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Informazioni su questo libro
«Caro Giobbe, da tempo pensavo di avviare con te una corrispondenza intima e familiare. Come tutti anch'io ho bisogno, in certi momenti, di un interlocutore con cui non solo condividere le mie ansie e le mie speranze, ma – forse ancor più – di qualcuno con cui crescere... per comprendere il mistero della vita».
Il compito di ogni uomo e donna sulla terra è quello di imparare a resistere alla grande tentazione di trasformare l'intera esistenza in una fossa di macerazione nella rabbia e nel rammarico. Nessun dolore e nessuna sofferenza sono per se stesse un inferno, per quanto le pene e le angosce lo facciano talora sentire e pensare, ma il rammarico lo è, il suo «verme non muore».
Il libro di Giobbe è un vero compagno di viaggio per quanti sono toccati e, talora, segnati a fuoco dal mistero del dolore. Egli ha dovuto – e forse persino voluto – affrontare l'enigma del dolore sulla propria pelle. Sin dall'alba dei tempi, la sua figura si fa per noi insostituibile compagnia dei giorni, più spesso delle notti, rischiarate dall'unica luce del tenebroso dubbio in cui confluiscono tutte le nostre più sofferte domande.
In questa rilettura epistolare del libro di Giobbe, Fratel MichaelDavide offre una meditazione che regala lucidità e serenità, per superare la rassegnazione e la rabbia che la sofferenza spesso porta con sé. Una delicata e profonda riflessione sull'arte di vivere (e di morire) che prende le mosse da una constatazione tanto semplice quanto rassicurante: Giobbe è nostro amico e possiamo parlare a cuore aperto con lui.
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Informazioni
Editore
TS EdizioniAnno
2022eBook ISBN
9791254710432Introduzione
Innocenti
Il libro di Giobbe è un vero compagno di viaggio per quanti sono toccati e, talora, segnati a fuoco dal mistero del dolore. Ogni dolore è sempre innocente, anche quando sembra colpevole. Giobbe ha dovuto – e forse persino voluto – affrontare il dramma dell’enigma del dolore sulla propria pelle. Questo sapiente d’altri tempi ha attraversato il dolore grattando fino al sangue ogni illusoria consolazione religiosa o filosofica, troppo certe per essere vere. Dall’alba dei tempi Giobbe si fa per noi insostituibile compagnia dei giorni, più spesso delle notti, rischiarate dall’unica luce del tenebroso dubbio in cui confluiscono tutte le nostre più sofferte domande. Come affermava Carl Gustav Jung: «Il libro di Giobbe è una pietra miliare sulla lunga evoluzione di un dramma divino». Lo stesso psicanalista svizzero aggiunge: «Quando nasceva questo libro testimonianze di vario genere avevano già delineato un’immagine contraddittoria di Yahwèh, l’immagine di un Dio che non riusciva a controllare la violenza delle sue emozioni e che soffriva proprio per questa sua incapacità»1.
Le parole con cui Jung mette sulla scena «un’immagine contraddittoria» di Dio possono ben delineare, alla luce del dramma divino, anche quello ben più doloroso che tocca a noi umani: il dramma da vivere. Per noi umani è grande la fatica di controllare la violenza delle nostre emozioni per portare il fardello delle nostre incertezze. Queste pagine non hanno la pretesa di scandagliare esegeticamente un libro la cui complessità e profondità esigerebbero ben altro acume di intelletto e adeguata preparazione. Riprendendo la sfida lanciata da Jung all’inizio della sua Risposta a Giobbe, si vuole semplicemente ripartire proprio dalle emozioni suscitate dal testo. Una semplice parola o espressione quasi colta al volo in ciascuno dei capitoli che formano questo libro diventa la piccola favilla necessaria ad accendere un fuocherello per riscaldare la speranza. Per riprendere le parole di un esperto del dolore come fu Jung, «si vuole con ciò dar voce ad una commozione che molti sentono in maniera simile»2.
Leggere il libro di Giobbe può diventare l’occasione per sfogliare la propria vita e, in particolare, le pagine più difficili e dolorose. Secoli fa lo fece un grande padre e dottore della Chiesa, Gregorio Magno. Il prefetto di Roma, divenuto monaco, si trovò lontano dalla sua patria e stretto dagli affanni della diplomazia a Costantinopoli. In quella difficile situazione non trovò di meglio che commentare per i monaci, che ne condividono la vita e le ansie, il libro di Giobbe. Il futuro papa introduceva così il suo commento, che fu trascritto dai suoi fratelli:
Ma è del tutto inutile cercare chi ha scritto queste cose, quando si sa per fede che autore del libro è lo Spirito santo. L’autore è lui, che ha dettato ciò che bisogna scrivere. L’autore è lui, che fu l’ispiratore, e che, tramite lo scrittore, ci ha trasmesso gli esempi da imitare. Sarebbe ridicolo se, avendo ricevuto una lettera da un uomo famoso, non leggessimo le parole che ci ha scritto, ma cercassimo di sapere con quale penna ha scritto la lettera, sarebbe ridicolo sapere chi è l’autore della lettera, conoscerne il senso, ma indagare con quale penna siano state vergate le parole. Ora, qui noi conosciamo l’opera e siamo convinti che l’autore di quest’opera è lo Spirito santo; cercare di sapere chi l’ha scritta è come leggere una lettera informandoci della penna.3
Per quanto possibile cercheremo di non indagare troppo a lungo queste pagine limitandoci alla “penna”, altri lo hanno fatto in modo più avvertito. L’intento in questa rilettura è di aprirci a quel respiro di divino-umanità che ci permette, attraverso le parole così vere di Giobbe, di cogliere il mistero della vita per saperlo sapientemente accogliere. Il mistero della vita, non raramente, assume i veli dell’enigma. La «smisurata forza creatrice»4 con cui esordisce la Risposta a Giobbe apre anche una meditazione filmica come quella de L’albero della vita5. Questa poderosa meditazione sul mistero della vita evidenzia il perenne incontro/scontro tra natura e grazia. Il protagonista sperimenta e trasmette ai propri figli e, in certo modo, a se stesso, la sapienza appresa alla scuola di un dolore così immenso da essere, a tratti, magnifico. In questa meditazione testamentaria si viene introdotti proprio da una citazione del libro di Giobbe (Gb 38,4.7). Come spiega Angelo Signorelli: «L’uomo si affida a un essere altro, ovviamente all’origine del tutto, e dimentica, o più spesso rifiuta, di essere parte di una materia immensamente e atrocemente vasta, incommensurabile e inafferrabile nella sua totalità»6.
In queste pagine cercherò di lasciar «parlare l’emozione senza paure e senza riguardi»7. Come posso e come la vita mi ha reso, tenterò di farmi “penna”, per riprendere l’immagine di Gregorio Magno. L’unico scopo è di creare uno spazio di connessione tra vite ed esperienze diverse che, per quanto alberi solitari e singolari, radicano sulla stessa terra. Infatti, tutte le nostre vite, espressione dell’unica vita, affondano, talora così faticosamente, le radici nello stesso humus comune e condiviso. La comune appartenenza alla stessa umana sorte fa di noi i volti di una medesima eppure così singolare umanità. Mai come in questi tempi di tramonto dell’ottimismo forzato dell’Occidente, l’umanità ha ancora bisogno di una goccia di speranza per le proprie radici, di una carezza di luce per le proprie foglie per generare e custodire i timidi frutti di una gioia sofferta, ma vera. Come spiega e in un certo modo augura Gianfranco Ravasi nel suo commento magistrale al libro di Giobbe, «attraverso la rimozione delle facili teologie o delle blasfeme razionalizzazioni di Dio nasce, sulle rovine delle angosce e degli interrogativi, il nuovo senso della fede e della vita»8. Nello stesso nome di Giobbe è nascosto il segreto di tutto il suo messaggio che può sostenere e accompagnare quello di tanti uomini e donne, in compagnia di tutte le creature piccole e grandi, alle prese con l’irrinunciabile compito di vivere che include anche quello di soffrire. Così spiega argutamente Roberto Vignolo:
Giobbe è intrigante per noi già per il nome che porta e che significa: “Dov’è il Padre?”. Una sintesi di “dove” e di “Padre”, il Padre con P maiuscola: “Dov’è il Dio che mi è Padre?”. Giobbe, inoltre, è nome che in ebraico si scrive allo stesso modo (cambia una piccola vocale) della parola “nemico”. Giochiamo un po’ su queste etimologie e assonanze percepibili all’orecchio semitico e “Dov’è il Padre? Dov’è Dio nella sofferenza? Forse che questo Dio, piuttosto che il volto di padre, mostra il volto di nemico?”.9
I.
Dalla parte dell’uomo
Ricordati di Giobbe quando gridò al suo Signore.
Lo esaudimmo e rimovemmo il male che gli incombeva
e gli restituimmo la sua famiglia
e altrettante persone con essa
per la nostra misericordia
e per avvertimento ai servi di Allah
(Corano)
Lettera prima
Sulla felicità
Il Signore disse a Satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe?
Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro,
timorato di Dio e lontano dal male» (Gb 1,8)
Caro Giobbe,
da tempo pensavo di avviare con te una corrispondenza intima e familiare. Come tutti anch’io ho bisogno, in certi momenti, di un interlocutore con cui non solo condividere le mie ansie e le mie speranze, ma – forse ancora di più – di qualcuno con cui crescere nel comprendere il mistero della vita che mi è dato attraversare.
Mi chiederai, perché proprio te e non altri? Mah, prima di tutto perché, di solito, quando uno si ritrova a grattarsi le ferite della vita con un «coccio» (Gb 2,8) mentre se ne sta «seduto in mezzo alla cenere» di ciò che rimane dei propri sogni, automaticamente pensa al “povero Giobbe”, pensa a te… e io non faccio eccezione. Normalmente, quando qualcuno ha bisogno di un bel «modello di pazienza» (Gc 5,11) per accettare che la felicità continui a rarefarsi, viene rimandato alla tua scuola. Inoltre, perché i miei maestri – Gregorio Magno e Carl Gustav Jung – hanno avuto un particolare rapporto con te. Il primo ha passato molti giorni, e ancora più notti, a meditare le tue parole offrendone una toccante interpretazione ai suoi fratelli monaci. Il secondo ha osato scrivere nientedimeno che una Risposta che non si sa se ti sia pervenuta e, soprattutto, se ti sia piaciuta. Da parte mia, non posso certo pensare di fare simili cose, ma ho la necessità non tanto di commentarti come il grande Gregorio, né tantomeno di risponderti come l’altrettanto grande medico dell’anima che fu Jung. Semplicemente ho deciso di scriverti per partire da te e ritornare a me. In questo piccolo e infinito viaggio che va da te a me e viceversa, vorrei ascoltare e accogliere tutti coloro che sono un po’ come noi, sotto un peso di dolore o sotto una qualunque pressione della vita. Pazienza, infatti, nelle Scritture è stare saldamente sotto il peso della vita, senza subirla, ma affrontandola con coraggio.
Ogni vera partenza non è che un ritornare! Ogni incontro con l’altro non è che un modo per scandagliare più profondamente e veramente se stessi senza rimanere chiusi nel proprio piccolo mondo, così ripiegati da sembrare un gomitolo. L’Onnipotente – benedetto sia il suo nome – quando si rivolse ad Abram per invitarlo a partire non trovò niente di più convincente che dirgli: «Va’, te ne prego, verso di te» (Gn 12,1). Abram, davanti a questo pressante e appassionato invito, non poté fare altro che mettersi in viaggio, mettersi sulla strada, brancolando nel buio alla ricerca di una meta, di una terra, di una casa, di una discendenza… In realtà, l’Onnipotente voleva solo dargli una grande occasione – attraverso tante piccole occasioni – per incontrarlo e per farsene un amico. Sai, è bello pensare alla vita, con tutte le sue vicissitudini, proprio come a una grande occasione per diventare amici di Dio e, al contempo, amici di tutti. L’amicizia cresce con la compagnia. Si stabilizza fino ad approfondirsi proprio con le prove e le gioie condivise, come avviene tra militari che dividono il poco pane e si passano i miseri avanzi di una gavetta.
È vero, tutti pensano a te come all’uomo della sofferenza, a un uomo che ha dovuto attraversare una grande prova e ha mostrato di avere «pazienza» (Gc 5,11). Sei stato forte davanti alle prove esterne ma, soprattutto, a quelle interiori. Come dimenticare quel dialogo estenuante con i tuoi amici benpensanti che volevano convincerti dell’immagine di una divinità a te estranea? Uno stillicidio inaccettabile! Eppure per me è diverso: il segreto della tua sofferenza mi sembra la tua felicità. Quando penso a te mi viene in mente l’immagine di un uomo felice, profondamente felice. La tua vita, seppur dolorosa, mi pare segnata da un senso di pienezza: «Gli erano nati sette figli e tre figlie; possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e una servitù molto numerosa» (Gb 1,2-3). Tu non fosti un uomo «grande» (1,3) perché ricco, ma perché felice. Il ricco ammassa per sé e vive nella paura di non avere mai abbastanza (Lc 12,19). L’uomo felice, invece, è colui che è sempre abbastanza consapevole che la sua vita dipende da Dio e non dai suoi beni.
Devo proprio confessarti che, in realtà, ciò che mi fa pensare a te non è solo il ricordo dei tempi in cui il «coccio» grattava le mie piaghe, ma anche quelli in cui il cuore sentiva il profumo sottile della pienezza… quella che si respira senza che nessuno se ne avveda. Penso a te come a un uomo felice, capace di non arrendersi all’infelicità pur sapendo portare e guardare in faccia la sofferenza. Ti sei misurato col dolore nei suoi accessi più manifesti come pure nelle sue pieghe più intime e segrete che sono il tormento dell’anima. Non lo hai subìto, il dolore necessario a ogni parto che sia felice. Da te e con te vorrei imparare, rileggendo le tue parole e indovinando i tuoi pensieri ed emozioni, ad affrontare la vita, senza evitare di affrontare me stesso e gli altri. Soprattutto, col tuo aiuto vorrei imparare ad affrontare con dignità l’Onnipotente, quando il suo volto di padre, desiderato e atteso, diventa quello del nemico temuto.
Il ricco bestemmia, mentre l’uomo f...
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