
- 408 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Sotto la porta dei sussurri
Informazioni su questo libro
Quando un mietitore va a prenderlo al suo stesso funerale, Wallace comincia a sospettare di essere morto.
E quando Hugo, il proprietario di una singolare sala da tè, si offre di aiutarlo ad "attraversare", Wallace capisce che, sì, deve proprio essere morto.
Ma Wallace non si rassegna ad abbandonare una vita che sente di avere a malapena attraversato ed è deciso a vivere fino in fondo anche un piccolo scampolo, anche una breve parentesi di esistenza che, se vissuta pienamente, può farsi intera.
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Informazioni
Print ISBN
9788804750017eBook ISBN
9788835717829CAPITOLO 1
Patricia piangeva.
Wallace Price odiava la gente che piangeva.
Lacrimoni, lacrimucce, singhiozzi da squassare il corpo, non importava. Piangere era inutile, e Patricia stava solo ritardando l’inevitabile.
«Come l’ha scoperto?» chiese Patricia, mentre con le guance fradice si allungava a prendere la scatola di Kleenex sulla scrivania. Non vide la sua smorfia, e probabilmente fu meglio così.
«Come avrei potuto non scoprirlo?» rispose lui. Appoggiò le dita intrecciate sul tavolo di quercia; la sedia Arper Aston scricchiolò mentre Wallace si preparava per quella che, ne era sicuro, sarebbe stata un’infelice performance di istrionismo, il tutto cercando di non arricciare il naso per la puzza di candeggina e Windex. Qualcuno del personale notturno doveva aver rovesciato nel suo ufficio chissà quale prodotto, e l’odore era penetrante e stucchevole. Appunto mentale: inviare un promemoria facendo presente che godeva di olfatto sensibile, e di certo non si poteva pretendere che lavorasse in quelle condizioni. Che barbarie.
Le persiane chiuse tenevano la stanza al riparo dal sole pomeridiano e il condizionatore lavorava a pieno regime, mantenendolo vigile. Tre anni prima, qualcuno aveva chiesto di alzare la temperatura a ventun gradi. Wallace aveva riso. Col caldo ci si impigriva. Al freddo, si era costretti a stare in continuo movimento.
Fuori dal suo ufficio, lo studio procedeva come una macchina ben oliata, attiva e autosufficiente senza bisogno di eccessiva supervisione, proprio come piaceva a lui. Non sarebbe arrivato così lontano se avesse dovuto stare col fiato sul collo di ogni singolo dipendente. Certo, manteneva un occhio vigile, e chi lavorava per lui sapeva di doversi impegnare a costo della vita. La loro clientela era composta dalle personalità più influenti del pianeta. Quando lui diceva “salta” si aspettava che quelli a portata d’orecchio saltassero, senza perdere tempo con quesiti inutili tipo “quanto in alto?”.
Il che lo riportò a Patricia. La macchina si era inceppata, e per quanto nessuno fosse infallibile, Wallace doveva sostituire il pezzo danneggiato con uno nuovo. Aveva lavorato troppo per poter fallire adesso. L’ultimo anno era stato il più redditizio nella storia dello studio. E quello futuro si preannunciava ancora migliore. A prescindere dalle condizioni in cui versava il mondo, ci sarebbe sempre stato qualcuno a cui fare causa.
Patricia si soffiò il naso. «Non pensavo che le importasse.»
La fissò. «E cosa diamine gliel’ha fatto credere?»
Patricia gli rivolse un sorriso umidiccio. «Be’, non sembra proprio il tipo.»
Wallace si stizzì. Come osava esprimersi in quel modo, specialmente nei riguardi del capo. Avrebbe dovuto capirlo dieci anni prima, quando le aveva fatto il colloquio per il posto da assistente legale, che la scelta gli si sarebbe ritorta contro. Patricia gli era parsa una persona allegra, ma si era illuso che col tempo quell’inconveniente si sarebbe smussato; uno studio legale non era luogo consono all’allegria. Grave errore. «Certo che…»
«È solo che le cose sono state così difficili ultimamente» riprese Patricia, come se lui non avesse aperto bocca. «Ho cercato di tenermi tutto dentro, ma avrei dovuto immaginare che lei se ne sarebbe accorto subito.»
«Esatto» rispose Wallace, cercando di riportare la conversazione sul giusto binario. Prima riusciva a risolvere la questione, meglio sarebbe stato per entrambi. Anche Patricia, alla fin fine, se ne sarebbe resa conto. «Me ne sono accorto subito. Ora, se potesse…»
«E dunque le importa» lo interruppe di nuovo. «Lo sapevo. L’ho capito il mese scorso, quando mi ha mandato quei fiori per il mio compleanno. È stato gentile da parte sua. Anche se non c’era il biglietto, ho capito cosa stava cercando di dirmi. Che lei mi apprezza. E deve sapere che anche io apprezzo lei. Molto, signor Price.»
Wallace non aveva la minima idea di che cosa stesse parlando. Non le aveva mai mandato nulla. Doveva essere stata la sua segretaria. Avrebbe dovuto dirle due parole. Non c’era alcun bisogno dei fiori. Che senso avevano? All’inizio erano belli, ma poi appassivano, le foglie e i petali si raggrinzivano e marcivano, creando una confusione che si sarebbe potuta scongiurare semplicemente evitando fin dal principio di mandarli. Con questo in testa, prese la sua penna Montblanc ridicolmente costosa e buttò giù un appunto (MEMO: LE PIANTE SONO TERRIBILI, NESSUNO DOVREBBE RICEVERLE). Senza alzare lo sguardo, disse: «Non stavo cercando di…».
«Kyle è stato licenziato due mesi fa» disse lei, e Wallace impiegò più tempo di quanto avrebbe voluto ammettere per capire di chi stava parlando. Kyle era il marito di Patricia. Wallace l’aveva conosciuto a una festa aziendale in cui Kyle era ubriaco: doveva aver gradito lo champagne acquistato dallo studio Moore, Price, Hernandez & Worthington per celebrare un altro anno di successi. Paonazzo, aveva deliziato gli astanti con un dettagliato aneddoto che Wallace non era riuscito a trovare interessante, soprattutto perché a quanto pareva Kyle era convinto che alto volume e divagazioni continue fossero elementi essenziali di un efficace storytelling.
«Me ne rammarico» disse rigido, posando il telefono sulla scrivania. «Ma credo che dovremmo concentrarci sulla questione…»
«E fa fatica a trovare un nuovo lavoro» aggiunse Patricia, appallottolando il fazzoletto prima di prenderne un altro. Si tamponò gli occhi, sbavandosi il trucco. «Pessimo tempismo. Nostro figlio quest’estate si sposa, dobbiamo pagare metà del matrimonio. Non so proprio come faremo, ma troveremo una soluzione. Come sempre. Solo un altro ostacolo lungo il cammino.»
«Mazel tov» esclamò Wallace. Non sapeva nemmeno che Patricia avesse figli. Non era il tipo da interessarsi alla vita privata dei suoi sottoposti. I bambini erano una distrazione, non gli erano mai piaciuti. Facevano sì che i loro genitori – i dipendenti di Wallace – chiedessero giorni di ferie per cose come recite e malattie, lasciando agli altri il lavoro sporco. E siccome dalle Risorse Umane gli avevano detto che non poteva ordinare ai dipendenti di non metter su famiglia («No, signor Price, non può dire loro di prendersi un cane!»), era costretto ad avere a che fare con madri e padri che volevano il pomeriggio libero per ascoltare i loro piccoli vomitare o strillare canzoncine su forme e nuvole e altre sciocchezze simili.
Patricia si soffiò di nuovo il naso col fazzoletto, una strombazzata lunga e umidiccia che gli fece accapponare la pelle. «E poi c’è nostra figlia. Pensavo che fosse una causa persa e che sarebbe finita ad allevare furetti, ma grazie alla borsa di studio che le avete generosamente offerto ha trovato la sua strada. Una scuola di business, pensi un po’. Non è magnifico?»
Wallace la guardò con la fronte aggrottata. Avrebbe dovuto parlarne coi soci. Non sapeva che elargissero borse di studio. Facevano beneficenza, sì, ma quella si giustificava con le agevolazioni fiscali. Non riusciva a immaginare che tipo di ritorno potevano avere nel regalare soldi per qualcosa di ridicolo come una scuola di business, sempre ammesso che si potesse scaricare dalle tasse. La ragazza con tutta probabilità aveva in testa di imbarcarsi in un’impresa assurda tipo aprire un ristorante o fondare un’organizzazione no-profit. «Ho la sensazione che io e lei diamo due significati molto diversi all’aggettivo “magnifico”.»
Lei annuì, ma Wallace dubitava che lo stesse ascoltando. «Questo lavoro è molto importante per me, ora più che mai. I colleghi qui sono come una famiglia. Ci supportiamo a vicenda, non so proprio come avrei fatto senza di loro. E sapere che lei ha percepito che qualcosa non andava e mi ha chiamata per farmi sfogare significa molto più di quanto immagina. Non m’interessa cosa dicono tutti, signor Price. Lei è un brav’uomo.»
E questo cosa dovrebbe significare? «Perché, cos’è che dicono tutti?»
Patricia impallidì. «Oh, niente di male. Sa com’è. Lei ha fondato lo studio. C’è il suo nome, sulla carta intestata. Può… intimorire.»
Wallace si rilassò. Stava già meglio. «Sì, be’, suppongo che…»
«Insomma, sì, la gente dice che lei può essere freddo e calcolatore, e che se le cose non vengono fatte nell’istante in cui le chiede il suo tono di voce diventa terrificante, ma loro non la vedono come la vedo io. Io so che è tutta una facciata, che sotto i vestiti ricercati si nasconde un uomo premuroso.»
«Una facciata» ripeté Wallace, il quale malgrado tutto era contento che Patricia avesse notato il suo stile. I suoi vestiti erano davvero ricercati. Solo il meglio, in fin dei conti. Era il motivo per cui parte del pacchetto di benvenuto per i nuovi arrivati nello studio consisteva in una lista dettagliata di quali capi d’abbigliamento fossero considerati accettabili. Sebbene non pretendesse da tutti abiti di sartoria (specialmente perché dava valore al debito studentesco), se qualcuno si fosse presentato con un indumento che palesemente proveniva da uno scaffale delle occasioni, Wallace gli avrebbe fatto una bella ramanzina sul rispetto di sé e della propria immagine.
«Lei è duro fuori, ma dentro ha un cuore di marshmallow» disse Patricia.
Mai in vita sua si era sentito più oltraggiato. «Signora Ryan…»
«Patricia, la prego. Le ho già detto mille volte di chiamarmi per nome.»
Era vero. «Signora Ryan» ripeté Wallace con fermezza, «per quanto apprezzi il suo entusiasmo, ritengo che siano altre le questioni da discutere.»
«Giusto» concordò lei in tutta fretta. «Ma certo. So che non le piace quando la gente le fa i complimenti. Prometto che non succederà più. Non siamo qui per parlare di lei, in fondo.»
Wallace era sollevato. «Esatto.»
Le labbra di Patricia ripresero a tremare. «Siamo qui per parlare di me e di come le cose siano diventate difficili ultimamente. Per questo mi ha convocata dopo avermi sorpresa in lacrime nel ripostiglio.»
Wallace era convinto che fosse lì dentro per fare l’inventario, e aveva imputato le lacrime a un’allergia alla polvere. «Penso che dovremmo tornare a concentrarci su…»
«Kyle non mi sfiora neanche più» sussurrò la donna. «Sono anni che non sento le sue mani su di me. Mi sono detta che sono cose che capitano alle coppie di vecchia data, ma non riesco a non pensare che non ci sia dell’altro.»
Wallace trasalì. «Non so se sia appropriato, soprattutto dal momento che lei…»
«Esatto!» gridò Patricia. «È del tutto inappropriato, vero? So che lavoro settanta ore a settimana, ma è forse troppo chiedere che mio marito adempia ai suoi doveri coniugali? In fondo faceva parte dei voti!»
Che matrimonio agghiacciante doveva essere stato. Probabile che avessero organizzato il ricevimento in un Holiday Inn. No. Peggio. In un Holiday Inn Express. Wallace rabbrividì al solo pensiero. Sicuro come l’oro, a un certo punto era partito il karaoke. Da quel che ricordava di Kyle (molto poco, in effetti) verosimilmente aveva cantato un medley dei Journey e dei Whitesnake tracannando birra svedese.
«Non che mi lamenti dell’orario» proseguì Patricia. «Fa parte del mestiere. Lo sapevo, quando sono stata assunta.»
Ah! Un varco! «A proposito di assunzione…»
«Mia figlia si è fatta il piercing al naso» disse Patricia disperata. «Sembra un toro. La mia bambina, ora vuole un matador che la insegua e la infilzi con qualcosa.»
«Buon Dio» mormorò Wallace, passandosi una mano sulla faccia. Non aveva tempo per quella roba. Di lì a mezz’ora aveva una riunione per cui non si era ancora preparato.
«Lo so!» esclamò Patricia. «Secondo Kyle è solo una fase. Dice che non dobbiamo tarparle le ali e che dobbiamo lasciarle commettere i suoi errori. Ma io non pensavo che questo significasse farle mettere un dannato anello al naso! E non mi faccia parlare di mio figlio.»
«Come vuole» rispose Wallace. «Non me ne parli.»
«Per il matrimonio vuole il catering di Applebee’s! Applebee’s.»
Wallace era atterrito. Non pensava che il pessimo gusto in fatto di matrimoni si trasmettesse geneticamente.
Patricia annuì con vigore. «Come se potessimo permettercelo. I soldi non crescono mica sugli alberi! Abbiamo fatto del nostro meglio per instillare nei ragazzi un minimo di consapevolezza econ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- SOTTO LA PORTA DEI SUSSURRI
- Nota dell’autore
- CAPITOLO 1
- CAPITOLO 2
- CAPITOLO 3
- CAPITOLO 4
- CAPITOLO 5
- CAPITOLO 6
- CAPITOLO 7
- CAPITOLO 8
- CAPITOLO 9
- CAPITOLO 10
- CAPITOLO 11
- CAPITOLO 12
- CAPITOLO 13
- CAPITOLO 14
- CAPITOLO 15
- CAPITOLO 16
- CAPITOLO 17
- CAPITOLO 18
- CAPITOLO 19
- CAPITOLO 20
- CAPITOLO 21
- CAPITOLO 22
- EPILOGO
- RINGRAZIAMENTI
- Copyright