
- 256 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Qualcosa nascosto
Informazioni su questo libro
Un impresario di pompe funebri e un ragazzino finito in un grosso guaio sono i protagonisti di una storia che si consuma in un solo giorno ad Alessandria. Pietro Ventura e la sua famiglia affrontano la consueta routine di "una giornata da becchini" in cui le vicende dei vivi incrociano quelle dei morti e di alcune presenze benevole, quando accade l'inaspettato. Un giardino di transito per l'Aldilà accoglie uomini, donne, bambini e animali al centro di eventi straordinari eppure intimamente connessi a ognuno di noi. La tenerezza e l'ironia sono gli ingredienti di un romanzo lieve e delicato che svela più di una verità.
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Informazioni
Casa funeraria, già le sei
«Andrea, sono già le sei, alla buon’ora!» Giorgio era sulla porta della saletta in cui si riunivano i Ventura prima di ogni cerimonia di commiato mentre suo figlio si affrettava nel corridoio. Seduti intorno al tavolo oltre a Pietro e Dario, c’era anche Patrizio, e Delia, naturalmente. Lei era la cerimoniera.
Giorgio riprese a parlare: «Stavo raccontando che la bambina era nella stessa classe della nipote di Gino, il nostro stampatore».
«Aveva appena finito la quarta ginnasio, vero?» chiese Dario.
«Sì. Sabrina frequentava il Liceo classico Giovanni Plana. Era brava, a quanto ho saputo. Una delle migliori della classe».
«È vero!» aggiunse Delia. «Sono stata a casa sua e ho parlato a lungo con i genitori. Figlia unica, le piaceva studiare, leggeva molto. Quando mi hanno portato nella sua stanza stracolma di libri sono rimasta esterrefatta. I genitori vogliono distribuire i libri ai suoi compagni, ai ragazzi che conosceva. Dovevate sentire la madre com’era accorata: “Sono sicura che mia figlia sarebbe felice di sapere che i libri andranno ai suoi amici. E poi non voglio che il suo ricordo si copra di polvere e se restassero chiusi qui, allineati sugli scaffali, o impilati a terra…” Parlava senza piangere, però carezzava le coste dei volumi in un modo che non riesco a dire. Anche il padre è d’accordo. Mi hanno detto che Sabrina scriveva poesie, come fanno spesso le ragazze della sua età».
«Era un po’ secchiona, veh!» Patrizio tentò di alleggerire.
«No, era una ragazzina normale. Aveva tanti interessi, e tanti sogni. Secondo la mamma non aveva mai avuto un ragazzo, però di sicuro aveva una simpatia».
«Chissà!» Giorgio sospirò. «Noi genitori siamo sempre gli ultimi a sapere le storie dei nostri figli».
«Non perdiamo tempo! Dobbiamo dare il meglio per Sabrina. Come sempre». Andrea distribuì a tutti alcuni fogli. «Senti, Delia, cos’è questo vestito giallo?»
Delia, capelli lisci, lunghi a filo spalle, frangia pesante, occhi scuri contornati da poco mascara, si alzò in piedi e fece una sfilata lunga quanto il tavolo. «L’ho concordato con la madre. Il giallo era il colore preferito di Sabrina, soprattutto in questo tono così carico; significa energia, allegria, gioia».
«Anche per gli addobbi della Sala del Commiato hanno voluto lo stesso colore» era intervenuto Pietro. «È tutto a posto. Il fiorista sta arrivando; la scelta è andata su rose gialle, tante rose e grandi margherite a gambo lungo, santoline e boccioli di calle bianchi e…»
«Un lutto in giallo. Non sapevo che avessero puntato su questo colore». Giorgio aveva sempre bisogno di tempo per digerire quello che stava fuori della norma.
«In effetti ce ne siamo occupati io e Pietro». Delia adesso controllava il quaderno delle letture. La copertina era gialla, per l’occasione.
«I libri sono arrivati; li abbiamo sistemati impilati in colonne di varie misure, ma la maggior parte è distribuita su due lunghi tavoli che abbiamo allestito sui lati della sala. Mancano ancora i segnalibri, fatti fare per l’occasione. Sono gialli. Li porta Gino, se ne è occupato lui e sarà qui tra poco. Si fermerà per la cerimonia. Ci sarà un pienone enorme, è un lutto sentito da tutti in città».
«Andrà bene. Gli autisti e i mezzi ci sono. Le transenne per l’esterno sono pronte; le piazziamo al momento giusto». Patrizio fece scivolare al centro del tavolo il disegno di una piantina cui gli altri avevano lanciato un’occhiata distratta. Lui era il mago della logistica, potevano stare tranquilli.
«Il manifesto e le foto ricordo sono già arrivate, la colonna sonora è pronta e anche la clip con i video e le foto della bambina». Andrea teneva le mani sul tavolo con le dita incrociate. «Ho controllato più volte che tutto funzionasse alla perfezione».
«Ormai siete registi collaudati. In quanto a Delia…» Dario sorrise, senza allegria.
«Buona la prima. E l’unica, come sempre. Non c’è alternativa». Patrizio era già in piedi. «Vado a verificare la questione dei palloncini. Li libereremo quando il feretro uscirà dalla porta. Sono trecento, settanta per cento giallo e trenta per cento bianco, come stabilito».
«Patrizio, aspetta!» Dario aveva un foglio lungo e stretto tra le mani. «E i segnalibri ricordo? Non siete curiosi di sapere qual è la citazione?»
Fino a quel momento Cadente aveva spiato la riunione stando fuori della stanza. Anche se con qualche difficoltà, era riuscito a captare il sugo dei loro pensieri mentre li traducevano in discorsi, ma adesso voleva vederli in faccia quelli lì, gli steward e le hostess che guidavano il passaggio dei defunti oltre la Strettoia. Doveva essere sicuro di quel che provavano per Sabrina, delle loro emozioni, e chissà per quanto tempo l’avrebbero ricordata! Infatti lui doveva decidere se vivere o morire, ma nel caso avesse optato per l’ultimo viaggio avrebbe dovuto valerne la pena.
Sul piatto aveva messo una cerimonia di commiato grandiosa, con tanta gente disperata, e un dolore per chi restava che doveva essere una punizione indimenticabile, come un marchio impresso a fuoco per quelli che da vivo non l’avevano tenuto nel dovuto conto. Purtroppo nel momento in cui si infilò nell’ufficio perse la connessione: non percepiva più il senso di quello che dicevano Delia, Patrizio e i Ventura. Si guardò intorno, smarrito all’idea di ritrovarsi in un film muto anche di pensieri. Pietro si dondolava in bilico sulle gambe posteriori della sedia; ascoltava Dario che probabilmente stava commentando la citazione rimasta in sospeso.
Per terra era comparsa una pallina da tennis gialla. Prima non c’era, Cadente ne era sicuro. Anche Pietro l’aveva vista e si era chinato a raccoglierla spenzolandosi oltre il bracciolo della sedia, rischiando di cadere.
Era meno pericoloso che sporgersi dal terrazzo.
La pallina era mezza sgonfia, il pelo giallo del feltro era sollevato e c’erano delle incisioni qui e là.
Dentate.
Pietro fece una smorfia sorpresa e divertita: era per forza opera di Lucy che chissà come, e quando, era arrivata fino all’ufficio in cui erano riuniti. Iniziò a lanciare la pallina per poi afferrarla al volo: plop, plop, plop. Uno schizzo giallo che si muoveva su e giù nell’aria.
Cadente ne fu ipnotizzato.
«Ragazzo, ti avviso, è l’ultima volta che comunichiamo. Almeno spero, perché altrimenti vorrebbe dire che hai scelto di chiudere la partita qui da noi». Camilla lo puntava nella posa di un cane da ferma.
«Eccoti! Perché non mi arriva più niente? Magari un pensiero piccolo, una coccola?»
«È deciso così. Ti devi concentrare». Ancora una volta gli mostrò i denti. «La morte è l’unico vero mistero della vita. Puoi immaginare quello che vuoi, credere alle leggende, alla religione, puoi fantasticare, o attaccarti a qualche allucinazione, ma non hai modo di sapere cosa troverai nell’Aldilà fino a che non passi la Strettoia. Puoi guardare quello che succede qui ed è già tanto. Puoi tornare con Lorenzo e avrai parole e coccole». Camilla sfumò la fine del suo ragionamento mentre si scomponeva in toni di colore sempre più evanescenti.
«’Na carognata. Che sbatti!»
«Come diresti tu, credo, Agostino e io ti abbiamo blindato». Camilla si stiracchiò mentre osservava Pietro e la pallina. Muoveva la testa su e giù per seguirne il movimento; ormai per lei Cadente aveva perso d’interesse. Anzi, non vedeva l’ora di vederlo sparire una volta per tutte.
«Oh, Pietro!» Dario recuperò al volo la palla e la posò al centro del tavolo, dentro una ciotola. «Ti pare il caso?»
«Scusa, papà!» Si infilò le mani in tasca, serio. «Scusatemi».
«Stai pensando a quel ragazzo della Torre?» domandò Giorgio. Pietro non si aspettava la domanda; mandò uno sguardo interrogativo ad Andrea.
«Sì, gliel’ho raccontato io. Ho detto che sei stato al telefono con lui per un po’ mentre era appeso là fuori, dentro al tendone».
«Una storia pazzesca. Non voglio neppure pensare…» Delia strinse le mani sul bordo del tavolo tanto forte che le dita sbiancarono.
Patrizio tornò a sedersi: «Cazzo, Pietro! E ti sei perfino offerto di ascoltare il mio sfogone sul recupero di oggi!» Diede di gomito a Giorgio: «Intendo la madre e la figlia». L’altro annuì.
«Perché non mi hai detto niente?» Dario si era proteso verso di lui, poi si era di nuovo ritirato contro lo schienale della sedia: «Ci vuoi dire qualcosa?»
«Scusa, papà, ma abbiamo avuto tutti un gran daffare. Ci sarà tempo». Pietro pensò che nessuno di loro avrebbe mai creduto a quella storia e perfino lui dubitava di certe cose che pure erano successe e forse… E poi c’era di mezzo anche la nonna! Ma cosa era successo davvero?
«In due parole?» Patrizio era il più curioso.
«Cosa volete sapere? Ho sentito un paio di volte il padre del ragazzo al telefono: non riesce neppure a parlare, quel pover’uomo! Mi chiamerà se ci sarà un cambiamento. Al momento Lorenzo è ancora in coma».
«Speriamo di non vederlo arrivare qui». Patrizio non conosceva scorciatoie. Gli altri restarono in silenzio, per poco, però. Delia controllò l’orologio: «Voglio rivedere le letture e verificare la scaletta dei contributi degli amici che hanno chiesto di dire due parole di saluto a Sabrina. Pietro, ci pensi tu a parlare con il frate che darà la benedizione?» Il rumore metallico della sedia che strisciava sul pavimento fu il segnale che sciolse la riunione.
In un minuto la stanza fu vuota, a parte Cadente. Non gli era più arrivato alcun messaggio in forma di pensiero, tuttavia era certo che avessero parlato anche di lui, o almeno di Lorenzo.
La palla da tennis masticata da Lucy giaceva inerte dentro la ciotola al centro del tavolo, le sedie erano abbandonate intorno, in disordine. Su una mensola c’era qualcosa che prima non aveva notato: il modellino di un furgone per i servizi funebri; le due portiere davanti erano aperte come il portellone dietro e lì vicino c’era un carrellino con sopra una bara in miniatura. Avvertì un tuffo al cuore e già questa era una cosa fuori dall’ordinario, vista la sua condizione.
Forse non era il momento! Almeno non il suo momento, non ancora. Non voleva stare solo, ma aveva bisogno di un luogo quieto per ragionare, un periodo di raccoglimento che poi cos’era? Un concentrato di attenzione, battere il ritmo dei pensieri in una sola direzione, senza distrazioni. Né idee strampalate né notifiche del cellulare. Troppa roba?
Si rintanò nel Giardino dei Transiti in una posa rattrappita accanto agli anturium. Gli alberi, i cespugli verdi e quelli fioriti sembravano disabitati, ma lui sapeva che non era così. Di fronte c’era la porta della stanza in cui riposava Sabrina. Il viavai era continuo, entrava e usciva gente di tutte le età. C’erano tanti ragazzi colorati con le facce lunghe e il cellulare per una volta muto che spuntava dalla tasca dei jeans, o tra le mani. I più aspettavano nel salone, divisi in piccoli gruppi. Altri ancora arrivavano. Se Lorenzo fosse stato dei loro avrebbe avuto paura di entrare nella stanza di Sabrina; non aveva mai visto un morto e non gli sarebbe sembrato il caso di risolvere la questione in omaggio a una ragazzina che poteva avere incrociato per strada più di una volta, ora distesa nella bara. Gli sarebbe mancato il coraggio e del resto lui, Cadente, già temeva di vedere se stesso, Lorenzo, disteso in un letto in terapia intensiva, intubato e con le flebo, la faccia verde per il riflesso del monitor che registra i picchi del cuore che scala la vetta della vita. Fino a che ci riesce, fino a che resta viva la sfida.
Tutto era successo perché i suoi non l’avevano portato con loro a Roma ad assistere al funerale del cugino, uno di cui a Lorenzo non importava niente e che in vita aveva visto tre volte in croce. Mamma era contraria a lasciarlo a casa da solo, ma a suo padre dava fastidio averlo tra i piedi: «Lo sai che è una piattola, starebbe sempre azzeccato al cellulare, impastato sui videogiochi. Mi manda in bestia solo guardarlo. E poi non serve che venga. Lasciamolo qui. Per un giorno che passa da solo non muore mica!»
Già, aveva detto proprio così e la tirata l’aveva fatta con lui presente, pensando che non sentisse perché indossava le cuffie. Invece, lui, Lorenzo, aveva sentito tutto, cazzo! Ritornare a una vita normale l’avrebbe riportato a quel punto lì.
L’ingresso e il salone della Casa erano affollati come lo stadio per il derby Roma-Lazio. I Ventura avevano organizzato una specie di servizio d’ordine. Con Sabrina ora c’era solo la famiglia: la madre, il padre e i nonni. Cadente ispezionò di nuovo il Giardino: le piante, i cespugli, gli alberi, i fiori… tutto era immobile anche se conteneva un altro tipo di folla e il traffico era controllato da Camilla e da Agostino. Avrebbe voluto che si svelassero, sentiva un’acuta nostalgia per… Ebbe la sensazione di lacrimare, qualcosa di impossibile, almeno non nel suo stato attuale, così indefinito.
Lorenzo, invece…
Lorenzo non avrebbe mai avuto così tanta gente ai suoi funerali. Alessandria non era la sua città, lui non aveva fatto niente per conoscerla, farsela amica, sentirsi a casa. Si era ostinato a restare un estraneo perso per sbaglio dentro la Torre, tra le strade del suo quartiere, tra i banchi della scuola dove gli era sembrato perfino giusto essere preso di mira dai quattro deficienti calati nel ruolo di bulli e spacconi. Del resto anche suo padre non perdeva occasione di sottolineare l’avvilimento che provava per quel figlio senza cervello, l’unico in dotazione.
Con gli amici di Roma era finita in niente; loro volevano che andasse a trovarli con il treno per vedere il derby, ma Lorenzo aveva lasciato perdere. Sarebbe stato uno sbatti e c’era da metterci sopra la discussione che avrebbe avuto con suo padre, ammesso che poi… Alla fine lui e gli amici romani non si erano più sentiti.
«Come mai?» insisteva sua madre mentre gli girava intorno fingendo di riordinare la stanza, un’ape sopra il miele dei fatti suoi. «Eravate così legati! Avete litigato? Chiamali tu, sono queste le amicizie che va...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Prologo
- Casa di Pietro, lunedì poco prima dell’alba
- Casa di Pietro, la sveglia delle sette
- Casa funeraria, le otto in punto
- Giardino dei Transiti, un po’ prima delle nove
- Casa funeraria, ufficio di Andrea, sempre le nove, all’incirca
- Il giorno prima. Era la domenica
- Al bar del Cristo, lunedì, il caffè delle nove e mezzo
- Casa funeraria, tra le nove e le dieci
- Giardino dei Transiti, l’istante fatale dopo le nove e mezza
- Giardino dei Transiti, le nove e tre quarti precise
- La Torre, tra il nono e l’ottavo piano, sempre le nove e tre quarti precise
- La Torre, in portineria, il bollettino delle dieci
- La Torre, tra il nono e l’ottavo piano, le dieci e spiccioli
- Alessandria, ingorgo in strada tra le dieci e le undici
- Giardino dei Transiti, le dieci e mezzo, all’incirca
- Casa funeraria, poi a Casal Bagliano e ritorno, le dieci e tre quarti precise
- Al bar del Cristo, il caffè delle undici, più o meno
- Casa di Tommaso e Angela, è quasi ora di preparare il pranzo
- Casa funeraria, quasi le undici
- Casa funeraria, le undici passate
- La Torre, in portineria, le undici ed è tardi
- Casa funeraria, mezzogiorno e poi…
- Giardino dei Transiti, l’una, ma non si pranza
- Casa funeraria, inizia il pomeriggio
- Casa funeraria, già le due
- Da Ponte Arcobaleno a Bergamasco, toc toc toc, sono le tre
- Casa di Miriam, l’appuntamento delle quattro
- La cascina fuori Alessandria, sul posto alle quattro, anzi un po’ prima
- Casa funeraria e poi in chiesa, le cinque, non ancora
- Casa funeraria, le cinque passate, è quasi tardi?
- Casa funeraria, già le sei
- Casa funeraria, Giardino dei Transiti, sono le sette, non c’è più tempo
- Casa funeraria, si chiude per la notte