La cultura della destra
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La cultura della destra

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La cultura della destra

Informazioni su questo libro

Un tentativo di capire quanto i vincitori delle ultime elezioni, o meglio una parte dei loro intellettuali, abbiano le carte in regola per governare il Paese. Dario Fertilio, "Il Corriere della Sera"Colpo di scena. Qualcuno che osa dichiararsi di destra fino in fondo tra i chierici c'è. È Marcello Veneziani, che da anni fa la fronda alla destra ufficiale. Bruno Gravagnuolo, "l'Unità" Veneziani ha ricostruito i motivi di fondo che sostanziano la cultura di destra e ne fanno un ingrediente vitale nella società di oggi. Un brillante pamphlet. Piero Craveri, "Il Mattino" Una interpretazione della politica e della cultura italiana che distrugge miti consolidati, valori o presunti tali divenuti merce di scambio al supermercato della politica. Michele Cozzi, "La Gazzetta del Mezzogiorno"

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Religione e cittadinanza

Per lunghi decenni la cultura della destra ha vissuto in penombra dentro il marsupio del centrismo cattolico. È accaduto non solo in Italia ma ovunque la destra fosse inibita dalla demonizzazione del passato: in Germania e per certi versi in Austria, in Spagna e in Portogallo. È sopravvissuta una più ristretta cultura di destra politicizzata e militante, ma il largo sentire della destra si rifugiava nel rassicurante e impolitico moderatismo cattolico. Dove era possibile difendere, insieme alla libertà e all’anti-comunismo, anche il senso religioso e familiare, e un flebile senso della patria, depoliticizzato e destatalizzato. Ove esisteva un forte centro cattolico non aveva espressione una forte cultura della destra: la coabitazione al centro era consentita a patto di fuoruscire dalla dimensione politica, storica e culturale di destra; in sostanza deideologizzando la propria scelta e affidandosi a un più blando idem sentire all’ombra materna della tradizione religiosa. Per certi versi il centrismo cattolico era una via d’uscita dal Novecento, o meglio dalla sua prima metà, che aveva radicalizzato la politica e militarizzato le categorie di destra e di sinistra.
Tuttavia sarebbe un errore pensare che l’incontro tra il religioso e il politico sia dovuto solo alla contingenza storica, alla necessità di un riparo dai furori incendiari del primo Novecento. C’è una riflessione ulteriore da svolgere, ed è il nodo irrisolto ma inevitabile tra il religioso e il politico. Se è vero che le categorie del politico sono concetti teologici secolarizzati, come ha insegnato Carl Schmitt, è anche vero che tra legame civile e legame religioso esiste un nesso che non si può eludere o rescindere. Non solo perché tutti gli Stati moderni e le stesse ideologie scaturiscono da una secolarizzazione della fede religiosa. Ma anche perché alle origini della stessa divisione tra destra e sinistra molto ha contato il discrimine religioso. Chiariamo: è impossibile dividere destra e sinistra sulla base della fede religiosa, attribuendo alla prima un’opzione per la fede e alla seconda un’opzione per l’ateismo. Sarebbe una semplificazione contraddetta dalla storia e dall’esperienza quotidiana. Esempi cospicui di movimenti e partiti di sinistra vicini al cristianesimo non mancano; così come all’opposto non sono certo mancati movimenti e partiti di destra con una forte impronta laica e anti-clericale. Anzi, sul piano delle culture politiche è stato frequente il riduzionismo della fede religiosa in entrambi i versanti. A destra, la fede religiosa cedeva il posto alla religione come fattore di coesione sociale, come deposito di valori, riti e gerarchie solidificate, tradizioni e culti, al punto che si poteva parlare in certi casi di un cattolicesimo senza cristianesimo, o di un paganesimo sostanziale dietro la forma cristiana. A sinistra, la fede cedeva il posto alla filantropia, la carità perdeva i tratti evangelici per assumere caratteri sociali e sindacali, la fede in Dio era sostituita dalla fede nell’umanità o nel proletariato, l’universalità si riduceva a internazionalismo; nasceva un cristianesimo senza Cristo, senza immortalità dell’anima, e il paradiso veniva trasferito nel radioso avvenire della storia. Anche in questo caso il cristianesimo era surrogato da un’eresia gnostica rivolta al regno della storia più che al regno dello spirito. Questo duplice riduzionismo indusse molti credenti a respingere il bipolarismo e a rifugiarsi nel centro, rifiutando come opposti radicalismi i neo-pagani di destra e i neo-gnostici di sinistra; ritenendo quasi che i primi tradissero la promessa di eternità in una forma di naturalismo estetico e i secondi in una forma di storicismo escatologico.
Se dunque la storia ha offerto generosi motivi per confutare gli irrigidimenti, resta tuttavia vera una considerazione di fondo: la cultura della sinistra nasce a partire da un atto di ribellione nei confronti del mondo così com’è, della tradizione, della natura, che è insieme un atto di emancipazione da ogni tipo di legame ereditato, a cominciare dal legame religioso; la cultura della destra, invece, sorge a partire da un atto di fedeltà nei confronti del mondo, della tradizione, della natura, che è insieme un atto di radicamento nei legami ereditati, a cominciare dal legame religioso. E a chi osserva che anche Gesù Cristo fu un ribelle rispetto alla religione dei suoi padri e ai suoi tempi, vi è da far notare che la sua promessa di redenzione restava pur sempre rivolta all’anima e alla vita ulteriore, oltre la vita terrena e il riscatto sociale. Se si perde quest’apertura trascendente si perde il cuore del messaggio cristiano. L’atto originario da cui discendono le culture della sinistra è invece il trasferimento delle attese ultraterrene e delle speranze celesti nella dimensione della storia e del mondo; nella convinzione che l’Invisibile, il Cielo, Dio e la religione siano state illusioni e superstizioni che hanno solidificato ignoranza e fatalismo, rassegnata accettazione degli assetti di potere e delle ingiustizie del mondo, succhiando così al mondo energie e intere esistenze. Su quelle basi sorse la sinistra come categoria, intrecciandosi con la rivoluzione francese, l’illuminismo e poi il positivismo e il materialismo, la componente liberal e i movimenti socialisti e comunisti, sindacali e femministi. È quello lo specifico originario della sinistra: il paradiso in terra, l’umanizzazione del soprannaturale, la storicizzazione della redenzione.
Viceversa, è costitutivo della sensibilità culturale della destra il senso religioso, il senso del sacro e dell’invisibile, il senso del limite e il senso della natura, come accettazione della finitudine umana e di un ordine cosmico che precede l’agire umano. È costitutiva della sua mentalità l’apertura verticale nel segno del Padre (che da Padre eterno diventa poi Pater familias, Patria o paternalismo statuale e politico); se valore della sinistra è la fratellanza, nel segno di una solidarietà orizzontale, orfana ed egualitaria, valore della destra è la paternità/maternità, nel segno di una trasmissione verticale. Lo scacco di entrambe le culture è nell’approdo a una società di figli unici che si presumono auto-creati e tendenzialmente egocentrici. Appartiene poi profondamente alla cultura di destra il riconoscimento del mito, del rito e del simbolo non come mezzi convenzionali di espressione, ma come fonti di una conoscenza intuitiva, metaempirica e metarazionale per avvicinarsi al soprannaturale. Che rimandano a un sentire religioso (o magico-religioso), e all’idea che esista un nesso, un legame tra il tutto e le sue parti, tra microcosmo e macrocosmo, tra vita individuale e ordine del mondo, tra natura e soprannaturale.
Tutto questo riguarda le essenze, i nuclei originari delle culture della destra e della sinistra, ben sapendo che, da un verso, la storia produce contaminazioni e contraddizioni, esperienze trasversali e occasionali; e, dall’altro verso, nel nostro tempo di quei due archetipi sussistono echi più flebili e più obliqui, mentre incede nella specie dell’uniformità o dell’informità il nichilismo che divora le identità e le differenze, lasciando sul campo percorsi singolari o globali, irriducibilmente solitari o indistinguibilmente universali. Senza dire che la logica del mercato, debordata nella politica, produce la caccia al target religioso da ambo i versanti e dunque il defilarsi delle ragioni costitutive per far posto alle ragioni d’efficacia. Una specie di utilitarismo politico su base concorrenziale congela e congeda le culture politiche nell’affannosa ricerca di un marketing elettorale e settoriale.
Tuttavia, se si aspira a generare un discorso pubblico e una prospettiva politica, un ethos civile e una dialettica vitale tra necessarie distinzioni e necessari valori condivisi, è da lì che bisogna partire, da quelle opzioni diversamente declinate, da quel diverso disporsi rispetto al mondo, alla storia, alla vita, agli altri. E in ogni caso è impossibile eludere gli effetti di quell’intreccio tra senso civile e senso religioso, o su un altro piano tra categorie politiche e teologia.
Alla base dell’ideologia e dei progetti rivoluzionari e poi riformatori di sinistra vi era una radicale critica alla religione e un gigantesco tentativo di riconvertire le attese dell’eternità nelle attese del progresso. Secondo l’imponente apparato critico mobilitato dalla ragione contro la religione, la devozione riduce gli uomini in stato di permanente minorità, anzi di infanzia dei popoli e dunque di dipendenza degli individui. La religione da un verso produce remissione verso il potere, scambiato per volontà divina o per legge naturale, e dall’altro genera fanatismo, persecuzione, intolleranza. Tutto questo è definito oscurantismo; liberarsi dalla fede religiosa vuol dire dunque restituire all’uomo la padronanza del suo destino e debellare l’arrogante ferocia di chi ritiene di essere in possesso della Verità assoluta ed eterna.
Ora, la cultura della destra sorge a partire da una considerazione opposta, confermata dall’esperienza storica della modernità: le società che hanno espulso o cancellato il senso religioso, che hanno decretato la morte o l’inesistenza di Dio, hanno dato luogo a culture, regimi, partiti e movimenti che hanno prodotto orrori e schiavitù, intolleranze e dipendenze peggiori di quelli prodotti dalle società dominate dalla prospettiva di Dio. Il discorso vale in Occidente come in Russia e in Cina; vale meno per l’Islam perché la via del paradiso islamico può passare dalla morte eroica per combattere gli infedeli. Abbiamo davanti ai nostri occhi lo spettacolo del Novecento: i regimi totalitari, le guerre mondiali, i campi di sterminio non sono sorti nel nome di Dio ma voltando le spalle a Dio nel progetto di un’umanità, una classe o una razza, che diventa il senso della terra. Le religioni secolari hanno mietuto più vittime e più succubi delle religioni trascendenti. La repressione ispirata da Dio è stata di gran lunga superata in efferatezza dalla repressione poliziesca ispirata dalle ideologie totalitarie o dai dogmi moderni fondati tutti sulla morte di Dio. Il Timor di Dio ha generato meno paure e meno vittime del Terrore della Virtù: la Compagnia di Gesù non ha flagellato l’umanità come la compagnia giacobina. Eliminando Dio dagli orizzonti della vita moderna non è stata eliminata la dipendenza, l’infanzia delle masse e la sottomissione al potere, ma sono state ingigantite da nuovi fatalismi e nuovi automatismi: il determinismo storico, l’automatismo della tecnica, la persuasione ideologica. Che per giunta non consentono ripari interiori e ulteriori, perché negano che ci sia una vita dell’anima e una vita oltre la morte.
Il potere che non deve rispondere neanche a un Dio e a una fede è ancora più assoluto e devastante di quello che pretende di parlare nel nome di Dio, perché non ha argini e non riconosce giudici supremi; ma anche il suddito, il cittadino, che non ha altri orizzonti oltre quello del dominio presente, è in balia totale del potere militare o economico, tecnologico o politico. La sua vita è interamente risolta nel raggio terreno; nessuna speranza di immortalità può risarcirlo, aprirgli altri spiragli o consentirgli di sottrarsi ai suoi dominatori. È completamente sotto scacco. La genesi del totalitarismo e la sua micidiale onnipotenza è proprio in questa mancanza di alternative e di piani ulteriori: tutto è qui, suggerisce il potere totalitario, non hai altra vita all’infuori di quella che passa dal nostro dominio. Ma non solo: senza prospettive di paradisi e di inferni, la vita si chiude in se stessa, non trova ragioni per alcuno sforzo o impegno che trascenda l’orizzonte immediato dell’esistenza, del dare e dell’avere perché nulla ci aspetta oltre la vita medesima. Infine, se il progetto di emancipazione dalla religione si fondava sull’elevazione dell’uomo da mezzo a fine, e dunque sul rifiuto di ogni alienazione e strumentalizzazione dell’uomo, si deve convenire che mai l’uomo è apparso ridotto a mezzo, a strumento del potere, del piacere, del godere, del profitto, come nella società della morte di Dio. La fine del senso religioso non coincide con la fine dell’alienazione ma con la sua espansione.
Se la critica della religione è dunque all’origine dell’idea di emancipazione e di correzione del mondo, che è il codice genetico della sinistra, la critica all’irreligione è all’origine della cultura della destra. Una contro-critica che non mira a riabilitare il passato, l’era dell’inquisizione e della persecuzione religiosa, ma ad attribuire gli orrori della religione non alla dottrina professata ma agli uomini. Per il realismo antropologico della destra le responsabilità sono in primo luogo personali, in secondo luogo collettive, quindi delle istituzioni, del clima, dell’epoca, della fede abbracciata. Non è la religione a produrre il fanatismo; è il fanatismo a cercare alibi nella religione. Non è la fede integrale in Dio che arma i fanatici, ma la convinzione di agire in sua vece, delegati da Dio a punire i dannati.
È curioso notare come il meccanismo ideologico che colpevolizza la religione per gli orrori commessi in suo nome funzioni a rovescio davanti al comunismo: qui, al contrario, la colpa per gli orrori commessi non discende dall’idea ma viene attribuita ai suoi agenti, così viene salvata la bontà ideale del comunismo dalle sue realizzazioni storiche. L’idea era buona, malvagi erano solo i suoi impresari.
In duemila anni la storia della Chiesa ha visto santi e persecutori, martiri e oppressori: non si può vedere solo gli uni o solo gli altri, e soprattutto non si può dal comportamento degli uni o degli altri inferire la bontà o la perversità della fede professata. Quando una religione si spande per millenni su una civiltà riflette e incarna tutti i suoi vizi e le sue virtù, i suoi orrori e le sue santità, fino a coincidere con le sue miserie e le sue grandezze. La lezione che la cultura della destra ne deriva non è l’assoluzione generale degli errori e degli orrori commessi nel nome della fede, ma la convinzione che nell’orizzonte comunitario non si possa prescindere dalla religione che ha permeato nel bene e nel male per millenni la cultura, la vita e la storia di un popolo. Fa parte ormai della sua mentalità, della sua tradizione. Si può esercitare lo spirito critico e la revisione storica, ma non si può dimenticare questa osmosi profonda e diffusa tra vita e religione; noi siamo figli di questa storia e di questa fede e non possiamo chiamarci fuori. Non si tratta dunque di abbracciare una scelta culturale di tipo neo-guelfo; anzi, è preponderante nella cultura della destra una visione più ghibellina o dantesca, ovvero religiosa ma non clericale, cattolica ma non confessionale, ove permane la distinzione delle sfere temporale e spirituale. Ma in una prospettiva tutt’altro che laicista o irreligiosa.
Queste considerazioni hanno un’implicazione di ordine storico e una di ordine politico. La prima ripropone il punto debole della storia moderna italiana: il mancato legame tra senso civico e senso religioso, anzi la vera e propria frattura insorta nel 1799, all’indomani dei tentativi di trasferire la rivoluzione francese in Italia; poi perdurata nel Risorgimento e sedimentata nel periodo seguente. Da noi lo Stato unitario non è sorto all’ombra della religione ma a dispetto di quella; e questo peccato originale, che si potrebbe salomonicamente ripartire su entrambi i versanti, pesa ancora sulla cultura politica del nostro paese. Il Concordato del ’29 fu un evento grandioso ma non ricucì la frattura tra coscienza civile e coscienza religiosa; e così l’avvento della Democrazia cristiana al potere attutì l’antica lacerazione ma produsse un indebolimento del senso civico, e più in generale del senso dello Stato e delle istituzioni. La morale cristiana non si saldò a un’etica politica. Crebbe lo statalismo, decrebbe lo Stato. Ma fu l’unica mediazione possibile se si considera che non esistevano nel nostro paese culture dello Stato compatibili con la democrazia e la libertà, in quanto il marxismo era una cultura dell’abolizione o dell’estinzione dello Stato, il liberalismo era una cultura della limitazione dei poteri dello Stato e il cattolicesimo democratico era una cultura dell’espansione materna della protezione pubblica, ma senza un’idea positiva dello Stato. La cultura della destra non contava e l’unica cultura dello Stato prodotta in Italia non era disponibile in democrazia perché coincideva con l’edificazione dello Stato autoritario, se non fascista: la cultura dei Rocco e dei Gentile, per intenderci; o, in alternativa, quella del liberalismo autoritario pre-fascista. E che era ormai sepolta anche perché non aveva colto l’avvento della democrazia di massa e non aveva saputo uscire dal notabilato laico e dall’osservanza massonica, che prescindeva dalla tradizione popolare, religiosa e cattolica del paese.
Dunque, non è esistita nel nostro paese una cultura dello Stato, popolare e nazionale, che riuscisse a contemperare religione e cittadinanza. L’unica mediazione compiuta fu quella del compromesso storico, che traeva le sue origini dall’unità anti-fascista e dalla Costituzione e che si dispiegò poi negli anni Settanta, all’ombra del moroteismo e del catto-comunismo. Ma era una cultura fondata non sul rafforzamento del senso religioso e del senso dello Stato bensì sull’indebolimento di entrambi: da un verso il sentire religioso cedeva il posto a un vago solidarismo sociale, e dall’altro il senso dello Stato si dissolveva nella solidarietà partitocratica. Il compromesso storico si celebrava così sul disarmo bilaterale della fede religiosa e del senso dello Stato. L’unità politica e religiosa del paese veniva trasferita nella mobilitazione democratica e nell’unità anti-fascista. La religione ridotta a moralismo, lo Stato ai partiti di massa.
E poi il compromesso non sanciva l’incontro tra religione e cittadinanza, ma tra due religioni: il comunismo era accolto come religione politica e moralismo ideologico.
In quel vuoto tuttora viviamo; e qui entra in gioco l’implicazione politica di cui dicevamo. Oggi che la fede e la pratica religiosa sembrano attenuate e non c’è più un partito democristiano a guidare ininterrottamente i governi, si verifica il paradosso che l’incidenza religiosa e confessionale sembra cresciuta anziché declinare. Cosa è accaduto? Da un verso la trasformazione bipolare del sistema politico e la scomparsa di un partito cattolico di centro hanno scatenato la ricerca del voto cattolico in ambo i poli e dunque hanno incrementato il potere contrattuale delle istanze e dei movimenti cattolici; dall’altra parte l’essiccarsi delle ideologie e l’allargarsi della globalizzazione ha accresciuto il ruolo della Chiesa e la sua influenza morale come agenzia di senso e di orientamento. Di conseguenza l’incidenza del fattore religioso nella vita civile appare perfino superiore a quella del passato.
Da qui il paradosso di un paese sempre più scristianizzato e sempre più sensibile alla presenza cattolica, che non si può liquidare, come pensa l’antiquato anti-clericalismo, come una pura usurpazione di potere da parte della curia. O come un’indebita ingerenza della Chiesa nelle questioni civili e politiche. A tale proposito la posizione culturale della destra è chiara: l’interventismo della Chiesa, del Papa, delle agenzie religiose in temi che riguardano il diritto alla vita, la famiglia, il senso civico non può essere vissuto come una prevaricazione indebita, un’invasione di campo. Ma fa parte della missione evangelica e pastorale della Chiesa ed è dunque più che legittimo, doveroso. Il vero problema non è l’invadenza della religione nella politica, ma l’opposto: la debolezza della politica, dello Stato e della cultura civile che non è in grado di veicolare valori condivisi, regole comuni, orientamenti etici; non è l’ingerenza clericale ma il deficit politico il vero problema. Una solida cultura civica, un forte senso dello Stato, sarebbero in grado di metabolizzare le indicazioni religiose, accogliendole, filtrandole o arginandole. Non si tratta dunque di ricacciare la religione nelle catacombe o nel recinto delle scelte private, ma di garantire e alimentare un vigoroso pluralismo di fonti e di riferimenti comunitari. Il sentire religioso, lo diceva un laico, un pagano e un umanista come Machiavelli, è fondamentale per ogni comunità; garantisce la sua coesione so...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione alla nuova edizione
  2. Premessa Destra e sinistra, salutari menzogne
  3. Essere di destra oggi, in che senso
  4. Patria, che significa oggi
  5. Immigrazione, risposte da destra
  6. Globalizzazione, amici o nemici?
  7. Religione e cittadinanza
  8. Educare, comunicare, tramandare. Progetto Italia
  9. Post scriptum La cultura della destra nell’era del governo Berlusconi
  10. Nota bibliografica