L'immoralista
eBook - ePub

L'immoralista

  1. 204 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

L'immoralista

Informazioni su questo libro

D urante la luna di miele in Nord Africa, il letterato parigino Michel si ammala di tubercolosi. Convalescente, si trova in maniera inaspettata - e con voluttà totalizzante - a riscoprire i piaceri della vita. Decide così di tagliare i ponti col proprio passato per forgiare un sé del tutto nuovo. Lasciatosi alle spalle il conformismo borghese e il conforto degli studi, il giovane Michel deve affrontare le conseguenze della sua scelta: una deriva sensuale, in bilico tra edonismo e nichilismo, che sfocerà inevitabilmente in tragedia.
In questo romanzo tormentosamente autobiografico, Gide disegna con maestria un impietoso ritratto, al contempo ammaliante e repellente, sviscerando un conflitto interiore personalissimo eppure universale. Un viaggio negli abissi della morale al termine del quale scopriamo che in fondo al vizio cieco, ma anche alla virtù sterile, l'unica possibilità è l'inferno.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a L'immoralista di André Gide in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
BUR
Anno
2022
Print ISBN
9788817162692
eBook ISBN
9788831807975

PARTE SECONDA

Capitolo I

Arrivammo alla Morinière ai primi di luglio, dopo esserci fermati a Parigi solo il tempo strettamente necessario per le spese e per alcune rare visite.
La Morinière, come ho detto, è situata tra Lisieux e Pont-l’Èvêque, nella regione più ombrosa e più ricca d’acque che io conosca. Numerosi avvallamenti stretti e dolci sfociano non lontano dall’ampia vallata d’Auge che di colpo si spiana sino al mare. Non ci son limiti d’orizzonte; boschi cedui densi di mistero; campi; ma soprattutto prati, pascoli dal lieve, carezzevole pendio ove l’erba folta viene falciata due volte all’anno, ove infiniti meli uniscono le loro ombre quando il sole è basso, ove passano greggi in libertà; in ogni anfratto è acqua: stagno, palude o fiume; se ne sente il frusciare perpetuo.
Ah!, come riconobbi la casa!, e i tetti azzurri, i muri di mattoni e pietra, i fossi persino, e i riflessi nelle acque calme… Era una vecchia casa, poteva ospitare anche una dozzina di persone; Marceline, tre domestici e io stesso riuscivamo a stento ad animarne una parte. Il nostro vecchio fattore che si chiamava Bocage aveva già fatto preparare alcune stanze; gli antichi mobili si svegliavano dal loro letargo di vent’anni; tutto era rimasto come nei miei ricordi, le tappezzerie non troppo logore, le camere facilmente abitabili. Per farci migliore accoglienza Bocage aveva riempito di fiori tutti i vasi a sua disposizione. Aveva fatto zappare e rastrellare il cortile grande e i più vicini viali del parco. La casa, quando arrivammo, riceveva l’ultimo raggio del sole; dalla valle prospiciente era salita una densa bruma a velare e scoprire il fiume. Ancor prima d’essere alla Morinière, riconobbi l’odore dell’erba; e, quando riudii lo stridere acuto delle rondini che volavano intorno alla casa, tutto il passato insorse d’improvviso come se mi avesse atteso sino a quell’attimo, e adesso, riconosciutomi, volesse richiudersi sul mio ritorno.
Dopo qualche giorno la casa diventò quasi confortevole; avrei potuto mettermi al lavoro: ma indugiavo, stavo ancora ascoltando il mio passato che minuziosamente mi si riproponeva, poi, fui colpito da un’emozione troppo nuova: Marceline una settimana dopo il nostro arrivo mi confidò d’essere incinta.
Da allora mi parve di doverle dedicare nuove attenzioni, aveva diritto a una maggiore tenerezza: almeno nei primi tempi che seguirono a quella sua confessione, trascorsi accanto a lei quasi ogni momento della giornata. Andavamo a sederci nei pressi del bosco, proprio su quella panchina su cui un tempo m’ero seduto con mia madre; lì ogni attimo si offriva a noi più voluttuosamente, e più insensibilmente correvano le ore. Di questo periodo della mia vita nessun ricordo si stacca nella mia mente, eppure non per questo la riconoscenza che ne serbo è minore: tutto allora si mescolava e fondeva in un uniforme benessere, allora la sera si legava al mattino, i giorni ai giorni.
Piano piano ripresi il mio lavoro, con la mente tranquilla, ben disposta, sicura della propria forza, guardavo l’avvenire con fiducia, senza febbre, con la volontà quasi addolcita dai suggerimenti di quelle terre temperate.
Indubbiamente, pensavo, l’esempio di queste terre ove ogni cosa si prepara al frutto, all’utile messe deve avere su me la migliore influenza. Ammiravo quale sereno futuro promettessero i robusti buoi, le vacche pregne su quegli opulenti prati. I meli piantati a file sui declivi delle colline annunciavano per la prossima estate un superbo raccolto; sognavo i loro rami presto chini sotto un ricco carico di frutti. Da quell’abbondanza ordinata, da quel gioioso asservimento, da quelle sorridenti colture sorgeva un’armonia non più fortuita, ma creata, un ritmo, una bellezza allo stesso tempo umani e naturali in cui non si sapeva più cosa ammirare maggiormente, tanto erano fusi in perfettissimo accordo l’esplodere fecondo della libera natura e lo sforzo sapiente dell’uomo per regolarla. Cosa sarebbe questo sforzo, pensavo, senza la possente natura selvaggia che domina? E cosa sarebbe il primitivo slancio della linfa traboccante senza l’intelligente volontà che la incanala e conduce, felice, al lussureggiante frutto? E mi abbandonavo a fantasticare su terre ove ogni forza fosse tanto regolata, ogni spesa tanto compensata, ogni scambio tanto rigoroso che la minima perdita diventasse sensibile; poi, applicando il mio sogno alla realtà, mi fabbricavo un’etica che diventava una scienza del perfetto sfruttamento di se stessi con un’intelligente costrizione.
Dov’erano finite, ove si celavano le mie turbolente sensazioni della vigilia? Ero tanto calmo che mi parevano non essere mai esistite. La pienezza del mio amore le aveva tutte sommerse.
Intanto il vecchio Bocage operava con zelo intorno a noi; dirigeva, sorvegliava, consigliava; svelava sin troppo il suo bisogno d’apparire indispensabile. Per non deluderlo dovemmo esaminare i conti, ascoltare sino in fondo le sue interminabili spiegazioni. Ma anche questo non gli bastò; fui costretto ad accompagnarlo sulle terre. La sua sentenziosa pedanteria, il suo continuo cicalare, l’evidente soddisfazione di sé, l’ostentazione che faceva della propria onestà mi esasperarono in breve tempo: diventava sempre più opprimente, e cominciavo a trovar giustificabile ogni mezzo per riconquistare la mia libertà – quando un avvenimento inatteso sopraggiunse a conferire ai nostri rapporti un carattere diverso: Bocage, una sera, mi annunciò di aspettare per il giorno seguente suo figlio Charles.
Dissi: «Ah!» con una certa indifferenza, poiché sino ad allora mi ero interessato poco o nulla dei figli che poteva avere Bocage; poi, accorgendomi che quell’indifferenza lo colpiva, vedendolo in attesa di qualche mio segno di curiosità e di sorpresa, chiesi:
«E dov’è stato sino a ora?».
«In una fattoria modello vicino ad Alengon» rispose Bocage.
«Adesso deve avere circa…» continuai, cercando d’indovinare l’età di quel figlio di cui avevo sino a quel momento ignorato l’esistenza, e parlando abbastanza lentamente per lasciare al padre il tempo d’interrompermi.
«Diciassette anni compiuti» disse infatti Bocage. «Non ne aveva più di quattro quando morì la signora vostra madre. Ah, è divenuto un giovanottone ora; e presto ne saprà più di suo padre.»
Quando l’argomento gli piaceva, nulla poteva più fermare Bocage: non notava neppure il mio tedio.
Il giorno dopo m’ero già dimenticato di quelle chiacchiere, ma Charles, verso sera, appena arrivato, venne a presentare i suoi omaggi a Marceline e a me. Era un bel ragazzo, così pieno di salute, agile, ben fatto; l’orribile vestito cittadino, indossato in nostro onore, non bastava a renderlo ridicolo; la sua timidezza aumentava lievemente il suo colorito abituale. Non pareva avere più di quindici anni tanto la vivacità del suo sguardo era rimasta infantile: si esprimeva bene, con chiarezza, senza falsi impacci; al contrario di suo padre, non parlava mai a vuoto. Non so più quali chiacchiere scambiammo quella prima sera, ero occupato a osservarlo, non trovavo nulla da dirgli, lasciavo che gli rivolgesse la parola Marceline. Ma il giorno dopo per la prima volta non attesi che Bocage venisse a prendermi per salire alla fattoria, ove sapevo che i lavori erano già cominciati.
Si trattava di riparare un deposito d’acqua. Quel deposito, grande come uno stagno, perdeva; si conosceva il punto dal quale avveniva la fuga d’acqua, occorreva ostruirlo con cemento. Per far questo bisognava vuotare prima il deposito, cosa che non veniva effettuata da quindici anni. Vi abbondavano le carpe e le tinche, alcune molto grosse, che non si muovevano dal fondo. Mi sarebbe piaciuto allevarne nei canali d’irrigazione, a beneficio degli operai, in modo che lo svago della pesca allietasse il lavoro, come si prospettava dalla straordinaria animazione di tutta la fattoria; alcuni ragazzi dei dintorni eran venuti a unirsi agli uomini. Anche Marceline ci avrebbe raggiunti più tardi.
L’acqua era già calata da tempo quando arrivai. Di tanto in tanto un gran fremito agitava la superficie e i neri dorsi dei pesci inquieti si mostravano in un lampo. I ragazzi, sguazzando nelle pozzanghere ai bordi, afferravano qualche pesciolino lucente e lo gettavano nei secchi pieni d’acqua limpida. L’acqua dello stagno che il tumultuare dei pesci intorbidiva ormai completamente era sempre più color del fango, sempre più opaca. I pesci erano più numerosi di quanto si fosse mai immaginato; quattro braccianti ne pescavano semplicemente affondando le mani a caso. Mi spiaceva che Marceline si facesse attendere, ero quasi deciso a correre a chiamarla, quando alcune grida annunciarono le prime anguille. Non si riusciva ad afferrarle, scivolavano tra le dita. Charles, che sino ad allora aveva indugiato al fianco del padre sul bordo del deposito, non resistette; rapido, si tolse scarpe e calze, depose la giacca e il panciotto, poi, tirandosi molto su i pantaloni e le maniche della camicia, entrò nel fango risolutamente. Io, subito, lo imitai.
«E allora, Charles» gridai, «non avete fatto bene a tornare ieri?»
Non rispose, ma mi guardò sorridendo, già tutto occupato dalla sua pesca. Lo chiamai subito perché mi aiutasse a individuare una grossa anguilla: unimmo le nostre mani per afferrarla. Poi, dopo quella, fu la volta di un’altra; il fango ci schizzava in faccia; ogni tanto, di colpo, si affondava e l’acqua ci arrivava sino alle cosce; ben presto fummo tutti bagnati. Nell’ardore di quel gioco scambiavamo solo qualche esclamazione, qualche frase smozzicata; ma, alla fine della giornata, mi accorsi che davo del tu a Charles, e non sapevo come e quando avessi cominciato. Quell’esercizio in comune ci aveva detto di più, l’uno dell’altro, di quanto non avrebbe fatto una lunga conversazione. Marceline non era ancora venuta e non venne, ma già io non rimpiangevo più la sua assenza: mi pareva che la nostra gioia avesse un poco da temere da lei.
Il giorno dopo tornai a trovare Charles alla fattoria. Ci dirigemmo insieme verso i boschi.
Io che conoscevo male le mie terre e mi ero poco preoccupato di conoscerle meglio, restai stupito che Charles ne sapesse tanto; conosceva i confini d’ogni appezzamento; mi rivelò, cosa che io ignoravo, l’esistenza di ben sei poderi di mia proprietà, mi rivelò che ne avrei potuto ricavare dai quindici ai diciottomila franchi di rendita e che, se ne ricavavo appena la metà, questo accadeva perché quasi tutto veniva assorbito in riparazioni d’ogni sorta e in pagamenti d’intermediari. Qualche suo sorriso, mentre esaminava le colture, mi fece presto dubitare che la coltivazione delle mie terre fosse proprio così eccellente come avevo pensato da principio e come mi dava a intendere Bocage; portai Charles sull’argomento e quel tipo d’intelligenza tutta pratica che in Bocage m’esasperava, nel ragazzo m’affascinò. Ripetemmo ogni giorno le nostre passeggiate, la proprietà era vasta e, dopo averne ben frugato ogni angolo, ricominciammo con più metodo. Charles non mi nascose l’irritazione che provava alla vista di certi campi mal coltivati, degli spazi invasi dai rovi, dai cardi e dalle erbe maligne; seppe farmi condividere quella rabbia per l’incuria, seppe farmi sognare con lui un miglior sfruttamento del terreno.
«Ma» gli dissi «chi ne soffre maggiormente? Il contadino, no? La rendita della fattoria, se varia, non fa variare il prezzo d’affitto.»
E Charles s’arrabbiava un poco.
«Proprio non ne capite nulla» si permetteva di rispondere; e io scoppiavo a ridere. «Voi considerate solo la rendita, non volete rendervi conto che così il capitale si guasta. Le vostre terre, mal coltivate, perdono a poco a poco il loro valore.»
«Se meglio coltivate potessero render di più, credo che i contadini si darebbero da fare, li so troppo interessati per non cercar di ricavare tutto il possibile.»
«Ma non calcolate» continuava Charles «la mano d’opera. Alcune di queste terre sono molto lontane. Coltivate, non darebbero frutto o quasi, ma per lo meno non andrebbero in rovina.»
La conversazione proseguiva così. A volte anche per un’ora, e sempre andando su e giù pei campi, pareva che ripetessimo sempre le stesse parole; ma io stavo a sentire e a poco a poco m’istruivo.
«Dopotutto questo riguarda tuo padre» gli dissi un giorno, spazientito.
Charles arrossì leggermente.
«Mio padre è vecchio» disse, «ha già molto da fare a sorvegliare l’esecuzione dei contratti, il mantenimento degli edifici, la riscossione degli affitti. Non ha mica l’incarico di apportar riforme.»
«E quali riforme proporresti?» insistei.
Allora lui si schermì, pretendeva di non intendersene; solo a forza di sollecitazioni, lo costrinsi a spiegarsi.
«Togliere ai contadini tutte le terre che lasciano incolte» finì per consigliare. «Se gli affittuari lasciano una parte dei loro campi in abbandono, significa che ne hanno troppi; per pagarvi; o, se pretendono di tenere tutto, alzate il prezzo d’affitto. Sono così pigri in questo paese» aggiunse.
Dei sei poderi che possedevo quello in cui mi recavo più volentieri era situato sulla collina sovrastante la Morinière; si chiamava la Valterie; il contadino che l’occupava non era antipatico; parlavo spesso con lui. Più vicino alla Morinière il podere detto «del castello» era affittato a metà, una semimezzadria che lasciava Bocage, in mancanza del proprietario assente, padrone di una parte del bestiame. Ora che era nata in me una certa diffidenza, cominciavo a sospettare che l’onesto Bocage, se proprio non mi ingannava, per lo meno mi lasciasse ingannare da molti. È vero, una scuderia e una stalla erano riservate a me, ma presto mi parve che si trattasse semplicemente d’una trovata per permettere al fattore di nutrire le sue vacche e i suoi cavalli con la mia avena e il mio fieno. Avevo sino ad allora ascoltato con benevolenza le meno verosimili notizie che Bocage di tanto in tanto mi riferiva: mortalità, malformazioni, malattie, avevo sempre accettato tutto. Bastava che una delle vacche del fattore si ammalasse e diventava immediatamente una delle mie, sino a quel momento non avevo mai pensato che qualcosa di simile potesse accadere; non avevo mai neppure pensato che se una delle mie vacche godeva di particolare salute diventava immediatamente proprietà del fattore; tuttavia alcune imprudenti dichiarazioni di Charles, e alcune mie personali osservazioni, cominciarono a illuminarmi; la mia mente, una volta messa all’erta, arrivò rapidamente alle conclusioni.
Marceline, dietro mio consiglio, verificò minuziosamente i conti, ma non riuscì a scoprirvi alcun errore; l’onestà di Bocage si rifugiava lì. Cosa potevamo fare? Lasciar correre. Ma almeno, con una sorda irritazione, io adesso sorvegliavo le bestie, pur cercando di non farlo capire.
Avevo quattro cavalli e dieci vacche: abbastanza per tormentarmi. Dei miei quattro cavalli uno veniva chiamato ancora «il puledro», benché avesse più di tre anni; lo stavano in quel momento addestrando; cominciavo a interessarmene quando un giorno vennero ad annunciarmi che era assolutamente intrattabile, che non se ne sarebb...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione di Oreste Del Buono
  4. Cronologia della vita e delle opere
  5. Bibliografia
  6. L’IMMORALISTA
  7. Prefazione
  8. A HENRI GHÉON. il suo vero amico. A.G.
  9. PARTE PRIMA
  10. PARTE SECONDA
  11. PARTE TERZA
  12. Copyright