Il lungo nastro rosso
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Il lungo nastro rosso

  1. 406 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il lungo nastro rosso

Informazioni su questo libro

Loung ha solo dieci anni quando, al termine di un'estenuante odissea, arriva negli Stati Uniti. Per lei, fuggita dalla criminale follia del regime sanguinario dei Khmer Rossi, libertà è avere uno spazio minuscolo tutto per sé, lenzuola divertenti con buffi topi e strani paperi, e cose buone da mangiare, dopo le radici divorate per placare la fame perenne. Ha mille nuovi significati la libertà, anche una ciotola piena di nastri per i capelli, tanti, colorati. Nei campi di lavoro forzato dove è stata rinchiusa a soli cinque anni, e in quello di addestramento dove è diventata una bambina soldato, i colori erano proibiti, e così ogni abito che non fosse la divisa nera. Volersi distinguere era segno di vanità, e come tale punito a bastonate. Per questo affondare le dita in quei nastri le strappa un sorriso di vittoria, insieme a un moto di nostalgia per l'amata sorella Chou, rimasta in Cambogia: non c'erano i soldi per far partire anche lei. Il distacco è stato lacerante, un nuovo dolore che si è aggiunto a quello infinito per la morte di mamma, di papà, di due dei sei fratelli.
Per anni Loung e Chou vivono vite parallele. Una alle prese con una nuova patria in cui inserirsi, schiacciata dai sensi di colpa per avere avuto quella fortuna, e per non sapersela godere fino in fondo. L'altra in Cambogia, ad affrontare la povertà, la lotta per la sopravvivenza quotidiana, la promessa di un domani migliore che non arriva mai. Quindici anni dopo, Loung decide di seguire il lungo nastro rosso e di tornare a casa. Dall'incontro di due solitudini nasce una memoir intensa, commovente, e lo straordinario racconto di una delle grandi follie del nostro tempo.

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Informazioni

Print ISBN
9788838489181
eBook ISBN
9788858502297

PARTE PRIMA

MONDI LONTANI

Capitolo Uno

BENVENUTI IN AMERICA

10 giugno 1980
La mia eccitazione è tale che mi agito sul sedile come se avessi uno sciame di insetti nei pantaloni. Stiamo volando oltreoceano per andare a vivere in una nuova casa, in America, dopo aver trascorso due mesi in Vietnam, in una house boat, e altri sei in un campo profughi in Thailandia.
«Dobbiamo fare una buona impressione, Loung, e dunque pettinati e lavati la faccia» mi ordina Eang, mentre il rombo dei motori dell’aereo copre la sua voce. «Non dobbiamo avere l’aspetto di chi è appena sceso dal barcone.»
Il suo viso si accosta al mio e le sue unghie cercano affannosamente di staccare le cisposità che si sono rapprese alle estremità delle mie palpebre.
«Smettila, mi strappi via le ciglia! Mi laverò il viso da sola prima che tu mi accechi.»
Afferro il panno umido che Eang tiene in mano e mi affretto a lavarmi il viso. Poi giro il panno e, utilizzandone il lato pulito, me lo passo sui capelli: Eang mi osserva con palese disapprovazione. Ignorando il suo sguardo critico, appallottolo il panno e lo strofino sulla parte esterna dei denti.
«Fatto, pulita» esclamo con aria innocente.
«In borsa ho il tuo spazzolino da denti!» il tono di voce non nasconde la sua collera.
«Non c’era tempo... e avevi detto che dovevo sembrare pulita.»
«Uhm.»
Eang è mia cognata da un anno e in linea di massima non ho nulla contro di lei, se si esclude che non sopporto che mi dica che cosa devo o non devo fare. Sfortunatamente però è proprio quello che Eang ritiene sia suo dovere, spesso e volentieri per giunta, per cui non smettiamo mai di litigare. E quando litighiamo facciamo un gran chiasso, proprio come due scimmie, tanto che mio fratello Meng è costretto a intervenire ordinandoci di tacere. Dopo il suo intervento, di solito mi allontano imbronciata e mi nascondo dove capita per smaltire la rabbia che mi deriva dal fatto che Meng si schiera invariabilmente con la moglie. Dal mio nascondiglio sento che Eang gli fa osservare che hanno il dovere di educarmi e di pretendere che io capisca chi comanda, se non vogliono rischiare che io “cresca male”. Inizialmente non capivo bene che cosa intendessero con “crescere male”. A dire il vero, pensavo che il rischio si riferisse al diventare storpia o gobba, come un vecchio albero, e mi immaginavo con gambe e braccia contorte, magari con artigli al posto delle dita di mani e piedi. E mi vedevo inseguire Eang e le persone che mi stavano antipatiche, pronta a conficcare gli artigli nella loro schiena.
Sarebbe stato estremamente divertente; purtroppo però Eang era intenzionata a farmi “crescere bene”.
Perché Loung cresca bene, sostiene Eang, è indispensabile che entrambi facciano di tutto per eliminare il maschiaccio che è in me e per insegnarmi le buone maniere, ovvero non contraddire gli adulti, non urlare, non correre, non fare a botte, non mangiare con la bocca aperta, non comportarsi come un maschio, non dare confidenza ai coetanei di sesso maschile, non ridere rumorosamente, non sedere a gambe incrociate come un Budda, non dormire con le gambe divaricate... e via dicendo. Ed ecco quali sono i comportamenti che una ragazza ammodo dovrebbe tenere: sedere composta e in silenzio, occuparsi delle pulizie della casa, cucinare, cucire e badare ai bambini – tutte cose che non ho alcuna intenzione di fare.
Devo ammettere che il mio risentimento nei confronti di Eang non sarebbe così forte se lei stessa seguisse i comportamenti che pretende di imporre a me. A ventiquattro anni, Eang ha un anno in più di Meng, cosa che, nel nostro villaggio in Cambogia, creò un certo scalpore quando, dodici mesi fa, si sposarono. A peggiorare la situazione si aggiunga che Eang è molto energica e non usa mezze parole. Pur essendo ancora una bambina, avevo già notato come nel villaggio molte ragazze si mostrassero docili, leziose e timide come pulcini indifesi fino al giorno del matrimonio. Una volta sposate, si trasformavano in chiocce risolute, sempre pronte a beccare e a usare gli artigli, soprattutto quando si trattava di “marcare” il proprio territorio e proteggere i propri piccoli.
Quanto a Eang, con la sua risolutezza e determinazione non assomigliava in nulla alle altre ragazze da marito. Come se non bastasse, la gente del villaggio spettegolava sostenendo che Meng avrebbe dovuto sposare una ragazza giovane che gli desse molti figli, non una donna ormai in «età avanzata» – secondo gli standard cambogiani, ovviamente – una zitella come Eang, troppo vecchia per Meng, un uomo prestante, istruito e di buona famiglia.
Senza curarsi troppo dell’opinione degli abitanti del villaggio, gli zii e le zie non esitarono a combinare il matrimonio. Meng aveva bisogno di una moglie che lo aiutasse a prendersi cura dei suoi fratelli ed Eang aveva bisogno di un marito che la aiutasse a sopravvivere alla caotica situazione creatasi in Cambogia all’indomani della fine della guerra, che aveva visto la sconfitta dei Khmer Rossi, una Cambogia in cui la povertà si accompagnava a un crescente banditismo. Tuttavia, pur essendo questi i motivi per cui si sono sposati, credo che si amino. Come i due lati del simbolo ying e yang, insieme formano un cerchio perfetto: mentre Meng è solitamente silenzioso e riservato, Eang lo fa ridere e scherzare. E quando Eang si mostra troppo emotiva ed eccitabile, Meng la aiuta a ritrovare calma ed equilibrio.
«Grazie per il panno» dico restituendolo a Eang, non senza dimenticare di accompagnare le mie parole con un sorriso.
«Hai visto che cosa ha fatto, Meng?» esclama Eang con disgusto, piegando il panno umido e riponendolo nella borsa.
Meng, seduto in silenzio accanto a me, estrae una camicia bianca da un sacchetto di plastica e la porge a sua moglie. La camicia appare di un bianco scintillante nelle mani di Eang. Quando aveva saputo che saremmo partiti per l’America, Meng aveva infatti raggranellato tutto il denaro di cui disponevamo e aveva comprato una camicia bianca per ciascuno di noi. Voleva che, all’arrivo in America, ci presentassimo «lindi e ordinati» nonostante la magrezza e i capelli mal tagliati. Eang aveva dunque custodito le camicie in un sacchetto di plastica perché si mantenessero pulite e stirate per un’occasione tanto speciale.
A ventitré anni, Meng ha un’espressione tetra che lo fa apparire molto più vecchio. Il Meng di prima della guerra era gentile, sorridente e scanzonato. Questo nuovo Meng sembra invece aver lasciato il suo senso dell’umorismo in Cambogia nel momento in cui abbiamo salutato Chou, Khouy e Kim, nove mesi fa. Da allora si direbbe che dalle sue labbra escano solo sospiri. Spesso, nel campo profughi, mentre nella nostra capanna mi crogiolavo nel mio mondo di sogni, mi accadeva di udire qualcuno sospirare. Sapevo allora che si trattava di Meng; non per nulla lo scorgevo poco lontano da me, intento a osservarmi con il viso triste e le spalle cascanti.
Quando poi gli chiedo perché abbiamo dovuto lasciare la nostra famiglia nel villaggio cambogiano, sospira e mi dice che sono troppo giovane per capire, parole che mi fanno arrossire di rabbia. È possibile che io sia troppo giovane per capire molte cose, ma sono grande abbastanza per sentire la mancanza della voce di Khouy che minaccia di prendere a calci nel sedere chiunque osi importunare la sua famiglia. Per quanto lontani possano essere i miei fratelli, sento ancora la mano di Chou stringere affettuosamente la mia e le dita di Kim mentre si gratta le costole imitando le scimmie. Sono giovane, certo, ma talvolta, mentre mi lasciavo cullare dalle onde dell’oceano nei pressi del campo profughi, mi sentivo vecchia e stanca. Allora avrei voluto raggiungere il fondo dell’oceano e fissare lo sguardo sui visi di Ma, Geak e Keav che sembravano scintillare sulla superficie dell’acqua. Altre volte, sballottata dal moto ondoso, immaginavo che la corrente trasportasse in mare aperto le mie lacrime. Lacrime che, in mezzo all’oceano, si sarebbero trasformate in odio e furore, e che l’oceano mi avrebbe restituito scagliandole vendicativamente contro la costa rocciosa.
Di notte, nel campo profughi, fissavo la luna piena e cercavo di rivedere con gli occhi del cuore i lineamenti di Pa. Bisbigliavo il suo nome nel vento e lo vedevo com’era prima della guerra, quando il suo viso era ancora tondo e i suoi occhi luminosi come le stelle. Con le braccia strette attorno al mio corpo, sognavo che Pa mi abbracciasse, sognavo di rannicchiarmi contro il suo corpo robusto e forte. Immaginavo che le sue dita accarezzassero i miei capelli e le mie guance, con il loro tocco leggero come la brezza. Poco dopo però il viso di Pa smagriva fino a ridursi a pelle e ossa, a uno scheletro.
Non so se anche Meng riusciva a vedere sulla luna il viso di Pa, certamente non me lo disse mai. E non so neppure come sia cominciato, ma Meng e io ci ritrovammo nella condizione di non parlare più della guerra. Non fu una decisione presa consapevolmente, non posso dire che un bel giorno decidemmo di chiudere il capitolo guerra; al contrario, accadde in modo così graduale che quasi non ce ne rendemmo conto. Inizialmente Meng mi poneva domande a cui non mi sentivo pronta a dare una risposta, e io gli chiedevo cose che lui non sapeva spiegare, finché le domande cessarono, da una parte e dall’altra. Ci sono momenti in cui vorrei ancora chiedergli di parlarmi di Ma e Pa, in cui vorrei chiedergli com’erano prima che io nascessi. Però non lo faccio, perché non posso sopportare di vederlo illuminarsi in viso nel pensare a loro e subito dopo rattristarsi perché non sono più con noi.
Quando chiacchieriamo, Meng e io parliamo esclusivamente del presente e del futuro. Quanto al mio passato, Meng dice soltanto che, a suo avviso, ormai dovrei aver compiuto dieci anni, tuttavia ammette di non esserne certo. Sostiene infatti che, quando lui era ragazzo, Pa e Ma erano così poveri che dovettero mandarlo ad abitare con gli zii al villaggio. Dice anche che, ogni volta che andava a far visita ai genitori, trovava un nuovo fratellino o una nuova sorellina, finché il numero dei figli arrivò a sette. Aggiunge che documenti e certificati di nascita furono distrutti il 17 aprile 1975, quando i Khmer Rossi occuparono il paese ed entrarono in città. E dunque, in mancanza di documenti, solo Pa e Ma potevano conoscere con esattezza le nostre date di nascita; purtroppo però anche loro non ci sono più. In Thailandia, quando al momento dell’ingresso nel campo profughi dovette indicare il giorno della mia nascita, Meng scelse proprio il 17 aprile. E così, con pochi tratti di penna, fece in modo che io non potessi mai dimenticare la Cambogia.
Da quando abito con Meng ed Eang ho la netta sensazione che Meng non faccia che pensare alla Cambogia e al resto della famiglia rimasta al villaggio. E poiché non abbiamo alcuna possibilità di inviare o ricevere notizie, non sappiamo se Khouy, Kim e Chou siano ancora vivi. Nel clan degli Ung, Pa era il primogenito della sua famiglia e poiché Meng è il primogenito di Pa, a lui spetta non solo il titolo di capofamiglia, ma quello di fratello maggiore di tutti gli Ung della nostra generazione. È un titolo che Meng porta con orgoglio e che lo fa sentire costantemente in dovere di aver cura degli Ung più giovani e di comportarsi in modo da costituire un modello per tutti loro.
Prima di lasciare la Cambogia, di fronte agli zii e alle zie Meng dipinse un quadro allettante di quello che sarebbe stato il nostro futuro così da giustificare la partenza per l’America. Quando però il viaggio ebbe inizio, e soprattutto quando fummo a bordo del barcone, gli occhi di Meng si riempirono di lacrime e il suo viso divenne triste.
In aereo, mi inginocchio sul sedile per salutare la mia amica Li Cho, seduta qualche fila dietro di me. Di un solo anno più giovane di me, Li fa parte di una famiglia di sette persone, i Cho, anch’essi in viaggio verso il Vermont. Poiché nel campo profughi di Lam Sing, Meng ed Eang tendevano a rimanere in disparte e a non familiarizzare con gli altri rifugiati, prima d’oggi non avevamo fatto la conoscenza dei Cho. Al contrario, Li e io ci incontrammo la notte stessa in cui arrivai al campo. Dietro il filo spinato dell’accampamento-prigione e tra le capanne dal tetto di paglia, noi due diventammo subito amiche. Trascorrevamo le giornate ispezionando la nostra nuova dimora, confidandoci i nostri piccoli segreti, passeggiando sulla riva dell’oceano e spiando le donne più adulte per ridere dei loro grossi seni. Li mi disse di essere nata in Cambogia da padre cinese e madre vietnamita. I suoi genitori erano morti entrambi quando lei era ancora piccola e ora viveva con i fratelli e le sorelle maggiori e i loro figli. Completamente vestite e stringendoci le mani sudate e appiccicose, entravamo in acqua e parlavamo di quanto ci sarebbe piaciuto poter acquistare una lattina di Coca-Cola e una ciotola di noodles, gli spaghetti asiatici. Io le raccontavo di quando, al cinema, mio padre reggeva il mio cartoccio di grilli fritti e lei mi parlava di quando suo padre le leggeva le favole.
Mentre l’aereo sobbalza e ondeggia, Li soffre il mal d’aria. Il suo viso è verdastro e il suo corpo minuto si accascia sul sedile mentre Tee, la sorella maggiore, le accarezza i setosi capelli neri. Pur in preda alla nausea, Li è carina con i grandi occhi e il mento aguzzo. Osservandola, ripenso a quando anch’io pensavo di essere carina. Mi sembra impossibile che solo cinque anni fa, a Phnom Penh, Ma e le sue amiche mi pizzicassero delicatamente le guance quando entravo in salotto con un vestito nuovo o un fiocco nei capelli, lodando le mie labbra carnose, i grandi occhi a mandorla e i capelli ondulati. A quel punto io sorridevo e tendevo le mani finché non me le riempivano di caramelle e spiccioli prima che Ma mi ordinasse di andarmene.
Mi volto per dare ancora uno sguardo alla “povera Li”, che da quando è salita a bordo non ha fatto che star male e vomitare. In condizioni normali, è una ragazzina dolce e garbata, proprio come Eang vorrebbe che io diventassi. Pensando a questo, mi sistemo comodamente sul mio sedile e apro un altro sacchetto di noccioline. Se lo stomaco di Li è in condizioni tali da non essere in grado di digerire neppure un boccone, il mio non ha alcun problema, pertanto, da buona amica, sono lieta di venirle in aiuto e divorare anche il suo cibo.
Nell’iniziare la discesa, l’aereo attraversa lo strato di nuvole: scavalcando Meng, cerco di avvicinarmi al finestrino per vedere finalmente quella che sarà la mia nuova patria. Scruto attentamente il terreno, ma provo la delusione di scorgere solo montagne, alberi e acqua. Forse siamo ancora troppo in alto per vedere i luccicanti grattacieli! Stringo con forza i braccioli e sogno a occhi aperti l’America in cui sto per atterrare.
Per prepararci a quella che sarebbe stata la nostra vita negli Stati Uniti, i volontari delle associazioni umanitarie, presenti nel campo profughi, ci avevano fatto vedere film di Hollywood in cui l’azione si svolgeva in città congestionate e rumorose, dove grandi automobili sfrecciavano lungo strade affollate. Sul grande schermo gli americani erano tutti di alta statura, con capelli biondi, rossi, castani e talvolta neri, parlavano tutti ad alta voce e nel viavai cittadino si muovevano rapidamente su pattini a rotelle o caracollando su alti tacchi.
Rannicchiata sul mio sedile, immagino me stessa mentre cammino tra questa gente e conduco un’esistenza eccitante lontano dalla Cambogia. Pensieri che mi fanno battere il cuore all’impazzata fino a quando la voce irata di Eang mi riporta alla realtà. Mia cognata mi liscia il davanti della camicetta e protesta per le briciole che vi ho lasciato cadere. Meng si affretta a passarsi un pettine di plastica tra i capelli proprio nel momento in cui il comandante annuncia che stiamo atterrando.
A terra, tenuta per mano da Meng ed Eang, entro nell’atrio dell’aeroporto tra i flash dei fotografi e un confuso vociare. La luminosità accecante mi spaventa e perdo il contatto con Li e la sua famiglia, inghiottita dalla folla. Mentre chiazze luminose danzano sulla mia retina, mi riparo gli occhi con l’avambraccio e faccio un passo indietro. La stanza diventa improvvisamente silenziosa non appena il drappello di stranieri dal viso pallido rallenta il passo e allunga il collo per sbirciarci. Tenendomi prudentemente alle spalle di Meng, concentro la mia attenzione su una donna il cui collo, lungo e bianco, mi ricorda quello di un pollo spennato, magro e coriaceo. Vicino a lei, un’altra donna ci osserva: il suo viso è così affilato e ossuto che le appioppo il soprannome di “faccia di pollo”. Dietro “faccia di pollo” c’è un uomo con guance tonde e un grosso naso, che definisco “guance di maiale”. Attorno a loro ci sono parecchie persone cui non posso fare a meno di affibbiare soprannomi: “naso di lucertola”, “occhi di coniglio”, “denti di cavallo”, “labbra di mucca” e “gambe di grillo”.
«Benvenuti!» grida un uomo dirigendosi verso di noi. Il suo corpo è così robusto che pare un tronco d’albero e nello stringere la mano di Meng sembra torreggiare su di lui, come un gigante.
Ma non è solo: sono molti gli stangoni che vengono verso di noi. Mettendo a profitto le lezioni di inglese frequentate a Phnom Penh prima della guerra, Meng risponde alle varie domande, sorridendo e scuotendo vigorosamente la mano di tutti coloro che ci vengono incontro. Accanto a lui, Eang stringe debolmente le mani che le vengono tese e saluta con piccoli cenni del capo.
Non volendo finire schiacciata, mi allontano dalla folla e me ne resto in disparte, sola soletta, finché una donna con i capelli rossi si dirige verso di me. In segno di rispetto mi ritengo in dovere di salutarla con un inchino, ma nel momento stesso in cui abbasso la testa, la signora mi tende la mano, finendo per colpirmi proprio in mezzo alla fronte. La ridda di flash si ferma di colpo e la stanza diventa silenziosa mentre io mi massaggio la fronte. Sento che Meng ride e rassicura tutti sulle mie condizioni. Pochi istanti dopo, scoppiano le risate. Invece di tenere gli occhi bassi, fisso i presenti con sguardi irosi finché Eang mi ordina di sorridere. Debolmente atteggio le labbra a un sorriso poco convinto. Improvvisamente, la signora con i capelli rossi si fa avanti e mi porge un orsacchiotto di peluche mentre i fotografi tornano alla carica per immortalare il momento. È a quel punto che mi rendo conto di aver abbottonato male la camicetta: un lembo spenzola, sbilenco e stropicciato, e io ho l’aspetto di chi si è appena alzato dal letto.
In macchina, Meng chiacchiera con i nostri tutori, Michael e Cindy Vincenti. Mentre Meng parla, Michael annuisce piegando ininterrottamente la testa e Cindy si lascia andare a una serie di striduli «uh-uh». Alle sue spalle, io cerco di soffocare una risata e fingo di tossire: gli “uh-uh” mi sembrano terribilmente stupidi. Consapevole dello sguardo furibondo di Eang, mi volto verso il finestrino e concentro la mia attenzione sul paesaggio, che a dire il vero varia assai lentamente. L’erba bassa lascia infine il posto a cespugli e ad alberi, mentre di tanto in tanto le colline sono punteggiate da casette e da cani che corrono qua e là. Di grattacieli di vetro s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. Prefazione
  6. Parte Prima
  7. Parte Seconda
  8. Parte Terza
  9. Epilogo
  10. Fonti e testi consigliati
  11. Ringraziamenti