Il giornalista
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Il giornalista

  1. 20 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il giornalista

Informazioni su questo libro

«Un mestiere finito. Dequalificato. Asservito: ai partiti, ai potentati economici, alla pubblicità. Burocratizzato. Senza più prestigio né credibilità. Malpagato.»«... si dice tra di noi che il primo consiglio da dare a un giovane che voglia fare il giornalista è di nascere figlio di giornalista, o figlio di un amico di un grande giornalista. Non sempre questo consiglio è seguìto, e qui cominciano i guai.»«... non sono sicura che non ci fossero brillanti giornalisti tra coloro che in tutti questi anni hanno bussato invano alla porta delle redazioni. Non sono sicura che abbiano vinto la corsa i migliori. E mi chiedo se questo lungo tirocinio, questa lunga attesa non selezionino negli aspiranti, anziché lo spirito critico e la passione per il mestiere, la tendenza al conformismo e l'accortezza a tacere.»Miriam Mafai

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Informazioni

Miriam Mafai. Il giornalista

I

Un mestiere finito. Dequalificato. Asservito: ai partiti, ai potentati economici, alla pubblicità. Burocratizzato. Senza più prestigio né credibilità. Malpagato.
«Ti ricordi i bei tempi?», sospirava qualche giorno fa un collega mio coetaneo. E raccontava: «Quando cenavamo nei migliori ristoranti di Roma, e si ballava fino a notte tarda. Cambiavamo macchina quando ne avevamo voglia e non eravamo obbligati ad andare in redazione. I nostri stipendi erano stipendi veri, da professionisti. Ora siamo pagati meno dei commessi della Camera; il mio fruttivendolo guadagna il doppio di me».
In quelli, che furono gli anni d’oro del giornalismo italiano, io non facevo la giornalista. Facevo il funzionario del Pci in una delle regioni più depresse d’Italia, l’Abruzzo. Per qualche anno, dal 1951 al 1956, fui anche assessore al comune di Pescara. Mi occupavo di assistenza, naturalmente: ai bambini, agli sfollati, ai senza tetto. Il mio ufficio distribuiva i «libretti di povertà» che davano diritto alle medicine, a un sussidio e, in occasione delle feste, a un pacco che conteneva zucchero, pasta, olio e, delle volte, giocattoli per i bambini.
In quegli anni un buon inviato – del «Corriere della Sera» o della «Stampa» o del «Messaggero» – guadagnava attorno alle 250.000 lire al mese. Io ne guadagnavo 20.000.
Per anni non ho avuto una domenica libera (andavo a fare comizi nei paesi della provincia); non esistevano vacanze né ferie per matrimonio o maternità. Mi sposai, all’Aquila, una mattina alle undici (al comune, naturalmente), e nel pomeriggio partecipai, con mio marito, a una riunione del Cornitato federale. Erano tempi difficili non solo per noi che facevamo politica nel Pci, ma per tutti o per lo meno per la stragrande maggioranza della gente. L’Abruzzo era una regione contadina, dove i braccianti lavoravano poche decine di giorni l’anno e i bambini piccoli venivano affittati come pastori. Si mangiava poco e male. Non c’erano frigoriferi né televisione. In campagna si faceva il pane una volta al mese, e si mangiava carne solo nei giorni di festa. Pescara era ancora semidistrutta dalla guerra. Roccaraso era un cumulo di macerie. Nessuno andava a sciare.
Leggevo solo «l’Unità», la mattina. Erano anni di lotte dure, di limpide contrapposizioni. I contadini erano contadini veri, laceri e affamati come nei quadri neorealisti e nella letteratura popolare. Noi eravamo al loro servizio, organizzavamo lotte per ottenere «pane e lavoro». I nostri nemici erano De Gasperi, Scelba, il principe Torlonia e l’America che preparava la Terza Guerra Mondiale. La polizia tentava sempre di sciogliere le manifestazioni e qualche volta sparava. Ma ottenemmo l’esproprio di Torlonia e la terra venne data ai contadini. Il fatto di essere dalla parte giusta mi riempiva d’orgoglio. Non avevo rimpianti, né per gli studi abbandonati alla soglia dell’università, né per Roma, la città dove ero cresciuta, né per la mia famiglia di intellettuali.
Ero insomma un «funzionario di partito» fedele, serio, disciplinato. Con una debolezza: ogni settimana comperavo e leggevo «L’Europeo». Lo conservavo persino. Non escludo che fosse, per me, una forma di evasione, una civetteria, uno snobismo. Una volta, in una riunione di partito, avendo espresso alcune cautissime riserve su una risoluzione del Comitato Centrale mi venne bruscamente rimproverato di essermi fatta influenzare, appunto, dall’«Europeo», un «rotocalco borghese».
Sono andata all’estero, per la prima volta, nel 1952. Dovevo partecipare, a Londra, ad una manifestazione internazionale per la pace in rappresentanza del movimento italiano. Partimmo, con Milla. Pastorino, in treno. Appena sbarcate in Inghilterra venimmo fermate, perquisite e respinte come «pericolose». Per la prima volta presi l’aereo l’anno successivo, per un viaggio premio che mi portava a Mosca. L’Urss non mi piacque: mi sentii a disagio per l’isolamento nel quale eravamo tenuti, per l’impossibilità di uscire soli per la strada, di fare una passeggiata e comperare e spedire una cartolina. Quando tornai a Pescara tirai un sospiro di sollievo.
Il XX Congresso mi sembrò un fatto positivo. Si chiudeva una fase di certezze catechistiche, si aprivano possibilità nuove di dubbi e di ricerca intellettuale dai quali pensavo che, come comunisti, saremmo usciti rafforzati. Non immaginavo che quell’evento avrebbe, indirettamente, cambiato molto della mia vita per una serie di circostanze assolutamente casuali. Mio marito venne richiamato da Pescara e destinato ad un lavoro internazionale: avrebbe dovuto trasferirsi a Parigi e tenere i collegamenti tra comunisti francesi e italiani. Decisi di andare anch’io con i bambini. Non avevo nessun incarico, ma pensai che qualcosa sarei riuscita, comunque, a fare.
Poco prima di partire incontrai Maria Antonietta Macciocchi, che allora dirigeva «Vie Nuove», un settimanale del Pci a larghissima diffusione. Avevo conosciuto Maria Antonietta nel 1943, quando Roma era occupata dai nazisti e noi facevamo parte della Resistenza: trasportavamo armi, distribuivamo stampa clandestina, organizzavamo manifestazioni di donne e facevamo scritte sui muri (Abbasso i nazisti! Viva Lenin! Viva l’Italia!). Una di quelle amicizie che, nate nell’adolescenza e nel pericolo, durano tenaci e un po’ strampalate nel tempo.
Così, per amicizia per caso per fortuna, nel 1957 venni nominata corrispondente da Parigi per «Vie Nuove».

II

Anch’io, dunque, come la maggioranza dei miei colleghi, sono entrata in un giornale perché «conoscevo qualcuno», e questa resta ancora – a tanti anni di distanza – la strada principale di accesso alla professione. Le porte dei giornali si aprono solo all’interno: è inutile bussare o dare spallate se non c’è qualcuno da dentro che socchiude almeno uno spiraglio.
Per questo si dice tra di noi che il primo consiglio da dare a un giovane che voglia fare il giornalista è di nascere figlio di giornalista, o figlio di un amico di un grande giornalista. Non sempre questo consiglio è seguìto, e qui cominciano i guai. Beniamino Placido sostiene, con ragione, che questa regola è contraddetta da un’altra legge non scritta, secondo la quale almeno il 50% dei posti disponibili deve essere riservata a giovanotti o ragazze che non siano figli di giornalisti e dei loro amici. Questa legge è dovuta alla preoccupazione dell’incesto, nasce dal bisogno di innesti di sangue nuovo che non appartenga alla famiglia.
Il guaio è che i posti di lavoro in questa professione non sono molti e se il 50% sono riservati ai nostri figli (o ai figli dei nostri amici) attorno agli altri ci sarà una concorrenza feroce. Tanto meglio, dicono alcuni, convinti che le difficoltà selezionano i migliori, temprano il carattere, scoraggiano quanti non siano divorati dalla vocazione.
I nostalgici – tutti coloro cioè che hanno più di 50 anni – ricordano con rimpianto quello che una volta si chiamava il «biondino di redazione». Era un giovanotto che essendo riuscito in qualche modo a sgusciare dentro, a furia di comperare le sigarette per i più vecchi, portare le agenzie, correggere le bozze, alla fine imparava il mestiere. A un certo punto infatti si metteva anche lui al tavolo e scriveva una notizia. Allora qualcuno gridava al miracolo, il «biondino» veniva assunto ed entrava a far parte della famiglia.
C’è del vero in questa favola che, basata sul riconoscimento del merito e della fatica individuale, è insieme triste ed edificante. L’unico «biondino» che ho conosciuto personalmente era un giovanotto bruno che, assunto come correttore di bozze a «Paese Sera», una volta finito il turno in tipografia si spostava come «volontario» in cronaca. Per anni si sobbarcò a un orario...

Indice dei contenuti

  1. Miriam Mafai. Il giornalista
  2. Della stessa autrice nelle edizioni Laterza