– Vuoi un altro biscotto? – le chiese, e Melina annuí.
Diego era a scuola, e la bambina colorava accanto alla finestra. Miriam tendeva a parlarle poco, com’era con Diego, parole d’attenzione per lei o per chiunque non ne aveva. Però stava a guardarla minuti interi, si soffermava su di lei, la studiava da lontano, come col figlio, tentava di capire cosa le passasse per la testa, se nei pensieri ci fosse sempre e solo la madre.
Dal cortile giungeva un timido sole di primavera, erano giorni chiari, quelli, e anche la cella pareva scintillare sotto la luce delicata. Miriam cercava di non pensare troppo al mondo fuori, e a suo figlio che cresceva in carcere, s’accontentava di quel che era la sua vita adesso, e si adoperava nelle cose a metà, come in effetti accadeva pure prima, perché in nulla Miriam s’era data all’eccesso, lei era abituata a calcolare i rischi e a misurare i sentimenti. Aveva trovato l’amicizia di Anna, e se la faceva bastare, s’appigliava a quel niente che pure sapeva d’avere; ogni tanto però sentiva una fame dentro che non passava. Addosso aveva preso qualche chilo, che però non le aveva tolto bellezza, anzi sembrava che si fosse riempita nei punti giusti, e persino il volto aveva acquistato una pienezza che la rendeva un pochino piú solare agli occhi della gente.
Non aveva mai avuto grandi bisogni, e la maggior parte della vita l’aveva passata a tacere, non aveva preoccupazioni per sé, solo per suo figlio, si domandava spesso quanto quei mesi lo stessero cambiando, quanto il carcere lo potesse segnare. Diego si sforzava a starci con allegria, ma Miriam lo sapeva, il bambino stava perdendo qualcosa per strada, per forza: pur se la detenzione era attenuta, restava detenzione. Un creaturo non dovrebbe crescere qui, si diceva, e però di soluzioni non ne aveva, e si dannava; la mattina spesso metteva la testa lí, e non ne usciva, e allora non le restava che fumare per riconquistare un po’ di pace. D’altronde, si diceva pure, fuori per lui sarebbe stato peggio, se il giudice avesse infine deciso di darlo a sua sorella, che aveva telefonato un paio di volte, per Diego sarebbe stato assai piú difficile, lí non poteva starci senza sua madre. Nelle ultime settimane s’era fatto di nuovo serio, quei bei sorrisi dell’inizio s’erano diradati, e le tante parole pareva averle perse nelle giornate tutte uguali, cominciava ad affacciarsi l’abitudine, e con essa la noia; Miriam riconosceva in lui la sua stessa incapacità di stare a riposo. Aveva provato a indagare, una mattina, ma Diego aveva risposto che non c’erano problemi. Eppure, di colpo, sembrava non essere piú attratto dalle cose esistenti, Miriam l’aveva sorpreso diverse volte a parlare da solo, in cortile si fermava di meno, s’aggirava per i corridoi senza una meta, compiva lo stesso percorso, e con Gambo s’andavano a mettere su uno scalino e chiacchieravano a singhiozzi. E chissà cosa si dicevano, chissà se i bambini che non hanno niente sentono l’infelicità nativa dell’uomo, chissà se s’avvertono prigionieri, o se la fantasia li fa salvi, se pure dentro a un carcere resta in loro intatta la capacità di scorgere l’intero firmamento in un piccolo cortile scalcinato.
– Vuoi vedere il mio disegno? – le chiese d’improvviso Melina.
Miriam si sporse ad afferrare il foglio. C’era in un angolo un fiore viola e blu troppo grande, e dietro, in secondo piano, vicino a quello che pareva un ponte, una casetta tutta inclinata. Il prato era una distesa di fili dritti e lunghi che toccava un cielo bianco senza sole. Al centro della scena, quattro figure sghembe.
– Ti piace?
– Molto, – rispose Miriam, – e questi chi sono?
La bambina allungò la mano al foglio per tirarlo a sé. – Questi siamo noi. Questa qui è la mamma, questa sono io, – e metteva il ditino su ogni figura, – e questi siete tu e Diego.
– Bello, brava, – commentò Miriam.
– Ora devo fare il cielo, – disse la bimba, e sfilò il pennarello azzurro dall’astuccio.
Miriam si versò il caffè e lo sorseggiò davanti a una delle solite trasmissioni mattutine alla tv che servivano da compagnia a gente come lei, che per un motivo o per l’altro aveva poco da chiedere alla vita. Si tenne la bevanda calda in bocca, la assaporò sulla lingua, intanto già s’era messa la sigaretta tra le dita, l’avrebbe accesa in cortile. C’era da seguire il corso di nutrizione, insegnavano loro a mangiare in modo sano anche fuori di lí, le mettevano a conoscenza dei rischi di un’alimentazione errata, ma in poche s’interessavano davvero. Miriam, come del resto ogni detenuta, aveva per il cibo scarsa attenzione, era abituata a soffriggere quasi tutto, e tutto in carcere infatti le appariva insapore. L’alimentazione era l’ultimo dei suoi problemi, e nonostante il dottore le avesse spiegato che Diego aveva da buttare giú tanti chili, lei non se ne faceva un’ossessione, e i pensieri li metteva in altro, spesso indugiava nel ricordo del marito, le pareva d’essersi dimenticata la sua faccia, e di non provare nulla per lui, nemmeno piú l’odio. Se non fosse stato per Diego, per quel che la riguardava, se lo sarebbero pure potuto tenere, lei a suo figlio gli avrebbe dato un futuro pulito. Qualche notte pareva mancarle l’aria nei polmoni, in petto preoccupazioni che pesavano come lapidi, altre notti però si stupiva a raccogliere i pensieri piú belli in un abbozzo di preghiera e le sembrava d’essere sfacciata, di annoiare Dio coi suoi impicci di poco conto; dava all’oscurità le sue speranze per il domani, si scopriva a chiedere non una vita facile, ma la forza di viverla senza ripensamenti. A volte ancora s’attardava con gli occhi nel buio, immaginava d’avere un’esistenza come tutti: avrebbe fatto le pulizie nelle case delle signore dabbene, semmai, e la sera la cameriera in qualche pizzeria della zona, suo figlio sarebbe andato a prenderla col motorino, per cenare insieme. E lui avrebbe trovato una brava femmina di queste parti, assieme le avrebbero dato dei nipoti da crescere, e con gli anni, chissà, Miriam avrebbe potuto pure iniziare a credere di aver avuto fortuna.
– Ma mamma quando torna? – chiese d’un tratto Melina ancora dandole le spalle, ancora immersa nel disegno.
– E mò vedi che torna, – fece lei, – tieni pazienza un poco e torna.
– Ma perché non mi chiama? – e stavolta la bambina si girò a guardarla. Conservava negli occhi scuri una specie di supplica, e a Miriam parve che dentro ci fosse del pianto. Le mancarono le parole, alla fine tentò di dire una mezza verità. – Perché probabilmente non può, forse nun tene manco il telefono… Oppure sta a letto e non si può alzare. Ma vedi che tra poco sarà qui.
Poi s’affrettò a uscire nello spiazzo esterno, perché di tenersi lo sguardo indagatore della piccola addosso proprio non le andava. Melina stava con loro da dieci giorni, e mai in quel tempo aveva dato problemi, parlava poco e stava sulle sue, però Miriam faticava il doppio ora, c’era da accompagnarla in bagno, farle il letto, e aiutarla in quasi ogni cosa. Spesso la portava con sé a prendere l’aria dei corridoi, e la bimba allora pareva contenta, s’abbarbicava al suo braccio e salutava le detenute che incrociavano e che avevano per lei un sorriso buono. La mattina e a metà pomeriggio Poncharello la tirava su con tutta la sedia e la lasciava al sole del cortile, e Melina assorbiva muta il calore del giorno, qualche parola cara, una carezza. E quando era ora, chiedeva a Cuomo di sedere al fresco e s’appartava sotto l’ombra, e sembrava non pensare a niente, riposava la vista come Miriam non era capace; in quell’inferno di pietre, mattoni e ferro lei stava come sul bordo del ruscello. Quando rientrava in cella, pareva rinfrescata, in testa solo cose belle. Ma terminato lo svago, ricompariva in lei il pensiero della madre.
Per fortuna c’era Diego a tenerla indaffarata, insieme coloravano, scrivevano, leggevano, o guardavano i cartoni animati alla tv. Lui tornava da scuola e correva da lei, le regalava qualche parola nuova e strana che aveva udito in giro, e se a Melina la parola piaceva, si metteva d’impegno a trascriverla sul quaderno. E poteva impiegarci nel caso pure un intero pomeriggio. Qualche sera anche a tavola s’intrattenevano a parlare di parole o a leggere una pagina, e Miriam allora la pigliava di traverso e s’arrabbiava, perché quella fissazione proprio non la capiva, e cosí gli sfilava da sotto il libro e lo buttava sul letto, ché avevano da mangiare. Miriam li teneva d’occhio a distanza, e si domandava cosa ne sarebbe stato di Melina dopo, si chiedeva come sarebbe cresciuto suo figlio se avesse potuto vivere con un fratello, com’era stato per lei. Ma poi s’obbligava a non pensarci, ché cosí era e nessuno poteva farci niente. Forse un domani, chissà.
In cortile trovò Anna, stava seduta sull’altalena nei pensieri suoi, e pareva sgonfia.
– Ué, – le disse allungandole una sigaretta, che quella accettò.
Si accomodò al suo fianco sull’altra altalena, e la seduta calda le procurò un brivido di piacere. Teneva addosso ancora la felpa col cappuccio e la zip aperta e, sotto, una maglietta bianca. I jeans le stavano appiccicati ora, ed evidenziavano le sue forme.
– Che è stato? – chiese all’amica.
– Jennifer me sta facenno ascí pazza! – disse quella.
– Perché?
– Sta nervosa assai, già da un po’, la vedo sfastidiata, s’arrabbia per nulla, e dice ’nu sacco ’e bucie e maleparole.
– Ci hai parlato?
– Sí, dice che non è niente, e però poi fa ’a pazza. Ieri sera s’è pigliata ’na sonora mazziata, nun ce la facevo cchiú, e allora s’è mise a chiagnere e m’ha ditto che mi schifa.
– So’ fesserie… – s’affrettò a dire Miriam.
Anna si voltò a guardarla, e Miriam la vide per quel che era, una donna forse un tempo carina, ma che adesso pareva un fiore marcio, la poca cura che aveva di sé era nei capelli sempre sporchi e nei denti gialli di fumo che non teneva a mostrare, tanto che a ogni risata – perché ad Anna ciò che piú piaceva era ridere, e ai guai della vita quello sapeva opporre – avvicinava d’istinto la mano davanti alla bocca. Un paio di giorni prima una detenuta s’era spinta a raccontare un aneddoto della sua vita matrimoniale, capitava spesso che le ragazze portassero i discorsi sul sesso, che lí era tra le privazioni la piú dolorosa, e Anna aveva riso cosí tanto da piegarsi in due, e agli occhi le erano salite le lacrime. Le compagne allora l’avevano seguita, ché a vederla in quel modo veniva in effetti da ridere molto piú che per la storiella spassosa, e ogni distanza s’era accorciata, anche con Amina, che quella mattina se ne stava in circolo assieme a loro. L’allegria di Anna era contagiosa, pareva che dalla bocca le uscissero tanti coriandoli, ma a Miriam l’aveva circuita a metà, si domandava nel contempo come facesse a ridere cosí, e le erano venute in mente le risate da ragazzina, con l’amichetta sua, le risate da mal di pancia, incontrollabili, che non puoi trattenere, che quasi ti fanno male, e però ti scacciano ogni pensiero dalla testa, ti dànno giorni nuovi e ti rendono intoccabile, dopo sei libera e liberata, e ti sembra d’aver burlato il destino, perché puoi azzardarti a dirti felice per un po’. Dov’erano finite quelle risate lí, quegli anni lí, quella spensieratezza? Dopo gliel’aveva chiesto, ad Anna, e l’amica a...