La scelta di Enea
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La scelta di Enea

Per una rifondazione della società

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La scelta di Enea

Per una rifondazione della società

Informazioni su questo libro

"L'uomo è un essere imitativo, apprende la vita con gli occhi. Questo è il motivo per cui in ogni tempo e in ogni luogo ha sempre fissato lo sguardo su qualcuno per capire se stesso." Ed è proprio questa sua peculiare caratteristica ad aver dato origine a testi come l'Iliade, l'Odissea, l'Eneide, ma anche testi sacri come la Bibbia o in tempi più recenti la Divina commedia, le commedie di Shakespeare, o spostandoci verso i giorni nostri Il Signore degli Anelli e forse anche lo stesso Harry Potter. Testi che toccano l'immaginario collettivo presente in ciascuno di noi e lo guidano, attraversando così i secoli e le generazioni. Tra queste opere ce n'è una che, secondo Epicoco, si presta più delle altre a essere la chiave di lettura del presente: l'Eneide di Virgilio. "Alcuni passaggi decisivi della vita di Enea e della sua personalità mi sono parsi i più congeniali a illuminare il tempo attuale." E così, dopo una riscrittura in chiave narrativa di quei passaggi, l'autore condivide con noi una riflessione più ampia del tema di fondo allo scopo di "ricollegare l'immaginario con la storia attuale e con le possibili scelte e opportunità che ci si aprono davanti." La scelta di Enea diventa così la rilettura di un'opera fondante della nostra cultura e al contempo uno strumento per interpretare la contemporaneità. Una lente attraverso la quale riflettere sul presente che "scarseggia di speranza e ha bisogno di guardare e di credere nella primavera in attesa sotto la neve dell'inverno che stiamo vivendo."

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2022
Print ISBN
9788817160957
I

La fine di Troia

Sul trauma
Ogni volta che avanzava il buio per Enea cominciava sempre una battaglia. Non poteva, infatti, chiudere gli occhi che subito piombavano nella sua memoria frammenti di quella notte in cui Troia fu presa. Sentiva il fiato corto, scorgeva brandelli di volti di persone amiche mai più riviste. Da quella notte in poi, per lui non c’era stato più riposo, neanche quando aveva ritrovato una terra, una casa, un nuovo inizio. Ci sono cose, infatti, che non ti togli più di dosso. Non c’è sollievo da certi dolori o da certi amori. Ti marchiano a fuoco e, di tanto in tanto, ne senti ancora il bruciore, il dolore, la gioia. Tante cose, fortunatamente, nella vita le dimentichiamo, perché sarebbe assurdo portare il peso di tutto, ricordare tutto. Altre invece rimangono con noi e ci fanno compagnia per il resto dei nostri giorni. Anche Enea aveva ricordi così. Aveva ricordi di grida e di fuoco. Aveva ricordi di profumi aspri di fumo e la tremenda sensazione del fiato che ti manca, e del cuore che ti si scioglie dentro come cera. Non aveva mai avuto paura di morire, ma era il pensiero della morte dei suoi cari che lo tormentava. Siamo sempre più vulnerabili riguardo a ciò che amiamo che non nei confronti di noi stessi.
La cosa drammatica di certe esperienze traumatiche sta nell’ossessivo impulso di incolparsi dell’accaduto, e tutto diventa una tremenda ripetizione nella testa di ogni evento nella sequenza in cui è accaduto, e di tutte le alternative che avremmo potuto scegliere ma che non abbiamo scelto.
Era così anche per Enea. Quando lo svegliarono la mattina in cui i greci sembravano aver tolto l’assedio alla loro città, fu tra i primi a correre armato verso la spiaggia. Non si fidava dell’orizzonte. Eppure si vedeva bene dalle mura della città il mare calmo e libero. C’era tanto sole, e una strana bonaccia. Nessuno poteva nascondersi in quell’orizzonte così ampio. Non si può far sparire un intero esercito se non perché è andato via. Ma una sensazione nascosta non lo faceva stare tranquillo. Corse armato e poté solo constatare che quella spiaggia non era altro che una landa desolata di sabbia, con pezzi e frammenti di quell’assedio durato dieci lunghi anni. Le urla di gioia della gente riempivano il mare circostante, e solo un gigantesco cavallo nero di legno rimaneva lì, fermo, indifferente, e guardava verso Troia. Arrivò anche Priamo con tutti i dignitari di corte, persone che avevano vissuto tante guerre e che rimanevano sgomente per quel gesto così vigliacco dei greci che andavano via senza nessun preavviso. Priamo era anziano e stanco. La morte di Ettore lo aveva fatto sprofondare in una vecchiaia che sembrava fatta di secoli. Conservava quel suo portamento regale, ma aveva gli occhi spenti.
La gente, che man mano dalla città riempiva la spiaggia, cominciò a circondare quello strano cavallo. Nessuno osava toccarlo. Qualcuno gridò di dargli fuoco, altri di tenerlo come trofeo a ricordo di quel giorno gioioso. Ma ecco arrivare il sacerdote Laocoonte che imprecava contro tutto quell’entusiasmo: «Stolti troiani, come potete accettare un dono dai greci? Non accettate neppure una brocca d’acqua da quella gente furba e infingarda. Sbarazzatevi di questo idolo. Non lasciate che il fato avverso vi segua insieme al cavallo». Mentre ancora gridava ecco arrivare, trafelato e trascinato da alcuni soldati, un uomo mezzo morto, con le orecchie mozzate. Faceva ribrezzo e non riusciva nemmeno a parlare. Era un greco, forse l’unico rimasto su quella spiaggia. Si chiamava Sinone. A mezza voce chiese pietà a Priamo e raccontò una storia confusa. Era stato ridotto in quello stato dai suoi compatrioti e abbandonato volutamente lì affinché trovasse la morte. Priamo ne ebbe compassione e chiese subito il perché di quella partenza così affrettata dei suoi compagni. Sinone rispose che Agamennone, Menelao e gli altri generali erano ormai convinti che il volere degli dèi fosse a favore di Troia, e che era inutile continuare l’assedio. Così erano partiti lasciando quel cavallo come offerta per il viaggio di ritorno. Dicevano infatti: «Se i troiani lo distruggeranno, gli dèi si vendicheranno contro di loro». Priamo lanciò uno sguardo soddisfatto e pieno di sfida nei confronti di Laocoonte. Tutti sapevano che tra il re e il sacerdote non correva buon sangue. Le parole di quel servo smentivano l’ammonimento appena pronunciato. Ma Laocoonte reagì gridando: «Io vi ho avvisato!». Non aveva ancora finito di pronunciare queste parole, che dal mare si sentì come un frastuono di onde. Emerse un mostro, un serpente gigante con due teste che si slanciò verso la spiaggia. Il panico si impadronì di tutti i presenti che cominciarono a fuggire da ogni parte. Ma quel mostro non sembrava interessato a nessun altro se non ai giovani figli di Laocoonte. In un attimo li prese e li stritolò in una morsa mortale. Laocoonte tentò di andare loro in aiuto, ma anch’egli fu preso e stritolato all’istante. Poi, con la stessa velocità di come era arrivato, il mostro tornò negli abissi del mare, lasciando i corpi martoriati a terra, come un monito orribile. Tutti lo lessero come segno che gli dèi avevano punito Laocoonte per quelle parole blasfeme lanciate contro un dono votivo così importante. Immediatamente gruppi di uomini cominciarono a trascinare il gigantesco cavallo verso la città. E altri andarono a recuperare corde e tronchi per aiutarli.
Le operazioni di trasporto di quel gigantesco trofeo tennero occupati i troiani per quasi tutto il giorno. Ma finalmente a sera il grande cavallo era al centro della loro città e attorno a esso iniziarono feste e banchetti. Tutta la notte mangiarono e si ubriacarono, e persino i soldati a guardia delle mura si lasciarono corrompere da quell’euforia smettendo di guardare verso il mare e bevendo e ballando come gli altri.
Passata la mezzanotte erano tutti immersi nel sonno, sazi di vino e di cibo. Fu proprio in quel momento che Sinone, in maniera furtiva, si avvicinò al gigantesco cavallo e ne aprì una segreta botola. Nel silenzio più totale si calarono fuori Ulisse e i suoi migliori soldati. In pochissimo tempo aprirono le porte e fecero entrare tutti gli altri greci che nel frattempo, con il favore della notte, erano tornati indietro. I primi morti furono sorpresi nel sonno, solo il grido di una donna aveva fatto svegliare i soldati delle mura, ma ormai era troppo tardi, i greci erano ovunque. Enea balzò giù dal suo giaciglio e vide ciò che stava accadendo nelle strade. Si precipitò ad aiutare i suoi compagni ma si rese immediatamente conto che ormai Troia era perduta. Non sapeva se credere o meno a quello che stava accadendo. Quando la tragedia si affaccia nella tua vita non sai mai se è fortunatamente solo un sogno oppure è una realtà che non vuoi in nessun modo accettare. Enea non riusciva a pensare. Non poteva accettare che tutto il suo popolo, la sua gente, la sua storia finisse in quel modo. Ma cosa fare? Combattere e morire! Si ripeteva. Ma poi si ricordò di sua moglie, del piccolo Ascanio e dell’anziano padre Anchise, e in un istante tutta quell’adrenalina da eroe che doveva aiutarlo a morire in maniera gloriosa lo trafisse come un dolore peggiore di quello inflitto dalla spada.
Che cosa valeva di più? La gloria del suo nome o le persone che amava? L’amore, quando è vero, non conosce rivali. Enea si fece largo brandendo la sua arma e tornò verso casa. Trovò il padre seduto e la moglie con in braccio il bambino che piangeva. Si sentì sollevato nel vederli ancora vivi. Gridò: «Dobbiamo fuggire!». Ma Anchise, senza lasciarsi turbare da nessuna agitazione, disse serenamente: «Andate! Io resto qui, sarei solo di intralcio». Enea non aveva mai contraddetto il padre in tutta la sua vita, ma in quel momento lo guardò fisso negli occhi e gli disse: «O ci salviamo tutti o moriremo tutti! Decidi tu, padre!». A quel punto Anchise si alzò, andò verso l’altare domestico e prese i penati con sé. Enea se lo caricò sulle spalle, e diede la mano a suo figlio. La moglie li seguiva. Cominciarono una corsa nel buio. La sensazione di impotenza che ti assale quando accadono cose che non ti aspetti oscura ogni speranza. Dove trovava Enea la forza di correre? Solo il pensiero di quelle persone amate lo guidava nella notte. Camminava come se vedesse dove stava andando, ma la verità è che attraversava il buio correndo senza nessun riferimento. L’amore era la sua stella polare. L’amore che non vuole perdere chi ama. D’un tratto un manipolo di servi e compagni cominciarono a seguirli. Si arrampicavano in alto, nel buio degli alberi, sperando di non essere visti. Solo dopo molto Enea si fermò, pensando di essere per il momento al sicuro. A quel punto si accorse che Creusa, sua moglie, non era con loro. Si sentì venir meno. Fece smontare suo padre dalle spalle. Gli consegnò il bambino e scese di nuovo in quell’inferno come Orfeo scese negli inferi per la sua Euridice. Ma i suoi ricordi si fecero confusi. Non riusciva a ricostruire con precisione quanto aveva cercato, e dove. Rischiò più volte di essere ucciso o scoperto. Ma una misteriosa e invisibile mano sembrava proteggerlo. Negli anni a venire più volte si sarebbe domandato, oppresso dai sensi di colpa: «Perché sono sopravvissuto? Perché non sono morto come gli altri?». Strana sorte quella di chi si salva la vita. Farebbe tranquillamente a cambio con la vita di chi ama e che non ce l’ha fatta, ma non può. Vive così portandosi addosso sempre quel dolore e quella colpa di cui non si è macchiato per suo volere.
Mentre Enea correva, Priamo veniva ucciso nel suo palazzo, Elena rapita e ricondotta in patria, e ogni uomo di stirpe nobile trucidato davanti agli occhi della moglie e dei figli.
Come si può dimenticare una notte così? Come si può tornare a dormire dopo che un trauma simile ha segnato la tua vita? Ecco perché il sonno di Enea non era pace ma lotta. Il sonno di Enea era solo attesa del giorno senza alcun riposo.
Ma sapeva bene anche lui che fu proprio quel trauma, quel dolore, a spingerlo a partire. Era iniziato un cambiamento, ed era irreversibile. Come avrebbe dovuto viverlo: da vittima o da protagonista?

La vita come cambiamento

Se dovessimo dare una definizione della vita, dovremmo dire innanzitutto che la vita è cambiamento. Infatti, la caratteristica principale dell’esistenza umana è data proprio dal fatto che non è mai uguale a se stessa.
Ci accorgiamo che tutte le volte che vogliamo parlare della vita, facciamo l’errore di pensare a essa come a un oggetto che può restare fermo davanti a noi ed essere descritto, analizzato. Ma in verità la vita sfugge continuamente, è una costante evoluzione. E ciò non soltanto perché c’è un mutamento intorno a noi che ha a che fare con lo spazio e il tempo, cioè con quell’unità di misura che ci parla e ci racconta il cambiamento, ma perché fondamentalmente siamo noi a essere diversi davanti agli stessi eventi, davanti alle stesse cose. Ognuno di noi è in continuo divenire. Quindi, se volessimo dire qualcosa della vita, dovremmo innanzitutto dire qualcosa sulla natura del cambiamento.
Tutti i cambiamenti sono uguali? La risposta è no.
Possono esserci dei cambiamenti che definiamo indolori, semplicemente perché sono passaggi della vita impercettibili alla nostra coscienza. Ad esempio, quasi mai percepiamo la crescita, anche limitandoci a quella del corpo o delle nostre consapevolezze interiori. Sono sempre gli altri, a distanza di tempo, che incontrandoci registrano e ci riportano un cambiamento, ci danno un feedback rispetto a qualcosa che per noi invece è stato impercettibile.
Il grande cambiamento della vita è quasi sempre così, indolore.

I cambiamenti indolori

Bisogna avere una buona pratica di vita interiore per accorgersi di questo tipo di cambiamenti. Infatti, solo e soltanto quando siamo allenati a osservare noi stessi, a essere vigili rispetto ai nostri pensieri, alle nostre reazioni, solo allora riusciamo ad accorgerci anche dei mutamenti e delle evoluzioni della nostra vita.
Molto spesso pensiamo di essere diventati delle persone diverse, semplicemente perché abbiamo cambiato idea o opinione rispetto a un argomento, a una situazione specifica. Ma la verità di un cambiamento non è mai nella parte consapevole di ciascuno di noi, è nel modo implicito con cui reagiamo davanti ad alcune esperienze. Posso dire di essere maturato se davanti ad alcune esperienze che la vita mi riserva ho delle reazioni immediate diverse da quelle che avevo prima. Incontrando ad esempio il giudizio malevolo di chi mi sta accanto, la mia reazione era prima di rabbia, di rancore, di desiderio di vendetta, e invece adesso mi accorgo di non comportarmi più nello stesso modo, di conservare una certa pace interiore nonostante l’asprezza di alcune affermazioni fatte nei miei confronti. Questo tipo di reazione immediata, che non interessa esplicitamente la nostra parte consapevole, racconta molto di quanto siamo cambiati interiormente.
Ecco allora che il vero metro di giudizio dei cambiamenti impercettibili è dato dall’osservazione del nostro modo di reagire davanti a ciò che ci capita. Dobbiamo stare però attenti a non trasformare questa attenzione nei confronti di noi stessi in una forma di narcisismo; infatti non è tanto il guardare la nostra immagine, il compiacersi della idealità con cui raccontiamo noi stessi a noi stessi, ma è invece assumere uno sguardo distaccato, diverso su di noi, neutrale, non moralistico, che prima ancora di giudicare, di catalogare, di classificare quello che vediamo di noi, lo accoglie, lo osserva e lo rende visibile alla nostra consapevolezza.
Una certa tradizione cristiana ci ha portati a sviluppare quello che col tempo abbiamo definito l’esame di coscienza come una specie di giudizio rispetto a noi stessi. Ma basta frequentare i grandi Maestri di vita spirituale della stessa tradizione cristiana per accorgerci che sono proprio loro a metterci in guardia da questo tipo di rischio. Infatti un pensiero, un’emozione, non possiamo definirli buoni o cattivi perché in realtà sono neutri, cioè in sé non sono né buoni né cattivi anche quando esplicitamente ci dicono cose che sono giuste o sbagliate. È il modo con cui reagiamo davanti a quei pensieri e a quelle emozioni a dirci se poi hanno suscitato un bene o un male dentro di noi. Colpevolizzarsi solo per il fatto di aver pensato delle cose o di averne provate altre è un errore molto grande.
Il senso di colpa spesso ci priva della consapevolezza interiore. Per paura di essere giudicati evitiamo anche di essere esaminati dalla nostra coscienza. Si viene a creare così in noi una doppia situazione negativa: o ci guardiamo per compiacerci oppure evitiamo di guardarci per non avere la sensazione di essere colpevoli rispetto a quello che troviamo dentro di noi.
Ma per tornare al nostro discorso precedente, dovremmo dire che per poterci accorgere di questi cambiamenti, che abbiamo definito indolori, in realtà c’è bisogno della capacità di esaminarci interiormente; e tale attenzione interiore non deve essere rivolta tanto al contenuto dei nostri pensieri o alla forma delle emozioni o sensazioni che proviamo dentro di noi, bensì al modo in cui reagiamo ai pensieri, alle emozioni e alle sensazioni che viviamo. Soltanto a partire dalla nostra reazione possiamo capire realmente quanto e come siamo cambiati. Infatti, un cambiamento è tale solo e soltanto quando è profondo, strutturale, cioè quando si esprime soprattutto nel nostro modo di comportarci e non semplicemente nel modo di ragionare.
Troppe volte abbiamo messo ordine nei nostri ragionamenti ma abbiamo conservato la stessa modalità di reazione davanti agli eventi. La scissione tra i nostri ragionamenti e il nostro modo implicito di reagire, invece di generare pace e pacificazione ci genera molto spesso conflitto.
In tal senso è molto più importante una guarigione interiore rispetto a quella semplicemente esteriore.
A questo proposito è interessante un racconto di guarigione riportato dagli Evangelisti:
Un giorno sedeva insegnando. Sedevano là anche farisei e dottori della legge, venuti da ogni villaggio della Galilea, della Giudea e da Gerusalemme. E la potenza del Signore gli faceva operare guarigioni. Ed ecco alcuni uomini, portando sopra un letto un paralitico, cercavano di farlo passare e metterlo davanti a lui. Non trovando da qual parte introdurlo a causa della folla, salirono sul tetto e lo calarono attraverso le tegole con il lettuccio davanti a Gesù, nel mezzo della stanza. Veduta la loro fede, disse: «Uomo, i tuoi peccati ti sono rimessi». Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere dicendo: «Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere i peccati, se non Dio soltanto?». Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: «Che cosa andate ragionando nei vostri cuori? Che cosa è più facile, dire: Ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: Alzati e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati: io ti dico – esclamò rivolto al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua». Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e si avviò verso casa glorificando Dio. Tutti rimasero stupiti e levavano lode a Dio; pieni di timore dicevano: «Oggi abbiamo visto cose prodigiose» (Lc 5,17-26).
Ciò che colpisce in questo racconto è la guarigione così come è concepita da Gesù. Egli la chiama remissione dei peccati. Essa è una guarigione che non tocca innanzitutto la paralisi esteriore di quest’uomo, ma bensì quella interiore, e potremmo dire che il testo evangelico testimon...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La scelta di Enea
  4. Premessa
  5. I La fine di Troia. Sul trauma
  6. II Il viaggio. La speranza come cammino
  7. III Anchise: il padre sulle spalle. Sull’inclusione della vecchiaia
  8. IV Ascanio: il figlio tenuto per mano. Sul rapporto con le nuove generazioni
  9. V Le tempeste. Sul buon uso delle crisi
  10. VI La fondazione della nuova patria. Per una società generativa
  11. Epilogo
  12. Copyright