Vercingetorige
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Vercingetorige

  1. 20 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Vercingetorige

Informazioni su questo libro

La conquista romana della Gallia e la storia di un giovane condottiero che vi si oppose.

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Informazioni

Argomento
Storia
Categoria
Storia antica
eBook Laterza
Giuseppe Zecchini
Vercingetorige

© 2002, Gius. Laterza & Figli


Prima edizione digitale novembre 2010
http://www.laterza.it
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 9788858100059
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

Premessa

Tra il 1999 e il 2001 sono usciti in Francia ben tre libri su Vercingetorige, scritti da studiosi di fama come S. Lewuillon, P.-M. Martin e Chr. Goudineau; essi sono andati ad arricchire una tradizione di studi che risale almeno al famoso Vercingétorix di Camille Jullian del 1901. Altrove la fortuna di Vercingetorige è stata opposta: nessuna monografia né in italiano, né in inglese, né in spagnolo, mentre in tedesco c’è solo il glorioso, ma vecchio articolo di M. Gelzer per la Pauly-Wissowa.
Una prima ragione di questo libro sta dunque nella volontà di riempire una lacuna abbastanza appariscente negli studi italiani di storia antica; essa non è però la sola. Vi è la ragione personale di «chiudere i conti» con un personaggio di cui mi sono occupato a più riprese, dalla mia monografia del 1978, Cassio Dione e la guerra gallica di Cesare, al capitolo centrale del mio volume del 1984, I druidi e l’opposizione dei Celti a Roma. Vi è la ragione polemica di rivisitare un protagonista e un momento cruciale della storia gallica da una prospettiva celtica, non da quella abituale dei vincitori romani, senza peraltro cedere alle superficiali mode di una «celtomania» deteriore. Vi è infine la ragione, forse più originale e valida sul piano scientifico, che consiste nel comporre non tanto un’impossibile biografia (conosciamo solo un anno della vita di Vercingetorige!), bensì uno studio di storia militare sull’anno decisivo della conquista gallica, quando il notevole talento strategico di Vercingetorige si misurò col più grande generale di tutti i tempi, seppe a lungo tenergli testa, in un’occasione riuscì anche a sconfiggerlo, alla fine cedette con onore.
Tutte queste ragioni mi erano già ben presenti, ma non si sarebbero mutate in un progetto concreto e – spero – non del tutto fallito, se Andrea Giardina non avesse accolto la mia proposta per la serie da lui diretta e se Martin Jehne non mi avesse ospitato con grande affabilità a Dresda, dove questo libro è stato scritto in buona parte: a loro rinnovo qui la mia gratitudine e l’amicizia di sempre.
G.Z.

Il popolo di Vercingetorige

1. L’egemonia degli Arverni

«Cesare ordina di consegnare le armi e di condurgli i capi. Egli se ne sta sulla linea di fortificazione, dinanzi all’accampamento; là sono condotti i capi. Vercingetorige si consegna, le armi sono gettate davanti a lui
Così, con l’abituale, fredda brevità, Cesare (La guerra gallica, VII, 89) riferisce la resa di Vercingetorige ad Alesia nella tarda estate del 52, che segnò per il mondo celtico la fine dell’indipendenza e l’assorbimento nella superiore civiltà romana. Aveva press’a poco trent’anni quest’uomo, che per un’intera campagna aveva tenuto testa alla più efficiente macchina bellica di ogni tempo e al più grande dei generali, era persino riuscito a sconfiggerlo e aveva suscitato in lui ammirazione e rispetto. Dal punto di vista di Cesare, che determina, tutto sommato, ancora il nostro, egli resta il condottiero che si oppone alla romanizzazione, in un certo senso al cammino della storia; un valoroso, certamente, ma pur sempre un nemico prima, e poi uno sconfitto. Eppure ci fu anche il punto di vista di Vercingetorige, le ragioni di una straordinaria vicenda umana e di una disperata resistenza: vale la pena tentare di recuperare questa prospettiva, rileggere la conquista gallica con sguardo celtico, rievocare non l’ebbrezza della gloria, ma l’amarezza dolorosa dei vinti.
Tuttavia il biografo di Vercingetorige si trova davanti a una insormontabile difficoltà, che è anche una stridente contraddizione: pochi tra i personaggi famosi del mondo antico sembrano più degni di biografia di colui che è assurto a eroe di un’intera nazione, la Francia, di nessun altro però conosciamo soltanto l’ultimo anno di una breve vita; nulla ci viene detto dell’infanzia, dell’educazione, della vita privata, neppure dell’aspetto fisico. Perciò l’unico modo per disegnare almeno lo sfondo etnico e politico, su cui si innestò la sua avventura, è percorrere a grandi linee la storia del suo popolo, gli Arverni.
Gli Arverni occupavano l’odierna Alvernia a nord delle Cevenne nel cuore della Gallia sin dai tempi della migrazione celtica (VII-VI a.C.); a metà del V secolo i Biturigi di Avaricum (Bourges), grazie alla centralità della loro posizione – che rivestiva un importante significato sacrale per la religione panceltica del druidismo – e al prestigio del loro re Ambigato, stabilirono una qualche forma di egemonia su un’area che Livio definisce genericamente Celticum e in cui gli Arverni, stanziati appena più a sud, dovettero certamente essere compresi. Il declino dei Biturigi era forse già in corso alla fine del III secolo, ma fu accelerato dal passaggio di Annibale. Nella sua marcia dai Pirenei attraverso la Gallia verso le Alpi nel 218 egli trovò negli Arverni una popolazione disposta a collaborare e a facilitargli il transito e la collaborazione si ripeté con il fratello Asdrubale nel 208; in questo delicato decennio i due grandi generali cartaginesi furono arbitri degli equilibri tra le genti della Gallia centrale e il prestigio degli Arverni ne uscì rafforzato a tal punto che nel II secolo la loro egemonia appare consolidata ed estesa addirittura, almeno secondo il geografo augusteo Strabone, dai Pirenei all’Oceano (il canale della Manica), dal Reno alle vicinanze di Marsiglia: perciò i moderni hanno potuto parlare, non senza qualche esagerazione, di «primo impero arverno». È così singolare constatare che un sottile filo rosso collega il soggiorno di Annibale in Gallia e il futuro destino di Vercingetorige, i due più celebri oppositori dell’«imperialismo» romano.
Il subentrare degli Arverni ai Biturigi nell’egemonia gallica ebbe come prima conseguenza lo spostamento del centro sacrale del druidismo da Mediolanum dei Bitu­rigi a Cenabum (Saint Benoît-sur-Loire, presso Orléans) dei Carnuti, un piccolo popolo fedele cliente degli Arverni, che forse nell’occasione assunse appunto il nome derivante da carn: «altare»; il legame tra religione e politica era ancora molto forte e si traduceva nell’adozione della forma monarchica, in cui il sovrano era consacrato da un sacerdote, cioè un druido, e quindi dipendente dalla sua autorità sacrale; d’altra parte gli eccezionali privilegi, di cui i druidi godevano ancora al tempo di Cesare (monopolio dell’istruzione superiore e dell’amministrazione della giustizia; capacità di imporre tregue armate e di risolvere questioni di confine; esenzione dal servizio militare e dalle imposte; disponibilità di grandi ricchezze accumulate nei santuari; diritto di scomunica), erano a maggior ragione in vigore al tempo dell’egemonia arverna: essa era così contraddistinta da un ceto sacerdotale, che pervadeva e controllava gran parte della società e che le conferiva un carattere assai poco «laico». Lo storico ed etnografo greco Posidonio, che visitò la Gallia meridionale quando era ancor viva la memoria degli ultimi sovrani arverni, ci ha lasciato una vivida descrizione di Luernio (intorno al 150 ca.):
Questi si muoveva sul suo carro attraverso i campi distribuendo oro e argento alle migliaia di Celti, che lo seguivano, per aumentare la propria popolarità; fece poi costruire un recinto ampio dodici stadi (2,5 km2 ca.), in cui collocò vasi colmi di vino pregiato e fece preparare una tal quantità di cibi, che per parecchi giorni chiunque poteva accedervi e usufruirne grazie a un servizio continuato. Dopo che ebbe posto un termine alla festa, un poeta indigeno (un bardo) giunse ormai fuori tempo e, incontrato il re, ne cantava in un inno la grandezza, ma si lamentava anche per il proprio ritardo; quegli allora, divertito, si fece portare una borsa piena d’oro e la gettò all’altro, che gli correva a fianco; afferratala, il poeta cantò di nuovo, dicendo che i solchi tracciati sul terreno dalle ruote del suo carro producevano oro e benefici per tutti gli uomini.
Ricchezza e generosità, grande disponibilità di metalli preziosi (attinti ai santuari druidici?) e spiccata coscienza che tra i doveri del re c’è anche la liberale distribuzione di questi beni tra i sudditi, sensibilità all’adulazione e protezione accordata alla poesia (che peraltro rinvia di nuovo al rapporto privilegiato coi druidi, di cui i bardi erano una categoria): questa è l’immagine di un sovrano arverno a metà del II secolo, tre generazioni prima di Vercingetorige; se ne ricava un’impressione di barbarico fascino, che dovette perdurare nella memoria del popolo e suscitare negli animi più ambiziosi il sogno di farla rivivere.
Nel frattempo, infatti, il figlio di Luernio, Bituito, era stato chiamato dagli Allobrogi in aiuto contro Roma: cosciente dei suoi doveri di sovrano egemone, egli rispose alla chiamata e fu la fine del «primo impero arverno».
Roma coltivava speciali rapporti con la potente colonia greca di Marsiglia almeno sin dagli inizi del IV secolo, ma non si era affacciata in Gallia neanche dopo la II guerra punica perché impegnata dalla tenace resistenza delle tribù liguri; le legioni passarono le Alpi solo verso il 150 per soccorrere proprio Marsiglia, premuta dalla confederazione celtoligure dei Salii, e a questi anni devono risalire i primi, amichevoli rapporti con gli Edui (situati a nordest degli Arverni, intorno a Bibracte, l’odierna Autun), ben presto sfociati nella condizione di «amici ed alleati del popolo Romano» (amici et socii populi Romani); tra il 125 e il 121, in un’atmosfera di rinnovato espansionismo sostenuto dal movimento graccano, Cn. Domizio Enobarbo e Q. Fabio Massimo si incaricarono della sottomissione di tutto il territorio a sudest del Rodano: nel 121 fu istituita la provincia della Gallia Narbonense, nel 118 fu fondata appunto la colonia di Narbona e la via Domitia prese a collegare la nuova provincia con i possedimenti romani in Spagna. Su questo sfondo va collocato il nobile, ma incauto intervento di Bituito a sostegno degli Allobrogi (situati tra il Rodano e il lago di Ginevra), che a loro volta avevano dato rifugio al vinto re dei Salii e si erano rifiutati di consegnarlo ai Romani: alla confluenza tra l’Isère e il Rodano Enobarbo e Massimo inflissero al re arverno una pesante sconfitta e lo catturarono; Bituito seguì Q. Fabio Massimo l’«Allobrogico» nel suo trionfo romano e finì poi i suoi giorni in pacifico confino insieme coi figli ad Alba Longa. Egli aveva sperimentato la potenza di Roma, ma anche la sua mitezza verso i vinti: a Vercingetorige non sarebbe toccata la medesima sorte.

2. La rivalità con gli Edui

I vuoti di potere sono fatti per essere colmati: il crollo dell’egemonia arverna, che la sconfitta di Bituito rese inevitabile, corrispose all’ascesa degli Edui, che avevano scelto l’alleanza romana con apprezzabile lungimiranza e ora riscuotevano i dividendi di quell’oculato investimento. La nuova egemonia rimase però limitata (come, con ogni probabilità, anche quella arverna) alla Gallia centro-orientale: ad ovest ne rimasero fuori gli Aquitani e le popolazioni dell’Armorica (l’odierna Bretagna), riunite nella cosiddetta «talassocrazia venetica» (l’egemonia marittima esercitata dai Veneti sulle genti limitrofe), a nord, sulle due sponde della Manica, fiorì la potenza del re suessione Diviciaco, da oltre Reno una notevole mobilità etnica minacciava qualsiasi stabilizzazione del quadro politico gallico; lo dimostrò, verso la fine del II secolo, la migrazione dei Cimbri, dei Teutoni e di altre popolazioni celto-germaniche, che i Romani riuscirono a respingere con grande fatica, ma che rimase nel ricordo proprio degli Arverni, autori di una resistenza disperata, ma efficace contro questi temibili invasori. In questo panorama di incertezza l’unico fattore nuovo e imprescindibile restava la presenza romana, ormai istituzionalizzata nella forma della provincia della Gallia Narbonense e tale da stendere un’ombra protettiva, ma ingombrante sugli Edui stessi e, in genere, sulla Gallia ancora libera o Gallia Comata, così detta dall’abitudine celtica di portare lunghe chiome.
2. La rivalità con gli Edui
Il passaggio dall’egemonia arverna a quella edua segnò anche il passaggio da forme di governo monarchiche a forme di governo aristocratiche, esemplificate sul modello romano: mentre Luernio e Bituito erano re, all’epoca di Cesare, due generazioni dopo, le principali popolazioni galliche sono rette da consigli di aristocratici (che Cesare qualifica come equites, cavalieri) e l’istituto monarchico appare un’eccezionale sopravvivenza presso etnie minori; in particolare gli Edui, divenuti nel frattempo (forse nel 120 ca., in concomitanza con l’istituzione della provincia) da amici e alleati addirittura «fratelli del popolo Romano» (fratres populi Romani), eleggevano un vergobret, cioè un magistrato annuale con poteri civili, a cui poteva affiancarsi un comandante militare in caso di guerra; l’elezione del vergobret poteva avvenire in casi eccezionali per mezzo dei druidi, che continuavano a detenere un potere di controllo sulle magistrature, ma non godevano più del rapporto fisso e privilegiato col re e quindi avevano dovuto subire un ridimensionamento della loro influenza: quanto noi sappiamo con certezza degli Edui va con ogni probabilità esteso ad altri popoli gallici; molti dei nobili discendevano da famiglie, che un tempo avevano fornito re al proprio popolo, e non a caso mantenevano nel proprio nome il suffisso -rix: «re», come Vercingetorige, l’eduo Dumnorige, l’elvezio Orgetorige: essi erano comunque destinati ad occuparsi degli affari politico-militari, erano uomini di potere, che adattavano le tradizionali ambizioni della loro famiglia al nuovo contesto aristocratico.

3. Il padre di Vercingetorige

Tra questi aristocratici ambiziosi emerse nell’Arvernia decaduta della prima metà del I secolo a.C. Celtillo, il padre di Vercingetorige. A parte una scarna notizia di Plutarco nella Vita di Cesare, tutto quel che sappiamo di lui è racchiuso in brevi, ma dense righe della Guerra gallica di Cesare stesso (VII, 4): «il padre di Vercingetorige (appunto Celtillo) aveva ottenuto l’egemonia ...

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