1.
Cancellare il lunedì
Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain
«Non siamo morti...
siamo soltanto diventati pirati».
Se siete umani, di sicuro avete avuto un’infanzia. Perciò, dovreste sapere di cosa parlo. Essere svegliati di mattina presto: qualcuno entra nella cameretta, spalanca di colpo le finestre e annuncia che è ora di alzarsi per andare a scuola. Esiste qualcosa di meno sopportabile? Così, uno dei piaceri che non tramontano con l’età adulta, è il sollievo di poter dormire ancora, quando nel dormiveglia ti ricordi che è domenica.
Di Tom Sawyer – il ragazzino protagonista del romanzo di Mark Twain – non ho mai dimenticato l’odio per i lunedì. Lo spirito «afflitto e desolato» con cui accoglie l’arrivo del primo giorno della settimana, il più brutto del calendario. Fosse stato per lui, l’avrebbe cancellato: «Anzi, avrebbe cancellato tutti i giorni feriali per lasciare spazio soltanto a quelli festivi». Non potendo farlo, escogita una serie di malesseri, utili a convincere la zia: «Mal di testa? Troppo comune, troppo sfruttato. Una bella indigestione? Già, adesso che ci pensava, non si sentiva forse un certo peso allo stomaco?».
Appena ho digitato la parola «escogita», mi sono sentito ripiombare nel lessico dei libri e dei fumetti della mia infanzia. La traduzione della copia delle Avventure di Tom Sawyer che avevo ereditato era fitta di espressioni che trovavo identiche nei fumetti. Un italiano di altri tempi, da «Corriere dei Piccoli»: «sgattaiolare», «alla chetichella», «brigante», «marachella». Marinare la scuola significava entrare di diritto nella folla colpevole degli scansafatiche. Leggere Twain era come un altro modo di leggere Pinocchio, ingiustamente edulcorato dalla versione Disney, o come togliere un po’ di retorica alle vicende di Cuore. Non riesco a ricordare se – chiudendo il romanzo di Edmondo De Amicis – fossi scoppiato a piangere per l’addio del buon Garrone ai compagni di scuola, o per essere riuscito a completare la lettura. Fatto è che sentivo Twain diverso, non mi faceva piangere, ma semmai sorridere – e c’era nelle sue pagine una freschezza, una libertà, un’ironia che sentivo addosso come l’aria frizzante delle prime mattine senza scuola.
Tom era come me. Io ero Tom. E per la prima volta mi sembrava di esistere anche fuori di me, da qualche altra parte. Mi pareva che Twain sapesse – nonostante un oceano, un secolo e più di distanza – qualcosa degli interminabili pomeriggi di vacanza, delle battaglie per gioco fra cugini, e che fosse al corrente anche di certi assalti, azzardi, «marachelle» – un bicchiere di pipì lanciato nel giardino dei vicini. Il compito estivo di Tom – verniciare lo steccato – somigliava terribilmente nella noia a quello affidato a me: tagliare le foglie più lunghe di una vite rampicante. Tom se ne libera affidando a quello che Twain e il suo traduttore italiano, entrambi un po’ colonialisti, chiamano il «negretto», «quieto ed ubbidiente», uno che ama il lavoro e non sogna avventure.
Nel romanzo di Twain, così come nelle mie giornate di ragazzino decenne, non accadeva molto di più. Ma il bello era questo: ritrovare in una storia altrui la mia, vedere fissati su carta i minuti, le ore e ciò che li riempiva – piccole e stupefacenti scoperte, incontri anche solo immaginari, o potenziali. Per esempio, per come ero fatto, non avrei mai azzardato la conoscenza di qualcuno dei ragazzacci, più grandi e spigliati di me, che giocavano a pallone fra le macchine parcheggiate su via Margotti. Fra loro, ne ero sicuro, c’era il tipo più burbero che somigliava a Huck, quell’Huckleberry Finn invidiato da tutti – tronfio, brusco, sicuro di sé. Tom, nel romanzo, gli domanda dove stia andando. Lui, un po’ sulle sue, risponde: «In giro». E intanto porta con sé «un gatto morto e stecchito». Gatti, circolavano anche dalle nostre parti, gatti soprattutto randagi, che mia nonna – una zia Polly più avanti con gli anni e meno severa – si occupava di sfamare. Erano, come spesso sono i felini di campagna, magri, scattanti, sospettosi. Non era raro che ci impegnassimo a braccarli, con fatica, o li inzuppassimo con secchi d’acqua, spinti da quello spiritello sadico tipico del branco di maschi imberbi.
Insomma, c’era proprio tutto, non mancava niente, nemmeno la bambina dai capelli biondi che prima o poi deve pur spuntare – come un miraggio, un indizio luminoso che si ritrae e che, in quel mondo a misura di «piccoli uomini», rinviava a quello parallelo delle «piccole donne». D’altra parte – benché non fosse stato regalato a me, ma a mia sorella – mi ero appropriato del romanzo di Louisa May Alcott e ne ero stato sedotto. Contemporaneo di quello di Twain, raccontava l’altra faccia delle stesse storie, delle stesse intemperanze. Adoravo quell’incipit – «Natale non può essere Natale, senza regali» – e adoravo che lo pronunciasse, anzi borbottasse Jo, quella che ama i libri. Lei non è la più bella, racconta Alcott: è mascolina, ha le braccia lunghe, sempre in movimento, un tratto che la fa assomigliare a «un puledro irrequieto». Avrebbe potuto essere un’ottima amica di Tom – se si potessero creare innesti, o passaggi sotterranei fra romanzo e romanzo.
Ad ogni modo, le piccole donne di Alcott, tanto quanto i piccoli uomini di Twain, fanno capire com’è essere vivi in «quell’ingrato periodo durante il quale da un adolescente comincia a spuntare» qualcos’altro, un mutante, un alieno – inesperto, curioso, ingestibile.
Il tema più astratto e più autentico di queste narrazioni formative è, in sostanza, lo stupore di stare al mondo, la meraviglia di essere vivi. Non è poco: l’isola del tesoro, in questi casi, è la vita stessa, tutti i giorni, lunedì compresi, in cui i sentimenti sono più grandi di noi. E se siamo tristi, lo siamo immensamente; se siamo allegri, lo siamo senza misura. Se immaginiamo, sogniamo, sentiamo, lo facciamo senza difese, senza risparmio. Nella solitudine, che talvolta pesa addosso come una zavorra, c’è il principio di ogni fuga, anche mancata, e di ogni ribellione. Anziché saltare oltre gli steccati e andarmene – quando, come accade a Tom, tutti quelli che ti stanno attorno appaiono «nemici o esseri del tutto estranei» –, io aprivo un libro e leggevo.
Le avventure di Tom Sawyer e Le avventure di Huckleberry Finn hanno, del cosiddetto libro per ragazzi, tutto il carico di avventure, brighe, scoperte, e muscoli tesi, paure e trionfi, giornate lunghissime, hanno tutto questo, unito a un disincanto quasi invisibile. Si può restare innocenti dopo l’infanzia del mondo? Si può restare innocenti dopo la propria infanzia?, si chiede Twain narrando di Tom e di Huck, di zia Polly e di Sid, di Joe il pellerossa e di Becky Thatcher. Senza l’estrema Neverland di Peter Pan, e accettando perciò di crescere, si può non crescere del tutto, non fino in fondo? Quando scappano via da St. Petersburg, Tom e soci a cosa intendono sottrarsi? È solo smania lucignolesca di non farsi irretire dai doveri scolastici e domestici? Lo sguardo di Twain sulle azioni sconsiderate delle sue creature romanzesche rivela l’insofferenza nei confronti di obblighi, doveri, regole, verità rivelate dai benpensanti, luoghi comuni. L’autore onnisciente, che ironicamente si definisce «grande e saggio filosofo», lascia l’intera scena a «birichinate» eroiche.
Se il primo comandamento, quasi proverbiale, è non mangiare marmellata quando non autorizzati, la storia deve cominciare da lì. E se zia Polly chiede con costanza aiuto al Cielo, sarà bene che Tom insceni una finta morte e conseguente resurrezione. Il ritratto del bandito da giovane è un inventario di pasticci, trovate, eterni temi del libro d’avventura. Gattacci morti, verruche, acqua piovana raccolta nei ceppi, fagioli, diavoli che non vanno in giro di domenica, topi morti da legare a uno spago per farli girare sopra la testa, streghe e nascondigli nel cimitero, case infestate dai fantasmi, tesori nascosti da qualche parte, fughe in notti buie e tempestose, medicine scacciadolori. Il bistrattato e inarginabile Tom, una volta creduto morto, diventa incredibilmente un bravo ragazzo: i parenti lo piangono con il rimorso di essere stati «ostinatamente ciechi di fronte a tanta virtù». Ma Tom e soci risorgono. «Non siamo morti... siamo soltanto diventati pirati». Allora tutto ricomincia. Con zia Polly che intima: «Tom, ho l’impressione che dovrei scuoiarti vivo».
Il ragazzino – si è detto – odia i lunedì (a differenza degli esistenzialisti, che odieranno la domenica), odia imbiancare la staccionata; rinuncia a guerre e pirateria soltanto quando si ammala d’amore per l’Adorabile Sconosciuta Becky Thatcher. Imparerà mai qualcosa? Forse ha imparato tutto. «Tom, come hai potuto essere così nobile?», gli domanda addirittura la piccola Becky.
Tom Sawyer mantiene memoria delle stelle prima che colino a picco. E Mark Twain con i suoi personaggi, quasi ossessionato (si può parlare di ossessione felice?) dal tema dell’innocenza: «del passato, dell’individuo, dell’America»; diviso tra disillusione e fiducia, tra ironia e tenerezza.
Imprendibile Twain! La storia di quello che Hemingway ha definito l’iniziatore della letteratura americana comincia con un nome che non è il suo. Samuel Langhorne Clemens, prima di compiere trent’anni, diventa Mark Twain («Marca due!, il grido del battelliere che misura la profondità delle acque») – ed è una vita tutta nuova e inventata. Prima di ogni altro personaggio, si impegna a costruire il personaggio-scrittore, il personaggio di sé stesso, senza mai interrompere il rapporto con il ragazzo Samuel che era stato. Meglio: in forza di quel ragazzo. E del grande fiume dell’infanzia e dell’adolescenza: il Mississippi, che spaventa nelle notti senza stelle («le rive sembrano tutte linee rette, allora, e anche maledettamente vaghe») e di giorno è il mito e l’inizio di ogni avventura. Nato nel 1835 da un padre avvocato che lo lascerà presto orfano, il poco più che ventenne Clemens-non ancora Twain – cresciuto a Hannibal, Missouri – diventa pilota sui battelli del suo Mississippi. Già era stato apprendista tipografo; in seguito, si arruolerà volontario nelle file sudiste della Guerra Civile, sarà minatore, cercatore d’oro, giornalista e scrittore umorista dai mille eteronimi.
Nel destino di Twain c’è molta acqua – di fiume, di mare – e molti chilometri di viaggio. Le linee dei suoi spostamenti sono un giro del mondo, o almeno di mezzo. Sessantenne, in pessime condizioni economiche (un enorme debito per un investimento sbagliato su una macchina tipografica «rivoluzionaria»), sale su un piroscafo «following the Equator», seguendo l’Equatore – «un nastro blu teso sull’oceano» – per sostare qua e là nelle terre dell’impero britannico come conferenziere. Il signore con i grandi baffi a manubrio e i capelli bianchi arruffati annota tutto, del multiforme spettacolo terrestre: pesci volanti, eclissi di luna, cammelli, nomi di costellazioni, di isole e di città, masse di conigli di un «blu incandescente», corvi indiani, curiosi effetti di nuvole, matrimoni indù con incantatori di serpenti, giardini botanici e canguri, la vista di Sidney (a forma «di foglia di quercia»), temperature e soffi di vento. Ma di quante cose è fatto il vasto mondo!
«Il nostro viaggio – scrive Twain nel 1897 – ebbe fine al molo di Southampton, dove ci eravamo imbarcati tredici mesi prima. Pareva una gran bella cosa quella che avevamo fatto – circumnavigare questo immenso globo in un così breve tempo, e dentro di me ne fui fiero. Per un istante. Poi giunse dai tizi dell’Osservatorio una di quelle notizie astronomiche ammazza-vanità, dalla quale risultava che un altro gigantesco corpo luminoso si era di recente acceso nello spazio profondo, e viaggiava a una velocità che gli avrebbe consentito di fare tutta la strada che avevo fatto in un minuto e mezzo. L’orgoglio umano è vano; c’è sempre qualcosa che lo aspetta al varco, pronto a fargli abbassare la cresta».
Ma questa lezione, prima di mettersi a girare il mondo, forse Twain già la conosceva. Molte sue storie sono scritte a ridosso di questa verità. Perciò, benché abile nel gestire al meglio la propria immagine di uomo di successo, è uno scrittore che non si prende mai troppo sul serio. Come quando racconta del suo rapporto con il Mark Twain Club, fondato in suo onore presso il castello di Corrigan, Irlanda. Il nobile distintivo, le fotografie, i trentadue membri, le relazioni, la fitta corrispondenza. «Me la cavai passabilmente per il primo anno; ma per i successivi quattro anni il Mark Twain Club fu la mia maledizione, il mio incubo... Ero così stufo, così stufo... Davo alle fiamme i grossi plichi del segretario appena mi venivano recapitati, e di lì a poco smisero di arrivare». Salvo scoprire, in un viaggio in Australia, che il Mark Twain Club non era mai esistito, e non erano mai esistiti i trentadue membri e nemmeno il castello di Corrigan. Un’unica persona – la chiama «signor Incognito» – aveva inventato tutto. Ed era stato, dice Twain, «il più ingenuo e laborioso e allegro e accurato scherzo di cui fossi mai stato testimone. E mi piaceva; mi piaceva stare a sentirlo mentre lo raccontava; anche se odio gli scherzi da che sono al mondo». Uno scherzo degno di Tom Sawyer: con tutto l’estro e la buffoneria che farebbero saltare i nervi a zia Polly. A tutte le inutili e indispensabili, ottuse e straordinarie zie Polly che ci capita di incontrare – o di essere.
Altre storie
Cuccagna. Amo il dialogo fra Pinocchio e il suo amico Romeo detto Lucignolo, nelle Avventure di Pinocchio di Carlo Collodi. Quando Lucignolo dice a Pinocchio di non preoccuparsi delle sgridate della Fata e di saltare sul carro «che ci deve prendere e condurre fin dentro ai confini di quel fortunatissimo paese». Non ci sono scuole né maestri, non c’è l’obbligo di studiare. «Quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di Paese dei Balocchi»: là i più vecchi hanno quattordici anni; branchi di monelli dappertutto, chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi su un cavallino di legno, chi recitava, chi cantava, chi rideva, chi urlava, chi si divertiva a camminare con le mani in terra. «Altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa».
Orologi. Amo la corsa del Coniglio Bianco, «splendidamente vestito» e con un paio di guanti bianchi in mano, nel secondo capitolo di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Il sorso dalla boccetta che fa crescere Alice a dismisura e il morso al pasticcino che la rimpicciolisce. Il tavolo a cui prendono il tè la Lepre di Marzo e il Cappellaio, con il suo orologio inceppato dalle molliche di pane. La Lepre di Marzo lo afferra e lo intinge nella tazza da tè. Poi il Cappellaio spiega ad Alice che il tempo non ama essere battuto: «Se tu fossi in buone relazioni con lui, farebbe dell’orologio ciò che tu vuoi. Per esempio, supponi che siano le nove, l’ora delle lezioni, basterebbe che gli dicessi una parolina all’orecchio, e in un lampo la lancetta andrebbe innanzi! Mezzogiorno, l’ora del desinare!».
Treni. Amo la nuvola di fumo che la locomotiva scarlatta sputa, nella stazione di King’s Cross, Londra: si alza in grossi anelli sopra la testa della folla rumorosa, mentre gatti di ogni colore si aggirano tra le gambe della gente, gufi e civette si chiamano fra loro facendo un verso cupo. E Harry finalmente vede il cartello con scritto «Espresso per Hogwarts ore 11». Su un arco in ferro battuto è segnato «Binario Nove e Tre quarti», nel capitolo 6 di Harry Potter e la pietra filosofale di J.K. Rowling.