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Il leopardo delle nevi:
tra mito e realtà
Un elusivo spirito aleggia sulle aspre montagne dell’Asia e gli sconfinati pianori del Tibet, ad altitudini che sfiorano i cinquemila metri: si sa che c’è, ma non si vede. Le orme, i tipici scrapes (raspature cuoriformi prodotte sul terreno grattando con le zampe posteriori, un po’ come fanno i cani dopo avere defecato) e – molto più raramente – il suo malinconico richiamo miagolante sono gli unici segni di presenza, percettibili soltanto a chi sa osservare e ascoltare la montagna. È il leopardo delle nevi, che gli zoologi chiamano Panthera uncia: un’icona che evoca la vastità e i silenzi dei più alti complessi montuosi dell’Asia.
Un proverbio nepalese recita che è più facile incontrare dio che un leopardo delle nevi. Però, in fondo, cos’è il leopardo delle nevi se non una sorta di affascinante divinità delle montagne asiatiche?
È davvero molto bello con la sua pallida pelliccia morbida, a grandi e piccole rosette grigie, la coda lunghissima – un metro e più, come il corpo – coperta d’un pelo fioccoso che ricorda i boa di struzzo con i quali le femmes fatales degli anni ’30 amavano cingersi collo e spalle. E poi gli occhi, soprattutto gli occhi: magnetici, freddazzurri con sfumature ambrate, d’una bellezza inquietante e sovrannaturale.
Luglio 2018, Qinghai (Tibet nordorientale) – tempo sereno
Avevamo lasciato qualche ora prima il campo-laboratorio di Angsai, una strana capanna in metallo anti-orso, a pochi metri dalle acque turbinose e rossastre di ossidi del Mekong. Ci eravamo avviati con il fuoristrada fino a raggiungere una ripida gola laterale, stretta e boscosa, percorsa da un rivolo d’acqua. Parcheggiato il fuoristrada all’imboccatura, avevamo cominciato a salire a piedi in silenzio. Io e due studentesse cinesi eravamo avanti, mentre Nima – il nostro autista tibetano – e Lingyun Xiao (per brevità detta “Lynn”, una borsista dell’Università di Pechino) ci seguivano a dieci-quindici metri di distanza. Eccettuata qualche latrina e pista di mosco, un primitivo cervide asiatico grande come un giovane capriolo, privo di palchi ma dotato di zanne mascellari lunghe fino a 14 centimetri nei maschi adulti, non avevamo incontrato altro segno di vita animale. Il rivolo d’acqua canterellava rimbalzando tra le rocce, mentre ne risalivamo lentamente il corso in mezzo a una folta vegetazione ripariale di piante a me sconosciute, ben attenti alle asperità del terreno scosceso.
A un tratto la voce eccitata di Lynn alle mie spalle:
«Sandro, il leopardo delle nevi!».
La guardai, pensando che mi stesse prendendo in giro. Gesticolava indicando le rupi affioranti dalla fitta vegetazione boschiva, in particolare la sommità di una parete rocciosa che torreggiava su di noi a circa duecento metri di distanza, scura contro il cielo. Subito afferrai il binocolo che mi pendeva dal collo e lo portai agli occhi.
Un gipeto, con il piumaggio marrone-nerastro da immaturo, stava pigramente svolazzando proprio sopra la rupe prima d’infilarsi tra un “tetto” roccioso e un grande ammasso sottostante di sterpi e rami: il nido. Ma il leopardo era stato messo in fuga dalla voce di Lynn, che – invece di chiamarmi – avrebbe dovuto attirare la mia attenzione lanciandomi un sasso o un pezzetto di ramo.
Lo avevo mancato ancora una volta, maledizione!
Sulla via del ritorno, ingrugnito per l’ennesimo fallito avvistamento, abbandonai il gruppetto e mi avviai da solo scendendo fuori sentiero lungo il fianco orografico sinistro della vallecola, forse inconsciamente desideroso di incontrarmi con un mosco o magari con un leopardo delle nevi. Rumore di vegetazione smossa, tuffo al cuore e... un tasso mi passa correndo davanti ai piedi. Be’, tassi ne ho visti tanti in vita mia: per un paio di anni ho anche avuto un dottorando che lavorava sulla loro ecologia nel Parco Regionale della Maremma. Insieme ne catturammo alcuni, mettendo loro radiocollari VHF al collo e poi seguendone gli spostamenti. Bestiole molto simpatiche con la loro curiosa “mascherina” bianca e nera, e un morso in grado di staccare di netto il tacco da una scarpa (come successe a un mio amico, che ne teneva uno come pet). Certamente un gradito incontro e anche imprevisto nel Tibet nordorientale, ma niente di più.
Arrivai per primo al fuoristrada e lì aspettai gli altri, godendomi il silenzio vespertino, il ronzio delle fastidiose zanzare e osservando con il binocolo i fianchi della montagna: un mosco pascolava tranquillo a circa 4600 metri d’altitudine, un po’ sopra alla mia posizione, e qualche maschio di cervo a labbra bianche stava uscendo dalla foresta ancora più in alto, mentre le incipienti brume del tramonto sbiadivano il fianco della montagna.
All’arrivo degli altri – che in precedenti occasioni avevano ripetutamente visto leopardi delle nevi (li avevano anche catturati per metter loro radiocollari satellitari) –, cercando di nascondere la mia frustrazione per l’ennesimo fallimento, indicai il mosco e i cervi a labbra bianche. Ne commentammo le abitudini e poi, risaliti nel fuoristrada, ci avviammo alla volta del campo-laboratorio.
«A proposito, prima un tasso mi ha attraversato il sentiero...»
«Un TASSO?!? Hai davvero visto un tasso?? Il primo avvistamento in quest’area... è raro in tutto il Tibet: non posso credere che tu ne abbia incontrato uno proprio la prima volta che sei qui! Sono più di cinque anni che vengo in Angsai e che tendiamo decine di fototrappole, non l’ho mai visto né fotografato. Che fortunato!»
Lynn e gli altri erano palesemente invidiosi del mio colpo di fortuna.
Che dire? A ciascuno il suo – ma avrei scambiato volentieri l’avvistamento del mio tasso con quello di un leopardo delle nevi!
Il leopardo che venne dal freddo
Le più recenti stime numeriche suggeriscono l’esistenza di 2700-3400 individui adulti di leopardo delle nevi; se aggiungiamo una stima degli individui ancora immaturi, potremmo ipotizzare un totale di 7000-8000 individui, distribuiti però sopra una superficie enorme, di 2,8 milioni di chilometri quadrati, dalle catene degli Altai, Pamir, Hindu Kush, Karakoram e Himalaya, verso nord fino alla Mongolia, passando per il Tibet centrorientale, a densità normalmente bassissime di circa 1-1,5 individui adulti – cioè quelli in grado di riprodursi – ogni 100 chilometri quadrati. Questa densità è particolarmente bassa, se confrontata con quelle alle quali vivono altri grandi Felidi come il puma (4-5 individui/100 km2), il giaguaro (4-6 individui/100 km2), il leopardo (3-10 individui/100 km2) e perfino la tigre (0,5-19 individui/100 km2). Il leone africano può vivere localmente a densità bassissime come quelle del leopardo delle nevi, ma – essendo un felide sociale, cioè che abitualmente vive in branco – arriva anche a densità di oltre 50 individui ogni 100 chilometri quadrati. La chiave di lettura di queste stime è soprattutto la locale densità di prede che condiziona il numero di predatori, ma influiscono anche il livello di persecuzione – prevalentemente illegale – alla quale sono sottoposti da parte dell’uomo e la presenza di altri carnivori competitori. Tuttavia, anche dove la densità del leopardo delle nevi è più alta, fino a 4 individui/100 km2, spicca per la sua relativa rarità rispetto agli altri grandi gatti. Come mai?
La risposta può essere meno misteriosa di quanto si potrebbe pensare. Una “specie sorella” di minori dimensioni corporee del leopardo delle nevi, la Panthera blytheae, viveva in Tibet circa 4,4 milioni di anni fa, ma fossili di probabile Panthera uncia compaiono improvvisamente soltanto 3 milioni di anni dopo, negli Upper Siwaliks del Pakistan settentrionale e sugli Altai, in Mongolia occidentale. A differenza del leone, del leopardo e del ghepardo che, a partire da 3,5 milioni di anni fa, erano distribuiti in Africa – forse il loro continente d’origine – ed Eurasia, parrebbe che il leopardo delle nevi non sia mai uscito dall’Asia, insieme al suo parente più stretto: la tigre, dalla quale si sarebbe differenziato 5-4 milioni di anni fa, forse proprio come Panthera blytheae, mentre giaguaro, leone e leopardo si sarebbero originati (basandosi su stime molecolari) dal loro antenato comune 3-2 milioni di anni fa. In altri termini, resti fossili di leopardo delle nevi comparirebbero soltanto al termine del Pleistocene, in tempi più recenti di oltre un milione di anni rispetto a quelli degli altri grandi Felidi oggi viventi in Asia. Il leopardo delle nevi sarebbe dunque una sorta di parvenu!
Gli ambienti aperti e freddi, relativamente omogenei, come la steppa, la tundra e le brughiere alpine, sono molto meno produttivi, per esempio, di quelli temperati a foreste decidue, planiziali e ripariali, e a prati d’erba alta. Come ci si potrebbe attendere, le comunità di Ungulati sono più numerose e ricche di specie in questi habitat che in quelli. Un’alta densità di potenziali prede tenderà ad attirare e sostentare un numero più elevato di carnivori predatori, rispetto ad ambienti poveri, cioè quelli freddi, più omogenei e dunque meno ricchi di prede. Ci si può aspettare che gli ambienti migliori vengano occupati per primi, lasciando quelli marginali a specie ecologicamente meno competitive. Il leopardo delle nevi, il più piccolo tra i grandi Felidi e anche quello comparso più tardi, potrebbe dunque essere stato obbligato a occupare un habitat inospitale, ma meno dotato di specie competitrici, adattandosi a sopravviverci. In effetti il leopardo delle nevi, pur essendo perfettamente in grado di uccidere prede di 150-200 chilogrammi di peso, sembra avere un’indole tranquilla e poco aggressiva e, per esempio, non esiste alcun caso noto di attacchi a esseri umani, a differenza di tutte le altre specie di grandi Felidi, ghepardo escluso.
Numerose sono le caratteristiche anatomiche e morfologiche che consentono al leopardo delle nevi la sopravvivenza negli ambienti inospitali che frequenta.
Vivere a temperature di qualche decina di gradi sotto lo zero impone a un mammifero di conservare il proprio calore corporeo avvolgendosi in uno spesso strato sottocutaneo di grasso oppure coprendosi di una folta e calda pelliccia. Le prede del leopardo delle nevi sono animali agili, veloci, ottimi arrampicatori di dirupi e pareti scoscese: un predatore deve essere scattante, fulmineo come e più di loro per riuscire a catturarle. Questo requisito male si abbina all’ipotesi di un leopardo paffuto e tondeggiante di grasso. Non resta allora che coprirsi di una pelliccia lunga e folta, che possegga ottime qualità termiche e pur consenta quella rapidità d’azione necessaria per predare con successo gli Ungulati di montagna. Infatti, il leopardo delle nevi è coperto da un pelo di giarra, esterno, molto folto (ben 4000 peli/cm2 di pelle) e da un sottopelo lanoso, detto “borra”, otto volte più fitto, lungo quasi come quello esterno. In altri termini, è molto ben coperto pur mantenendosi un predatore efficiente. Coda e orecchie sono organi che disperdono molto calore, sia per la loro scarsa massa che per la ricca vascolarizzazione: questo è il motivo per il quale i mammiferi adattati ai climi freddi hanno spesso orecchie piccole e/o ben coperte di pelo, nonché code mediamente più corte di quelle di specie affini dei climi caldi. Le orecchie del leopardo delle nevi sono un buon compromesso, più piccole e pelose di quelle del leopardo comune e del leone, ma la coda no: la coda sembra in apparenza sbagliata, disfunzionale. È lunga, anzi: particolarmente lunga, tanto quanto la lunghezza del resto del corpo. Come mai? Il motivo è semplice. Una lunga coda è fondamentale per mantenere l’equilibrio quando si caccino prede così veloci e reattive da obbligare il predatore a fulminei scatti e a bruschi cambiamenti di direzione: per questo anche la coda del ghepardo, che caccia inseguendo zigzaganti veloci gazzelle e antilopi di piccola-media taglia, è molto lunga e funge da timone all’animale quando in piena corsa deve cambiare rapidamente direzione. Il leopardo delle nevi ha un problema in più rispetto al ghepardo: le sue prede vivono in un terreno ripido e accidentato, dove una caduta o uno scivolone possono avere esito letale. Dunque la lunga coda del leopardo delle nevi è fondamentale per la sua sopravvivenza, per aiutarlo a cacciare all’agguato con attacchi fulminei in un ambiente pericoloso, ripido, scivoloso, costellato di rocce che obbligano a brusche sterzate. Pertanto, se la coda non può essere accorciata, scartata l’ipotesi di isolarla termicamente con uno spesso strato di grasso che l’appesantirebbe rendendola non funzionale, la selezione naturale l’ha coperta di un leggero pelo lungo e folto, che funge da efficace isolante termico. Infatti l’animale usa la coda anche per riscaldare l’aria gelida che respira, quando si riposa o dorme. Si acciambella e ci si copre letteralmente il naso, proprio come se fosse un passamontagna o una sciarpa.
Fasti e nefasti del leopardo delle nevi
Le prede tipiche del leopardo delle nevi sono gli erbivori de...