Você está com medo mi dice lo spirito per bocca di questa Mãe de Santo mentre mi stringe le mani. Mi guarda di sottecchi come se mi scrutasse, da sotto la corona di piume verdi e rosse che le hanno fatto indossare dopo la trance. Al suono dei cimbali e dei tamburi e dei canti la sua danza si era fatta via via piú fluida, piú libera e disarticolata, e alla fine era caduta a terra sull’ampia gonna decorata lanciando un grido di guerra. Quando si era alzata è stato subito evidente che non era piú lei: qualcuno le era entrato dentro. Ora è di fronte a me, gli altri sono in cerchio, ci fissano, le altre figlie, giovani scalze e vestite di bianco cantano canzoni in portoghese brasiliano di cui riesco a decifrare soltanto qualche parola. Lo spirito beve vino rosso mischiato con erbe sacre da una ciotola di legno, fuma un sigaro ad ampie boccate, ha lo sguardo torvo e la voce roca. Si chiama Caboclo sete flechas, e la donna che lo ha incorporato è la maestra di cerimonia di questa sessione di Umbanda.
Io, lo spirito e gli altri che assistono ci troviamo in una sala di una casa di campagna poco fuori Roma, sulla strada che prosegue verso i Castelli dopo l’aeroporto di Ciampino, la via dei Laghi, in quello spazio fuori il raccordo che non è piú Roma e allo stesso tempo non ancora. Tutte le volte che mi capita di passarci mi viene in mente rabbrividendo che è qui, vicino alla riserva di caccia che fu della famiglia Colonna1, che fu ritrovato un gruppo scultoreo dei Niobidi, che ha al centro la figura di Niobe, figlia di Tantalo, che si vantava dei suoi quattordici figli, tanto da reputarsi superiore a Leto, madre di Apollo e Artemide. Quando Leto venne a sapere di questa donna mortale che pretendeva che le si attribuissero gli onori divini, mandò i suoi figli a sterminarle la prole per vendicare il proprio nome infangato. Apollo uccise i sette figli, Artemide le sette figlie e Niobe ebbe il suo rimorso trasformato in pietra, a eterno ricordo di quel pianto di madre distrutta. Come gli spiriti e le divinità dell’Umbanda, anche Apollo e Artemide sono divinità straniere, ma entrate nel pantheon romano in tempi cosí antichi da avere piena cittadinanza nella mitologia, nell’arte e nelle narrazioni che Roma antica faceva di sé stessa.
Mi sono chiesto spesso, in questi anni di giri e ricognizioni, di domande ingenue e domeniche mattine passate ad ascoltare sermoni in lingue sconosciute, perché i templi piú strani, le cerimonie piú esotiche e i miti meno noti li trovassi proprio qui, in questo poroso spazio di confine, dove si fatica a separare i desideri dalle loro ragioni. Situando su una mappa improvvisata a forma di cerchio questi luoghi sarebbero tutti intorno al raccordo, costellando come brillanti sconosciuti quell’anello magico che al contempo protegge e assedia Roma, in una spirale che col passare dei secoli si è slabbrata senza mai eclissarsi completamente. Le risposte a quella domanda esistono e sono politiche, economiche, culturali. Le stesse da sempre. Sono storie che parlano di immigrazione, del modo che ha una città di accogliere le fedi delle persone che si spostano accalcandosi ai suoi confini, delle storie che la città accetta che si diano di lei, e della dialettica che le croci e i campanili e le cupole del centro instaurano con gli dèi venuti da lontano, con i templi e gli altari nascosti dentro capannoni dismessi, o con le guglie marmoree e svettanti sopra il parcheggio sopraelevato di un grande centro commerciale. È anche a questo che penso mentre lo spirito solleva a turno sulla schiena quelli che sono venuti qui come me, che sono curiosi o che invece ci credono, perché vogliono guarire da qualcosa, vogliono vedere qualcosa che abbia il potere di manifestarsi in mezzo a loro in piena carne e in pieno spirito. Vengono battuti con rami di alloro, vengono dati consigli, messaggi da una dimensione ultraterrena che risuonano nel petto di tutti. La sessione dura cinque ore, siamo scalzi sul pavimento freddissimo di cotto, e ci siamo vestiti di bianco perché non ci fosse, almeno esteriormente, alcuna intenzione negativa. «L’Umbanda è carità», dice piú volte Mãe Mara, quando ci prepara a quello che arriverà.
Di cosa dovrei avere paura, in effetti? Lo spirito voleva dire hai paura di me, di qualcos’alt...