
- 206 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Filosofia della musica
Informazioni su questo libro
La musica presenta sempre due volti: quello dell'interiorità e quello del mondo. Enfatizza le dinamiche interne dell'esperienza ma nello stesso tempo è scoperta del centro vivo e anonimo della realtà. Alla luce di questo tema, Silvia Vizzardelli attraversa la storia del pensiero musicale dall'antichità fino a noi, si interroga sul ruolo del sentimento e della tecnica nell'arte dei suoni, approfondisce la nozione di 'atmosfera', al centro del dibattito estetico contemporaneo.
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Informazioni
Categoria
Storia e critica della musicaII. Musica e sentimento
Ripresa
Facciamo tesoro dunque del concetto di tensione, avvertiti però del fatto che l’acquisita dimestichezza nell’uso del termine procura perlopiù una soddisfazione vicaria, per usare un’espressione teologica. Vale a dire ci si compiace di questo strumento concettuale non tanto per le sue interne risorse, quanto per quel che attraverso di esso si riesce ad eludere. Sposando la causa di un’estetica tensiva sono aperte le strade – o almeno così si ritiene – per liquidare ad esempio non solo la nozione di opera, ma anche quelle di vincolo, di confine, di concentrazione, di coagulazione, ovvero, in una parola, per celebrare i funerali di qualsiasi nozione di ‘oggettività’, di ‘identità esterna’, di ‘spazio autonomo’, di forma. Si dà il via libera ad una concezione solamente riflessiva dell’ascolto, ovvero all’idea che eseguire la musica significhi essenzialmente ‘far ascoltare il proprio ascolto’1, interpretare, tradurre e dar segno delle proprie scelte, mettendo tra parentesi la relazione con l’‘oggetto’ in nome dei presunti diritti dell’ascoltatore. Ora è indubbio che la storia della musica, e non solo di questa, ci mette di fronte al dissolvimento della nozione di opera, ma è altrettanto vero che non si tratta dell’unica strada percorsa, e che spostare l’accento sulle nostre modalità di ascolto e sull’esigenza, direi, etica, di una testimonianza delle nostre esperienze non significa esaurire le dinamiche dell’ascolto. Quanto più abbiamo il desiderio che gli altri ascoltino il nostro ascolto, tanto più ciò accade perché facciamo esperienza di un ascolto originario, di un ascolto cioè che tiene fermo il legame con un’identità che ci viene incontro, che ci parla da fuori, che ci detta delle condizioni. Anche quando questa identità non rispetta più i caratteri della tradizione, siamo sempre in ascolto di qualche cosa.
Dunque ci serviamo del concetto di tensione a patto però che il processo di smaterializzazione che esso comporta non coincida col sacrificio dell’‘oggettività’. D’altra parte è possibile parlare veramente di tensione senza presupporre le nozioni di vincolo, di resistenza? C’è però un altro rischio, il pericolo opposto: la nozione di tensione quando mantiene il vincolo dell’oggettività può patire l’offesa di una drastica liquidazione dello psichico in nome di quelle aperture cosmologiche che da sempre hanno accompagnato le teoriche musicali. Cercheremo quindi di dimostrare come l’idea che la musica possa farsi ‘specchio del mondo’, un’idea ritornante, lo abbiamo visto, nei vari tentativi di coglierne l’essenza, sia perfettamente compatibile con la valorizzazione della vita emotiva, delle dinamiche soggettive del sentire. In poche parole, il tema del rapporto musica-emozioni non può essere accantonato come residuo di problemi malposti in passato, ma torna al centro dell’attenzione come questione irrisolta e dunque come sfida dei nostri tempi.
1. Spirituale come il mondo
Chiunque sia stato tentato di dire qualcosa sulla musica dà l’impressione di aver cominciato a parlare quando non poteva più farne a meno. Aspetta, esita, conscio non tanto delle difficoltà che un discorso coerente sull’arte dei suoni comporta, quanto del fatto che parlare in questo caso significa dire in un certo senso l’ultima parola, compiere cioè quel gesto contraddittorio di chi tenta di assimilare un’esperienza di espatrio. Fin dai primi tentativi di coglierne l’essenza, la musica ha presentato la sua natura mundana, ovvero la sua capacità di dischiudere un ordine cosmico, di aprire finestre non sul giardino di casa nostra, bensì su spazi ben più vasti coincidenti con i movimenti ordinati della natura o addirittura con l’armonia delle sfere. Questi spazi sono stati colti, altrettanto tempestivamente, come spazi senza luoghi, come se l’ascolto a differenza della vista non avesse bisogno di localizzazioni, di confini, ma di essere regolato da unità tensive variamente combinabili.
Gli spazi cui ci apre la musica non sono popolati, ma animati; eppure vale la pena chiamarli ancora spazi e dotarli di una carica di obiettività. Quando si dice che la musica è una liberazione di potenzialità di vita, che la sua forza è quella di sprigionare la vita non si ha in mente soltanto la dinamica psicanalitica che prevede l’emergenza del sotterraneo, dell’inconscio in varie forme, si pensa perlopiù ad una situazione d’oltranza in cui riusciamo ad intercettare grazie anche alle nostre attitudini e dinamiche psichiche qualcosa che non ci appartiene, in cui scopriamo una novità che, una volta colta, ci apparirà irrinunciabile, a suo modo definitiva. Ci sentiamo simpatizzanti, uomini empatici, più che espressivi, ci sentiamo altri più che noi stessi, ci pare di coincidere con un mondo piuttosto che di liberare e di rivelare identità personali sepolte. Per questo la musica ci ha da sempre parlato del mondo, lo ha fatto insorgere alla nostra attenzione come una parentela o coalizione quasi miracolosa di forze, di energie, di attitudini.
Nel De institutione musica, Boezio proponeva la nota tripartizione dell’ars musica in tre generi: musica mundana, prodotta dall’armonia delle sfere e da tutti i movimenti ciclici della natura; musica humana, coincidente con quella vivacità di spirito che il contemperamento delle voci dell’anima comunica al corpo; musica instrumentis constituta, prodotta con la voce e con gli strumenti. La musica autentica è quella silenziosa (mundana ed humana), quella che non giunge, o per meglio dire, non si evidenzia al nostro orecchio: non udiamo le armonie celesti così come non percepiamo la musica dell’anima, eppure di musica possiamo continuare a parlare se è vero che non esistono solo i suoni che sentiamo ma anche i suoni che intendiamo. L’armonia produce suoni, e poiché la musica è scienza speculativa, vale a dire aristotelicamente conoscenza ultraempirica, non fondata cioè sull’esperienza, se vogliamo cogliere questi suoni nella loro verità dobbiamo farlo per via di astrazione, senza cioè ricorrere alla capacità produttiva dell’uomo né all’esperienza diretta dell’udito. La musica autentica va essenzialmente concepita, ci apre il mondo attraverso uno sforzo di alta speculazione ovvero di astrazione e contemplazione. La musica è silenzio, dunque, in una condizione in cui il silenzio non è assenza di suono ma è suono inteso, non più semplicemente udito. Vale la pena rilevare qui che, come già nel caso dei pitagorici, l’idea di un necessario processo di astrazione ai fini della vera comprensione del suono e dei suoi rapporti non coincide necessariamente con la svalutazione dell’esperienza sensibile. Certo sono molti i luoghi in cui alla sensibilità sembra appartenere l’amaro destino della perversione e della falsificazione, quasi fosse un simulacro di vita, ma forse altrettanti quelli in cui essa si rivela come il termine di un processo di conversione. Può sembrare contraddittorio per noi, mal abituati come siamo a concepire il numero, ad esempio, solo come risultato di procedimenti astrattivi; era invece sensibilità comune per i pitagorici e per chi come Boezio ne ha raccolto l’eredità. Il fatto che un suono non lo si senta, non significa che esso non abbia alcuna relazione col sensibile. Può significare ad esempio che l’abitudine e la continuità del suo ascolto, annullando il contrasto di primo piano e sfondo, vale a dire suono e silenzio, ci ha resi apparentemente sordi, come il fabbro che per l’abitudine fatta al rumore da lui prodotto non lo sente più. Non riusciamo ad udire la musica della nostra anima (musica humana) perché siamo intimi ad essa e la viviamo come dimensione a tal punto imprescindibile da non rappresentare un piano d’emergenza. Eppure l’anima canta la più pura delle musiche. Ma può significare anche, ed è questo più propriamente il discorso di Boezio, che la musica mundana ed humana rappresentano quell’elemento intelligibile che viene convertito grazie al numero nel sensibile. Solo in questa chiave possiamo intendere le osservazioni di Boezio quando afferma: «sebbene quel suono non giunga al nostro orecchio [...] pure un movimento così veloce di tanto grandi corpi celesti non potrà non suscitare affatto alcun suono», o ancora:
Ma a proposito di questi ci proponiamo di non concedere ogni giudizio ai sensi, quantunque dal senso dell’orecchio dipenda ogni principio di quest’arte. Poiché se non esistesse l’udito, non si potrebbe nemmeno iniziare la discussione intorno alle voci. Ma l’udito ha una funzione in qualche modo di principio e quasi di ammonimento, invece l’intima e perfetta facoltà di cognizione risiede nella ragione, la quale tenendosi a certe regole non cade mai in errore2.
Che la sensibilità sia principio e ammonimento significa che presta la sua forza e flagranza per farci confidare nella possibilità di convertire in essa ciò che cogliamo come modello inudibile; l’astrazione è sempre, in principio, la potenza del sensibile al punto che attraverso di essa è possibile recuperare una flagranza percettiva al momento perduta.
Proprio qui troviamo la possibilità di fissare all’attenzione un tema decisivo per la filosofia della musica che per ora conviene solo enunciare. Si tratta dell’implicazione di un punto caldo, sostenuto dalla presenza sensibile diretta o fantasmatica, e di una zona fredda aperta alle astrazioni e ai concatenamenti cosmici. Era appunto il problema degli antichi, impegnati a stabilire se le differenze tra i suoni e le entità intervallari fossero da considerarsi attraverso una radicale riduzione aritmetica, calcolati cioè secondo ratio-logos e proportio (Pitagora), oppure andassero afferrati come fenomeni e ricondotti alla flagranza dell’esperienza sensibile (Aristosseno). L’idea che ci possa essere un calcolo implicito nella diretta percezione del suono e degli intervalli, un’idea giunta fino alla nozione di calcolo inconscio proposta da Leibniz, poteva apparire una prima via per rimettere in dialogo i due versanti qualitativo e quantitativo. Che il calcolo numerico possa confluire nella flagranza percettiva e sia in grado di fornirci gli strumenti per ricostruirla e riprodurla quando assente può essere riconosciuto come vero a patto, però, che si faccia un’ulteriore precisazione. Noi non misuriamo una reale percezione uditiva, identifichiamo piuttosto una zona neutra che rende possibile le conversioni percettive. Piana ha colto con grande acutezza che la negazione aristossenica della linearizzazione pitagorica dell’intervallo muoveva dal bisogno di interrogare l’intervallo con l’orecchio nella sotterranea convinzione che sul piano percettivo non entrasse una valutazione quantitativa bensì una percezione di rapporti all’interno di un sistema. Scrive Piana: «L’intervallo come unità di conto e l’intervallo come unità effettivamente interveniente in un sistema musicale sono radicalmente differenti»3. Intervallo percepito e intervallo calcolato appartengono a terreni distinti. È tuttavia possibile immaginare una solidarietà più stretta tra aisthesis e noesis, tale da non ridurre in alcun modo la loro differenza o incidenza su piani distinti, se teniamo conto che la funzione del calcolo è stata spesso per gli antichi quella di aprire possibilità di conversione percettiva. È il numero che per Boezio consente di passare dall’idea o modello (la musica silenziosa delle sfere o della nostra anima, la musica come potenzialità o virtualità) alla musica realmente percepita ed è dunque grazie al numero che si riesce ad avere un’esperienza percettiva nuova. Quando percepisco un intervallo non lo calcolo, ma il fatto che sia calcolabile ad altro livello mi dice che il numero è ciò che mi consente il passaggio, la conversione dall’intelligibile al sensibile. Non riesco a trovare un senso diverso a quelle affermazioni di Boezio che sembrano individuare il compito della musica nel rendere udibile ciò che non lo è e fino ad un certo punto non lo deve essere, di trasferire sul piano percettivo un modello intelligibile grazie a quella zona neutra di convertibilità rappresentata dal numero. Si tratterebbe in sostanza di un tipo di rapporto che richiama in diverso contesto – e so bene che in questo momento il passaggio può apparire indebito, ma avremo modo tra breve di specificarne il senso – la reciproca solidarietà di aisthesis e noesis che oggi sentiamo agire nella costruzione degli ambienti virtuali. Così descrive questa originaria convertibilità Philippe Quéau:
Qual è la sostanza dell’opera virtuale? Il modello e l’...
Indice dei contenuti
- Premessa
- I. Musica e filosofia
- II. Musica e sentimento
- III. Musica e tecnica
- IV. Musica e atmosfere
- Bibliografia