1. Gli anni Settanta:
il debito da risorsa a problema politico
1.1. Mutazioni
Proprio al discrimine tra un decennio così complesso come quello degli anni Sessanta e l’immediato inizio del decennio successivo si innescò a livello europeo una crisi – non solo economica ma anche politica – paragonabile, secondo alcuni commentatori dell’epoca, a quella degli anni Trenta. Gli anni Settanta costituiscono infatti uno dei momenti di passaggio più importanti della seconda metà del secolo, poiché segnarono il rallentamento della crescita economica dopo un lungo periodo di benessere prodottosi rapidamente.
In Italia questo decennio inizia già nel 1969, quando l’avanzamento di quel periodo che chiamiamo «autunno caldo» fece deflagrare il conflitto sociale.
Fu una crisi della società industriale occidentale determinata da motivi economici e sociali profondi. Intanto si stava concludendo definitivamente il ciclo economico post-bellico che aveva ridotto il vantaggio degli Stati Uniti a favore dell’Europa e del Giappone e, nello stesso tempo, il consolidamento del processo di stagflazione, cioè della combinazione di stagnazione e inflazione, stava conducendo alla disgregazione della cosiddetta classe lavoratrice ma, per converso, anche al rafforzamento sociale dei quadri e dell’intellighenzia tecnico-amministrativa.
Nuovi immigrati si trasferivano nelle città per lavorare nei settori dei servizi domestici, della sanità e dei trasporti urbani. Si avviava, così, una nuova segmentazione di classi, diversa dal tradizionale schema bipolare, e si esauriva la spinta propulsiva del modello taylorista-fordista, ma anche, seppur gradualmente, l’efficacia nella pratica di governo delle politiche keynesiane.
Proprio nel 1970, che è considerato dalla storiografia un anno di frontiera del «secolo breve», entrava in corto circuito l’azione politica dei governi occidentali: nel decennio precedente essi avevano saputo interpretare le esigenze di una società che reclamava da una parte la dotazione di «capitale sociale», in termini di Stato sociale, formazione, università, e dall’altra il soddisfacimento dei bisogni privati; ora invece, agli inizi del nuovo decennio, si scoprivano più vulnerabili, soprattutto sul piano della proposta politica.
La Penisola usciva in quel momento da una stagione politica contraddistinta dall’azione politico-economica dei governi di coalizione del primo centro-sinistra. Tale stagione, ormai esaurita, era stata caratterizzata dall’incontro fra gli indirizzi politici del cattolicesimo democratico, che aveva dato corpo ad una sorta di «equilibrismo» tra tentazioni statalistiche e accentuazioni di mercantilismo nell’economia tradizionale, e quelli dei socialisti, insieme ai partiti laici, che avevano introdotto nell’azione dell’esecutivo politiche decisamente keynesiane e che ora avevano messo al centro del dibattito i valori del mercato.
Questi governi degli anni centrali del decennio Sessanta si erano appoggiati alla forza dei mercati interni e alla robustezza delle economie nazionali a base dirigistica e pianificata, che però avevano sofferto spesso di un andamento altalenante.
Infatti alla fine del decennio erano già emerse quelle difficoltà nelle iniziative di governo che sarebbero poi diventate abituali, come la complessità dell’intervento di contrasto alla crescita del tasso d’inflazione, la faticosa azione di stimolo alle esportazioni, l’azione di restringimento del credito e della spesa e l’inevitabile limitazione degli aumenti salariali. Le recessioni causavano disoccupazione, mentre i prezzi continuavano a salire. Però in quegli anni l’Italia era ancora in crescita, aveva quasi cambiato pelle ed era ormai accreditata stabilmente tra le democrazie industriali.
Nel volgere degli anni Sessanta l’Italia macinò risultati e obiettivi significativi grazie sia ai piani di sostegno statunitensi, sia allo sviluppo dei sistemi infrastrutturali e all’azione di posizionamento nel sistema degli scambi internazionali (e anche grazie alla lotta alla disoccupazione, alla stabilità monetaria, ai conti pubblici in ordine e alla deregulation del commercio).
Questa crescita si fondò, almeno fino alla metà del decennio successivo, sul lavoro quale fattore trainante in grado di imporre un modello di relazioni industriali basato sullo scambio tra occupazione e contenimento del salario, piuttosto che sulla costruzione di un sistema di garanzie sociali. A ciò si aggiunge anche l’elemento determinante del radicamento e dell’estensione della rete di piccole e medie imprese nelle regioni settentrionali, che assorbirono quote consistenti di occupazione.
L’intreccio di spesa rilevante, investimento pubblico e aumento delle esportazioni amplificò il motore di crescita italiano e condusse anche a un innalzamento dei salari e dei profitti, insieme al dispiegarsi di tutte le dinamiche associate e relative alla formazione di classi sociali e alle loro esigenze e debolezze.
Ma alla fine degli anni Sessanta il rallentamento dello sviluppo industriale, che era stato trainato dai settori meccanico e chimico e dalla stabilità delle relazioni industriali, si intrecciò con i cambiamenti in atto nella società ormai disgregata e in piena crisi di identità post-sessantottina. L’«autunno caldo» poi fece il resto. Pertanto, agli inizi degli anni Settanta l’andamento dell’economia italiana fu condizionato dall’eccezionale aumento dei costi di produzione, a fronte di una moderata crescita economica.
Proprio al passaggio del decennio, il sistema politico-economico italiano non fu in grado di reagire agli aumenti salariali né attraverso rapidi processi di razionalizzazione né attraverso una forte espansione degli investimenti. A un elevato sviluppo della domanda interna, nella fase iniziale del decennio, corrispose un processo di decelerazione complessiva dei redditi, fino ad arrivare ad una incrinatura del settore edilizio che fece intravedere anche fenomeni recessivi.
Tuttavia, nonostante il sistema «mimetico» Dc-Pci – che fissò le orme dell’anomalia italiana – e il rallentamento della crescita economica, il decennio Settanta fu sin dall’inizio un periodo di svolta, di «mutazione genetica», non solo politica, in cui si determinarono estesi fenomeni di mobilitazione sociale che misero sotto pressione la classe politica e segnarono anche l’esaurirsi definitivo del «ciclo politico breve» del centro-sinistra degli anni Sessanta.
Tale sistema politico lasciò spazio, fino alla metà del decennio, solo a soluzioni fortemente connotate, con maggioranze parlamentari risicate, in cui la Democrazia cristiana rimaneva divisa sostanzialmente in due parti (in seguito anche alla controversa elezione di Giovanni Leone a presidente della Repubblica), mentre i suoi partner abituali – Psdi, Pri e Pli – e il Psi, in una posizione di maggiore forza dopo l’esperienza del primo centro-sinistra, mantenevano indirizzi politici fortemente keynesiani in campo economico.
In questi anni di forti cambiamenti sociali e di inflazione superiore a quella dei principali paesi europei, si rafforzò gradualmente il processo di stallo delle istituzioni democratiche, e soprattutto del parlamento, ma si intravide anche l’accelerazione del processo di trasformazione amministrativa indotto dalla nuova dislocazione di poteri delineata dalla nascita delle Regioni, che avrebbe dovuto, almeno sulla carta, portare altresì a un alleggerimento degli apparati ministeriali.
A questo andamento si univano le speranze di «rifondazione» dello Stato che si nutrivano dei cambiamenti politici e sociali in atto in quel momento. Anche se sappiamo che il trasferimento di funzioni alle Regioni e i tentativi di riforma dell’amministrazione furono nel complesso modesti, almeno fino alla fine del decennio; solo verso il 1975, infatti, si presentò un’occasione di trasformazione socio-istituzionale degli enti territoriali, allorquando venne completato il trasferimento alle Regioni delle funzioni in campo sanitario.
Quindi nel 1970, nel momento in cui si formò il terzo governo guidato da Mariano Rumor, le riforme in campo amministrativo erano all’ordine del giorno e anche per ques...