«Ottimo atterraggio.»
Dette queste parole, l’uomo distolse lo sguardo dal pilota, che ancora indossava la tuta spaziale e aveva l’elmetto sotto il braccio. La sala di controllo in cui si trovavano in quel momento aveva pianta circolare e in mezzo a essa c’era la console di comando, a ferro di cavallo. L’uomo si diresse all’ampia parete di vetro, e da lì osservò a lungo la nave, la cui sagoma cilindrica appariva enorme anche da quella distanza. Il suo occhio si soffermò oziosamente sugli ugelli di scarico anneriti e sul liquido scuro che ancora fuoriusciva da uno di essi, per riversarsi sul cemento della pista.
L’altro controllore di volo, un uomo dalle spalle enormi, con un berretto basco piuttosto stretto e la testa calva, schiacciò il pulsante che riavvolgeva il nastro magnetico. Come un uccello, senza battere le ciglia, guardò con la coda dell’occhio il nuovo venuto. Aveva ancora la cuffia auricolare e stava di fronte a un banco di teleschermi accesi.
«Ce l’abbiamo fatta…» rispose il pilota. Fingendo di doversi togliere i doppi guanti, si appoggiò all’angolo della console. Dopo un atterraggio come quello, gli tremavano ancora le ginocchia per la reazione nervosa.
«Cos’è successo?» chiese il più piccolo dei due controllori, quello che aveva parlato per primo e che ora stava vicino alla parete di vetro. Indossava una vecchia giacca di cuoio, aveva un’aria da topo e la barba lunga; ora cominciò a frugarsi nelle tasche, alla ricerca delle sigarette.
«Un’irregolarità nella spinta» mormorò il pilota, un po’ sorpreso dalla freddezza dell’accoglienza.
L’uomo accanto alla vetrata era riuscito a recuperare una sigaretta. Accendendola, chiese, in mezzo a una nuvola di fumo:
«E il motivo, non lo sapete?»
“No” avrebbe voluto rispondere il pilota, ma invece rimase in silenzio, perché l’altro aveva ragione: lui avrebbe dovuto saperlo. Intanto il nastro giunse alla fine e la bobina prese a girare a vuoto. L’altro controllore si alzò in piedi e si sfilò la cuffia. Solo ora rivolse un cenno di saluto al pilota e disse con voce roca:
«Sono London. Lui è Goss. Benvenuto su Titano. Volete bere qualcosa? Abbiamo caffè e whisky.»
Il giovane pilota inarcò le sopracciglia per la sorpresa. Conosceva quei due uomini per nome, ma non li aveva mai visti in precedenza e aveva supposto, per nessun motivo in particolare, che il più imponente fosse il capo, mentre invece era proprio l’opposto. Ancora leggermente perplesso da quell’errore di valutazione, chiese una tazza di caffè.
«Che carico avete a bordo? Punte di widia?» chiese London, quando si furono accomodati tutti e tre a un tavolino che sporgeva dalla parete. Il caffè fumante venne servito in contenitori che in origine dovevano essere stati matracci da laboratorio di chimica.
Insieme con il caffè, Goss mandò giù una compressa gialla, sospirò, tossì e si soffiò il naso fino a farsi venire le lacrime agli occhi.
«E avete portato anche dei radiatori, vero?» chiese poi al pilota.
Questi, che si aspettava di sentirsi chiedere particolari sulla discesa, si limitò ad annuire. Non capitava ogni giorno che un motore andasse in panne in pieno atterraggio. Non pensava al carico, ma alla manovra eseguita: invece di aumentare il getto o di dare più potenza ai motori, aveva immediatamente staccato il pilota automatico ed era sceso servendosi soltanto dei razzi chimici: un trucco che, fino a quel momento, aveva provato solo nel simulatore, molto tempo prima. Per poter rispondere a Goss, dovette riflettere per qualche istante.
«Sì, ho portato anche dei radiatori» disse infine. La frase gli piacque: una frase laconica, da uomo avvezzo al pericolo.
«Ma non allo scalo giusto» sorrise il piccoletto.
Il pilota non capì il tono di quelle parole.
«Cosa volete dire?» chiese. «Sono sceso qui… cioè, mi avete chiamato voi» si corresse.
«Abbiamo dovuto farlo.»
«Non capisco.»
«Eravate diretto a Graal.»
«Allora, perché mi avete fatto cambiare rotta?»
Cominciava a salirgli la mosca al naso. La chiamata che aveva ricevuto per radio aveva i toni della massima urgenza. E ricordava che, mentre decelerava, aveva udito un annuncio radio da Graal, in cui si accennava a qualche incidente: a causa dei disturbi non era riuscito a capire con esattezza. In quel momento, nel fare rotta per Titano, stava passando nei pressi di Saturno e approfittava della gravità del pianeta per decelerare senza spreco di carburante: la nave era nella magnetosfera del pianeta gigante e tutte le lunghezze d’onda erano piene di disturbi.
Non appena era uscito dalla zona disturbata, aveva ricevuto la chiamata da quello spazioporto secondario e, poiché i piloti dovevano eseguire gli ordini dei controllori di volo, si era affrettato a scendere. E adesso che era arrivato, prima ancora di potersi sfilare la tuta, si era trovato sotto esame da parte di quei due. Mentalmente si sentiva ancora nella cabina, con le cinghie che gli incidevano le spalle e il petto, con il rumore dei razzi che faceva tremare l’intera nave, mentre la nave toccava la pista.
«Dove sarei dovuto scendere?»
«Il vostro carico è atteso a Graal» spiegò l’uomo accanto alla vetrata, soffiandosi il naso. Era raffreddato. «Ma noi vi abbiamo intercettato mentre eravate in orbita e vi abbiamo fatto scendere qui perché abbiamo bisogno di Killian. Il vostro passeggero.»
«Killian?» esclamò il giovane pilota, sorpreso. «Non è a bordo. Oltre a me, sulla nave c’è solo Sinko, il secondo pilota.»
Gli altri rimasero esterrefatti.
«Dov’è Killian?»
«A quest’ora, sarà arrivato a Montréal. Sua moglie doveva partorire. È volato via con una navetta, prima che partissi.»
«Da Marte?»
«Certo. Perché, cos’è successo?»
«Il disordine regna ovunque, così in cielo come sulla Terra» commentò London. Prese a cacciare tabacco nel fornello della pipa, come se intendesse farlo scoppiare. Era piuttosto irritato. Lo era anche il pilota.
«Avreste dovuto chiedere.»
«Eravamo certi della sua presenza sulla nave. Lo affermava anche l’ultimo radiogramma.» Goss tornò a soffiarsi il naso e sospirò. «In ogni caso» disse poi «voi non potete ripartire. E Marlin ha bisogno di quei radiatori. Adesso darà la colpa a me.»
«Sono là dentro» indicò il pilota, con un cenno della testa. In mezzo alla nebbia si scorgeva il fuso scuro e sottile della nave. «Sei, credo. Due con potenza dell’ordine del megawatt. Capaci di dissolvere qualsiasi nebbia.»
«Non posso mettermeli sulla schiena e portarli a Marlin» ribatté Goss, la cui ironia diventava sempre più pesante.
L’indifferenza e l’irresponsabilità di quegli uomini, che l’avevano intercettato dopo tre settimane di volo senza controllare se la persona che cercavano fosse ancora a bordo, erano estremamente irritanti per il pilota. Non disse che il carico era un problema loro. Finché la sua nave non fosse stata riparata, lui non avrebbe potuto fare niente, nemmeno con le migliori intenzioni. Tacque.
«Voi rimarrete con noi, naturalmente.» Dette queste parole, London terminò il caffè e si alzò. Era un uomo di corporatura enorme, come un peso massimo della lotta libera. Si recò alla vetrata. Il paesaggio di Titano, una furia senza vita di montagne avvolte in un rosso crepuscolo, con la cima coperta da nubi color bronzo, costituiva una perfetta cornice per la sua figura.
Il pavimento della sala tremava leggermente. Un convertitore guasto, pensò il pilota. Anche lui si alzò per andare a osservare la nave che, come un faro in mezzo all’oceano, s’innalzava nella nebbia bassa. Un soffio di vento disperse per un istante i mulinelli di vapore: il giovane notò che i segni di riscaldamento, sugli ugelli, non erano più visibili, forse a causa della distanza e della penombra. O forse perché ormai si erano raffreddati.
«Avete una sonda per schermi gamma?» chiese.
La nave, per lui, era più importante dei guai personali dei due controllori. Erano stati loro, del resto, a tirarseli addosso.
«Sì, ma non permetto a nessuno di avvicinarsi alla nave con una semplice tuta» disse Goss.
«Voi pensate che sia stata la pila?» chiese il pilota.
«Voi no?»
Il piccolo direttore si alzò e andò a riscaldarsi alle ventole dell’aria calda, sotto la vetrata.
«La temperatura è effettivamente salita al di sopra del normale, durante la discesa» disse il pilota «ma i geiger non si sono mossi. Probabilmente si è solo rotto un ugello. Dalla camera di combustione si deve essere staccata una parte del rivestimento ceramico. Ho avuto l’impressione di scaricare qualcosa.»
«Il rivestimento, certo, ma ci deve essere stata anche una perdita» disse Goss, con assoluta certezza. «La ceramica non fonde.»
«Quelle macchie?» chiese il pilota, sorpreso. Intanto, anche lui si era avvicinato alla vetrata. Sotto gli ammortizzatori c’era una pozzanghera scura. Davanti alla nave passavano strisce intermittenti di nebbia.
«Cosa avete nella pila: acqua pesante o sodio?» chiese London. Superava il pilota di tutta la testa.
Dalla radio giunse una serie di crepitii. Goss corse a infilarsi una cuffia e cominciò a parlare con qualcuno.
«Non può essere la pila…» rifletté il pilota. «Ho acqua pesante. La soluzione è pura, mentre quelle macchie sono nere come il catrame.»
«Allora è fuoriuscito il refrigerante dei getti» annuì London. «È stato questo a rompere il rivestimento ceramico.»
Quell’uomo pensava solo alla pila. Il fatto che l’incidente avesse inchiodato pilota e carico, per chissà quanti giorni, in quello spazioporto isolato, non pareva avere alcuna importanza per lui.
«Sì» disse il giovane. «Nei condotti, durante la decelerazione, la pressione è massima. Se la ceramica si rompe in un punto, lo scarico spazza via la parte che resta. Tutto è uscito dal getto di tribordo.»
London non fece commenti.
Il pilota continuò, con una certa esitazione:
«Ho l’impressione di essere sceso un po’ troppo vicino alle costruzioni…»
«Sciocchezze. È stata una fortuna che non vi siate rovesciato.»
Il pilota restò in attesa di altre frasi come quella, che potevano anche passare per un complimento, ma London si voltò verso di lui e lo squadrò da capo a piedi: dalla cima dei capelli biondi alla suola degli stivali.
«Domani manderò un tecnico con un rilevatore di difetti» disse. E subito aggiunse: «Avete messo la pila sul “neutro”?».
«No, l’ho spenta. Come in bacino di carenaggio.»
«Meglio ancora.»
Il pilota capì che a nessuno interessava la sua lotta per fare atterrare la nave. Il caffè era buono… ma i suoi ospiti non avrebbero dovuto fornirgli anche una camera e un bagno? Non vedeva l’ora di fare una doccia calda. Goss continuava a parlare al microfono e London era curvo su di lui. La situazione era poco chiara, ma pareva carica di tensione. Il pilota cominciava a sospettare che quei due avessero per la testa qualcosa di molto più importante della sua avventura: qualcosa che riguardava anche Graal.
In volo aveva colto qualche accenno: macchine che non erano ancora arrivate, ricerche in corso.
Goss si girò verso di lui; nel farlo, la corda si tese e la cuffia gli si sfilò dalle orecchie.
«Dov’è quel tale che avete detto, Sinko?»
«A bordo. Gli ho ordinato di controllare il reattore.»
London rivolse un’occhiata interrogativa al suo superiore.
Questi scosse la testa e brontolò: «Ancora niente».
«E gli elicotteri?»
«Sono rientrati alla base. Visibilità zero.»
«Ti sei informato sul massimo peso trasportabile?»
«Non possono fare niente.» Si rivolse al pilota, che stava ascoltando: «Quanto pesa un radiatore da un megawatt?».
«Non saprei, esattamente. Meno di cento tonnellate.»
«Cosa fanno?» insistette London. «Cosa stanno aspettando?»
«Aspettano Killian…» rispose Goss, imprecando.
Da un armadietto della parete, London prese una bottiglia di White Horse, la scosse come per accertarsi se era adatta alla situazione, poi tornò a posarla sullo scaffale. Il pilota non si mosse, in attesa degli eventi. Non avvertiva più il peso della tuta.
«Abbiamo perso due uomini» spiegò Goss. «Non sono mai giunti a Graal.»
«Tre, non due» lo corresse London.
«Un mese fa» proseguì Goss «abbiamo ricevuto sette nuovi Diglas, per Graal. La nave non è potuta scendere laggiù; hanno rifatto le piste e, quando è arrivata la prima nave da carico… l’Achilles, centomila tonnellate… la nuova gettata di cemento, garantita dai tecnici governativi, si è fessurata. Per fortuna, la nave non è caduta a terra; l’hanno tirata fuori ed è rimasta in carenaggio per due giorni.
«Hanno riparato il cemento alla bell’e meglio, hanno steso una copertura ignifuga e hanno riaperto la pista. Ma, intanto, i Diglas erano stati scaricati da noi, e sono ancora qui. Gli esperti hanno detto che trasportarli per nave costava troppo. D’altra parte, il capitano dell’Achilles è Ter Leoni. Non è certo disposto a muovere una nave da centomila tonnellate da Graal a qui, e ritorno, quattrocento chilometri in tutto, per un carico così piccolo.
«Allora, Marlin ci ha mandato due dei suoi migliori guidatori: sono arrivati l’altra settimana, hanno preso due macchine, sono partiti e sono arrivati felicemente. Poi, l’altro ieri, gli stessi due uomini sono ritornati con l’elicottero, per prendere altri due Diglas. Sono partiti all’alba e a mezzogiorno erano già al Promontorio; a quel punto abbiamo perso il contatto. È passato molto tempo prima che dessimo l’allarme, perché, dopo il Promontorio, è la stessa Graal a dare la direzione. Noi pensavamo che non rispondessero perché erano nella nostra ombra radio.»
Goss parlava senza enfasi. London era accanto alla vetrata e girava loro le spalle. Il pilota ascoltava senza parlare.
«Nello stesso elicottero» proseguì Goss «insieme con i guidatori era venuto anche Pirx. Era sceso a Graal con il suo Cuivier e desiderava vedermi. Ci conosciamo da anni. L’elicottero doveva passare a riprenderlo quella sera stessa, ma non arrivò mai, perché Marlin aveva assegnato alla ricerca tutti i mezzi disponibili.
«Pirx non poteva aspettare: doveva partire il giorno seguente. Mi chiese di prendere uno dei Diglas per ritornare a Graal. Io gli feci giurare di fare la strada a sud, che è più lunga ma che gira attorno alla Depressione. Lui mi ha dato la sua parola… e non l’ha mantenuta. Dal consat l’ho visto: si è diretto proprio laggiù.»
«Il consat?» chiese il pilota. Era pallido e sudato.
«Il satellite di controllo. Passa ogni otto ore. Mi ha dato un’immagine molto chiara. Pirx è sceso nella Depressione e non è più ricomparso.»
«Il comandante Pirx?» chiese il pilota, con tono preoccupato.
«Sì. Lo conoscete?»
«Se lo conosco!» esclamò il pilota. «Ho fatto con lui le mie esercitazioni dal vivo. Ha messo la firma sul mio diploma… Pirx? Per tanto tempo è riuscito a uscire dalle situazioni più…»
S’interruppe. Sentiva nelle orecchie una pulsazione sorda. Sollevò con entrambe le mani l’elmetto, come se desiderasse scagliarlo contro Goss.
«Allora, gli avete permesso di allontanarsi da solo sul Diglas? Come avete potuto farlo? Quell’uomo è un pilota spaziale, non un camionista!»
«Pirx guidava già quel genere di macchine quando voi camminavate ancora a quattro zampe» rispose Goss, col tono di chi sente il bisogno di difendersi. London, con la faccia impassibile, si avvicinò alla console. Prese la pipa, la svuotò in un portacenere d’alluminio e si mise a esaminarla attentamente, come se non l’avesse m...