Qualcuno, da un punto lontano, sta invocando il Signore.
Poi la sua voce si avvicina, così tanto da farmi venire il dubbio che sia la mia.
«… Signore… Signore…»
Spalanco gli occhi e mi ritrovo, a pochi centimetri dal naso, una ragazzina con i capelli a schiaffo e il viso cosparso di lentiggini. L’invocazione si trasforma in uno strillo acutissimo e lei fa un salto all’indietro, ricadendo di sedere sull’asfalto.
Da morto il mio aspetto doveva sembrarle plausibile. Ora, da vivo, molto meno.
Strisciando mani e piedi retrocede fino al suo motorino e lì, a stupore e spavento, subentra un’espressione guardinga.
«Hilf mir mal»1 mugugno, tentando, nello stesso momento, di rassicurarla e di rimettermi in piedi.
La ragazzina avrà sì e no quattordici anni. Ginocchia al petto, continua a fissarmi come un morto vivente e non si muove. Capisco quindi che devo arrangiarmi da solo.
Rotolo sul fianco, faccio leva sul gomito che mi fa meno male. Le gambe cedono un paio di volte, ma alla fine riesco a recuperare il cappello, gli occhiali e qualcosa di simile a una posizione eretta. Infilate le lenti sul naso, mi guardo attorno e cerco di capire dove sono finito.
Forse sulla Luna, finalmente…
Una distesa brulla, monocromatica, si allarga a trecentosessanta gradi intorno a me. A parte i cespugli di rovi e qualche albero rinsecchito, per riassumere il paesaggio circostante non servirebbero più di tre parole: sassi, sassi, e ancora sassi…
Sono sparsi ovunque, fino all’orizzonte. Perfino i muretti ai lati della strada e le sporadiche costruzioni a cono disseminate qua e là sono stati edificati con delle pietre.
Sposto lo sguardo e subito realizzo che c’è una pietra anche sopra le speranze di proseguire il viaggio: sul ciglio della strada, con il radiatore sfondato e due ruote dentro un fosso, giace riverso il camion di…
«Memo!» sobbalzo.
Mi trascino verso il Man col cuore in gola, ma a bordo, del mio compagno di viaggio, ritrovo solo l’odore di liquirizia e tabacco. Do quindi per scontato che Memo sia stato sbalzato fuori dall’abitacolo, o che ne sia uscito sulle sue gambe. Per diversi minuti, in bilico sul predellino, spargo occhiate a destra e a sinistra urlando a squarciagola: «Memo! Memo!».
Risponde solo il vento.
«He, du»2 mi sbraccio allora verso la ragazzina.
Vedermi così agitato la incuriosisce, non abbastanza però da venirmi vicino. Tenendomi l’anca salto giù dal camion e vado io verso di lei.
«Hast du einen Jungen hier rumhängen sehen?»3 le domando tutto d’un fiato.
Le ciglia della ragazzina sono lunghissime e finalmente si decidono a battere.
«Und einen Wolf?»4
«Mi scusi, signore» dice allargando le braccia, «ma non capisco una parola.»
Solo a questo punto mi ricordo di essere in Italia. Per fortuna la ragazzina è sveglia e, quando ne imito l’ululato, capisce al volo cosa intendo.
«Un lupo?»
«Ja, lupo! Che fine ha fatto il lupo che abbiamo investito?»
La ragazzina si stringe nelle spalle. Non sa niente di lupi, lei passava di là con il suo motorino, ha visto che c’era stato un incidente e si è fermata – punto.
Sconsolato, lascio ricadere le braccia lungo i fianchi. Faccio mezzo giro su me stesso e scruto il deserto che ho di fronte. Ne faccio un altro mezzo e scruto il deserto che ho alle spalle. Ovunque guardi, silenzio e desolazione.
«Hätten wir mindestens etwas Nebel…»5 mi dico, rimpiangendo la cappa opalescente che a Berlino nascondeva anche l’angoscia.
Risalgo sul camion, mi chino sotto il sedile e tiro fuori una corda di canapa. Poi la lego al parafango anteriore, mi attorciglio l’altro capo intorno ai polsi e, dopo essermi sputato sulle mani, comincio a tirare.
I miei lineamenti, nell’irragionevole sforzo di smuovere tre tonnellate di ferraglia, si contorcono in un modo che alla ragazzina deve sembrare divertente. Appoggiata alla sella del motorino, la sento soffocare un risolino. Lascio andare la fune per terra e sfogo su di lei la mia frustrazione.
«Perché non fai qualcosa, invece di ridere alle mie spalle?»
A dimostrazione che non le incuto più nessun timore, la ragazzina ignora le mie paturnie e pensa bene di accendersi una sigaretta.
«Sei impazzita?» urlo precipitandomi verso di lei.
Le strappo la sigaretta dalla bocca e la schiaccio sotto la scarpa.
«Non senti la puzza di benzina? Vuoi che saltiamo tutti in aria? E poi» aggiungo, scalciando lontano la cicca, «si può sapere perché fumi alla tua età?»
Invece di chinare la testa, la ragazzina insinua che io abbia battuto la mia.
«La vedo un po’ troppo agitato» borbotta, «forse è meglio se la porto all’ospedale.»
«Al diavolo l’ospedale! Chiama piuttosto un… un…»
Ho l’impressione che finga di non capire cosa voglio dire, solo per il gusto di vedere se riesco a mimare un carro attrezzi.
«Mi dispiace, signore» dice al termine dell’esibizione, «ma il carro attrezzi se lo può scordare.»
«E perché?»
Incredula che non sappia che oggi è Pasqua, la ragazzina scuote la testa e va ad accendersi un’altra sigaretta un po’ più in là.
«Chi se ne importa se è Pasqua! Ci sarà un meccanico per le emergenze!» sbraito andandole dietro.
«Quali emergenze?» Si stringe nelle spalle. «Nella terra dei maghi le emergenze non esistono.»
La brezza che spira alle mie spalle diventa una folata che quasi mi butta a terra.
«Cos’hai detto?»
«Ho detto che qui ce la prendiamo con calma.»
Dimostrando di non avere ancora assimilato le usanze del luogo, mi avvento sulla ragazzina con tutta la foga consentita dai miei acciacchi.
«Perché conosci la terra dei maghi?» le dico afferrandola per le spalle.
«Perché… ci sto sopra» balbetta, intimidita dalla mia reazione.
Smetto di scuoterla e allento la morsa sulle sue clavicole.
«Vuoi dire che questa è la terra dei maghi?»
«Già.» Si massaggia i punti indolenziti. «Ma se la rende così nervoso la chiami pure in un altro modo.»
Trascuro il suo sarcasmo e, barcollando un po’ di qua e un po’ di là, provo inutilmente a riordinare le idee. Tutto quello che ho intorno – i trecentosessanta gradi dell’orizzonte, i campi incolti, il nastro d’asfalto che li attraversa – lo contemplo sotto una luce nuova.
«Chiama subito tuo padre e fammi parlare con lui!» torno alla carica.
La ragazzina fa il gesto di scacciare una mosca.
«Sì, vabbè, mio padre…»
«Allora chiama un adulto qualsiasi.»
«Gliel’ho già detto» schiocca la lingua, «oggi è Pasqua… E poi come chiamo? Io mica ce l’ho, il cellulare.»
Le parole della ragazzina mi fanno ricordare che dovrei possederne uno e comincio a tastarmi le tasche. Ma trovo soltanto un altro ricordo, quello di aver distrutto il mio vecchio Nokia lanciandolo contro la macchina di Danny.
«Dov’è il paese più vicino?»
«Boh, saranno dieci chilometri.»
Spingo in avanti lo sguardo, fin dove arriva la mia miopia. Sperando che le gambe riescano ad arrivare un po’ più in là, faccio un profondo respiro e mi metto in marcia emettendo un grugnito che vorrebbe valere da congedo.
La gamba sinistra quasi non la sento, la destra invece la sento anche troppo: a ogni passo s’irradia dall’anca una fitta che associa, in un unico grido di dolore, femore, tibia e perone. A darmi più fastidio, però, è il chiodo che mi pianta nella nuca lo sguardo di quella ragazzina.
Finita con calma la sua sigaretta, accende il motorino e mi viene dietro.
«Signore» sussurra al minimo dei giri, «forse è meglio se le do un passaggio.»
La ignoro e proseguo zoppicando. Ma, visto che la ragazzina si ostina a starmi incollata, a un certo punto mi volto, la guardo in faccia e decido di essere sincero.
«Non mi piace che la gente mi si appiccichi. E non mi piace appiccicarmi alla gente» aggiungo indicando il sellino monoposto.
«Io non sono la gente» s’adombra la ragazzina. «Io sono Anna.»
Mi metto le mani sui fianchi e la osservo con più attenzione. Anna fuma e guida il motorino (senza casco), ma il suo broncio è quello di una bambina. E i bambini, prima o poi, diventano peggio degli adulti che li hanno preceduti.
«Stammi bene, Anna» la liquido riprendendo la marcia.
Lei per un po’ mi lascia andare. Poi, mantenendosi in equilibrio sul filo del gas, il suo motorino torna a incollarsi alla coda del mio pastrano.
Il limite della mia pazienza è solo pochi metri più avanti. Quando lo raggiungo, mi giro per la seconda volta, deciso a farle capire che sarà anche l’ultima.
«Sei stata molto gentile a fermarti, davvero, ma non ti devi più preoccupare per me. Troverò chi mi può aiutare» dico con più convinzione di quanta ne provi veramente.
La ragazzina sembra avere maggiori certezze.
«Non troverà nemmeno una fontanella dove bere» profetizza.
Scende dal motorino, lo issa sul cavalletto e si avvicina fino a varcare la soglia del tu.
«Stammi a sentire… Qua vicino c’è un tipo che affitta le stanze. Puoi restare da lui fino a domani. Mangi qualcosa, dormi, magari ti fai una doccia…» dice annusandomi. «Poi, quando tutti avranno digerito l’agnello, vengo a riprenderti e vediamo di risolvere il tuo problema.»
Il sole è ormai alto nel cielo. Sto iniziando a sudare nel mio cappotto nero. Mi tolgo il cappello e mi asciugo la fronte con la mano.
«Allora?»
Esito indicando il camion. «Non posso lasciarlo là!»
Anna sbuffa, come se stessimo perdendo tempo con delle sciocchezze.
«Perché no? Su questa strada non passa mai nessuno.»
Come darle torto? Siamo lì da un quarto d’ora e non si è ancora vista una macchina.
«Fidati» dice – anzi, mi ordina – la ragazzina.
Agganciata al portapacchi del motorino c’è una sacca da cui spunta una fiocina e un telo da mare. Anna la slega e se la piazza tra le gambe, per farmi posto. Poi accelera a vuoto un paio di volte.
Io fingo di pensarci ancora un po’.
Quando infine mi decido a salire a bordo, quella squilibrata lancia una specie di grido di battaglia. Un attimo dopo sono costretto ad aggrapparmi alle sue spalle, per non farmi disarcionare da un’improvvisa partenza in derapata.