà dell’Ottocento. Per Cesare Cantù
quella dell’ingegno è opera che, come tutte le altre, richiede una giusta retribuzione. Un pregiudizio «umanistico» impedisce di vedere con chiarezza la natura economica del lavoro intellettuale: «da noi – scrive infatti Cantù – il mestiere del letterato suona parola di profondissimo spregio» e il retribuire le fatiche dello scrittore è ritenuto quasi un gesto di «generosa filantropia».
Cantù non è il solo che solleva il problema:
a cercare di porre chiarezza in tale situazione, che minacciava l’essenza stessa del lavoro intellettuale, furono alcuni uomini che, nel pensiero e nell’azione, s’industriarono per trovare una via per l’esercizio libero delle lettere. Uomini come Carlo Tenca, Niccolò Tommaseo, Carlo Mele, Carlo Cattaneo – ma anche Gian Pietro Vieusseux, Giuseppe Pomba – i quali, in forme diverse, e con diversi gradi di consapevolezza, si fecero interpreti di un’esigenza ormai irrinunciabile: la trasformazione del ruolo e del senso del letterato e dell’editore. A ognuno di loro la proprietà letteraria apparve come la chiave di volta destinata a recidere i legami con il vecchio ordine e a sancire l’indipendenza della manifattura del pensiero. L’opera dell’ingegno poteva avere di per sé un valore economico e, in tal modo, affrancare l’autore da ogni forma di mecenatismo.
Affinché in Italia le condizioni materiali dello scrittore professionista possano iniziare a cambiare davvero occorre però attendere l’Unità, premessa indispensabile all’avvio di ogni processo di modernizzazione culturale, e non a caso la dichiarazione più sinteticamente lucida sulla materia si legge alla voce Proprietà artistica, industriale e letteraria del quarto volume del Dizionario della economia sociale e del commercio di Girolamo Boccardo, opera per anni punto di riferimento per gli studi di economia politica in Italia, che esce proprio nel 1861: «l’autore è un operaio di scienza, di civiltà, di progresso, cui la società paga un salario, come il capo-fabbrica paga un salario ai suoi braccianti».
Ma fra consapevolezza teorica della questione ed effettive dinamiche socio-economiche che definiscono il rapporto professionale fra scrittore e pubblico la distanza è notevolissima: benché si consideri spesso che con il Settecento
si sia definitivamente conclusa la stagione del mecenatismo – che a poco a poco avrebbe ceduto il passo al mercato – non v’è dubbio che tale pratica abbia continuato a sussistere anche nel secolo successivo. Anzi, a fronte di un più che plausibile arretramento rispetto ai secoli precedenti, è legittimo sostenere che essa fu mantenuta in vita proprio in ragione delle carenze del mercato stesso, incapace di garantire ai letterati risorse sufficienti per guadagnarsi da vivere, ove non disponessero di beni in grado di fornire loro una rendita oppure, assai più frequentemente, ove non beneficiassero di un impiego stabile come funzionari.
Se in Italia la situazione è questa, naturalmente a Parigi le cose vanno in modo ben diverso.
Innanzitutto si diffonde l’istruzione, si creano migliaia di lettori. Il giornale penetra dovunque, anche nelle campagne si comperano libri. In mezzo secolo il libro, che era un oggetto di lusso, diventa un oggetto di consumo corrente. Un tempo costava carissimo; oggi le borse più modeste possono farsi una piccola biblioteca. Sono fatti di importanza decisiva: non appena il popolo sa leggere e può leggere a buon mercato, il commercio librario decuplica i suoi affari e lo scrittore trova ampiamente il modo di vivere della sua penna. Dunque, la protezione dei grandi non è più necessaria, il parassitismo scompare dal costume, un autore è un operaio come un altro, che si guadagna la vita con il suo lavoro.
Con un piglio constatativo affidato a una sintassi semplicissima perché riflesso di una straordinaria lucidità, Émile Zola fotografa così il passaggio ormai avvenuto in Francia fra la condizione tradizionale del letterato cortigiano e il suo nuovo status professionale, mettendo a fuoco le trasformazioni che hanno modificato il ruolo dello scrittore nella modernità urbana. Letto in Italia, La letteratura e il denaro – titolo di un saggio del Romanzo sperimentale che all’epoca suonava a dir poco provocatorio – mette immediatamente in luce una situazione ben altrimenti arretrata. «Tu a Mineo ed io a Catania siamo in famiglia; ed in famiglia chi ci prende sul serio, noi e la nostra professione se non pei denari che ci costa? A Mineo chi ti conosce altrimenti che come Don Lisi Capuana, sindaco ex, e sindaco possibile, possidente agiato tanto da darsi il lusso di far niente, o far dell’arte, che è lo stesso?», chiede sarcastico Verga all’amico. Che in un passo di una lettera inviata proprio a Zola chiarisce bene in cosa consista quel «far niente»: «scrivo tutto il santissimo giorno. Ogni mattina ho l’obbligo di mettere giù o una novella per grandi o una fiaba per bambini o un articolo di giornale o una lezione per le mie ottime allieve della scuola di Magistero. E sovente son due o tre cose nella medesima giornata; vivere è difficile...».
Certo, quando scrivono queste lettere i veristi fanno i conti con l’arretrato ambiente siciliano, ma anche al Nord la situazione è difficile, come dimostra Felice Cameroni nella recensione del saggio di Zola che prontamente pubblica sulla rivista milanese «Farfalla» il 24 ottobre 1882. Firmata «Pessimista», inizia così: «avete letto l’Argent dans la littérature? Me ne duole, pel confronto colle nostre condizioni letterarie». A colpire però non è tanto l’esito sconfortante del paragone con il mercato editoriale d’oltralpe – da noi «si legge poco, molto meno di quanto non si produca, ...