1° settembre, giovedì
Sarà un anno bellissimo. Lo so, me lo sento. Cammino verso il mio primo collegio docenti del 1° settembre e non mi sembra vero. Di solito prendevo servizio molto dopo, ad anno scolastico iniziato. Ma quest’anno no. Quest’anno è arrivato il ruolo, il fantastico, meraviglioso ruolo. Una parola da soldati. La scuola non ti fa corsi di preparazione, semmai ti recluta, come soldato Jane. E alla fine non ti assume come farebbe una qualsiasi azienda, no. La scuola ti arruola. C’è sempre un che di bellico e militaresco nel mondo della scuola, oltre al gergo da caserma che si impara a usare quando si compila tutta la modulistica online, ovviamente.
Ruolo. Cinque lettere che cambiano tutto: cambiano anche l’estate, perché per la primissima volta nella mia vita ho trascorso i mesi più caldi non a chiedermi: “Che farò? Dove andrò?”, ma a baloccarmi con l’idea di portare avanti il lavoro iniziato l’anno precedente. A immaginarmi la mia quarta di fanciulle in fiore ancora bruchi diventare una quinta di farfalle pronte ad affrontare la maturità. A elucubrare strategie e piani di battaglia (il linguaggio militare, eccolo di nuovo) per uscire viva dalle ore con la mia quarta di meccanici termoidraulici, sempre poco propensi a lasciarsi guidare verso le rigeneranti fonti della letteratura italiana. A ipotizzare una prima di paciosi puffolotti da crescermi pian piano, perché queste sono le piccole gioie dell’insegnante: crescere insieme alle proprie classi, non abbandonarle, spiarne i mutamenti, portarle avanti fino a quando si può. E magari anche, nel frattempo, già che ci siamo, trovare la carta igienica nei bagni.
Avrei voglia di presenziare egualmente alle nomine dei supplenti, che ci saranno tra qualche giorno, soltanto per sentire chiamare il mio nome e ascoltare il coro greco che urlerà: “Ruoooolooo!”. Perché quando entri in ruolo non vieni subito depennato da tutte le graduatorie; al barbaro rito dell’assegnazione delle cattedre il tuo nome viene comunque chiamato, e tutti i colleghi, quelli preparatissimi che si studiano le immissioni, i trasferimenti e le assegnazioni, quei colleghi lì, ci tengono a indicare al banditore che si può passare oltre. Quanto li ho invidiati, per anni, quelli lì che non si presentavano più alle nomine. Quasi quasi accompagno qualche amica e mi metto lì solo per sentire l’effetto che fa.
Di tal genere, se non tali appunto, sono i miei pensieri mentre cammino per il viale e raggiungo la sede della mia scuola, l’istituto professionale dove presto servizio dall’anno scorso. Cammino decisa come John Travolta, non ho la camicia rossa e neanche il giubbotto di pelle, ma il passo è egualmente sciallo, lo sguardo egualmente fiero, il capello egualmente pietrificato. Anche perché il giorno che precede il collegio docenti del 1° settembre si va dal parrucchiere, così è inciso nel marmo, così è scritto, così dice il grande dio della scuola. Un altro rito pagano a cui non avevo ancora mai potuto accedere, dovendo sempre prendere servizio dall’oggi al domani, senza sapere bene dove e quando e senza poter prenotare una messimpiega decente. I ragazzi e i colleghi mi hanno sempre incontrata con il matitone in testa e tre metri sopra il cielo di ricrescita grigia. Adesso invece avanzo con passo deciso e voluminosi boccoloni laccati che l’umidità della Bassa sta lentamente ammosciando – e che scenderanno definitivamente dopo tre ore di effetto stalla nell’aula magna insieme a tutti gli altri colleghi, ma poco importa. È l’idea del rito che mi piace.
Mi piace tutto oggi, non c’è assolutamente niente che possa rovinare questa giornata. È un nuovo anno, un nuovo inizio, mi è addirittura arrivato il messaggio WhatsApp sul gruppo classe degli idraulici con la domanda più dolorosa di sempre: “Prof, quindi quest’anno c’è ancora lei?”. La soddisfazione di poter rispondere con sicurezza: “Sì” è stata un momento di pura poesia. Poi magari loro hanno commentato la cosa con “Che sfiga!”, “Nooooo!”, ma io questo non lo saprò mai.
L’aula magna brulica già di colleghi. Li conosco quasi tutti. Anche questo è un sollievo non da poco: abbinare i nomi alle facce e le facce alle materie. Il Rombo è già seduto. Stravaccato, in effetti. A gambe aperte, con una bellissima polo a righe orizzontali che non donerebbe neanche al più fascinoso dei divi di Hollywood, sta guardandosi intorno, cercando evidentemente il foglio firme per attestare la propria presenza. Di solito lui firma due volte, l’entrata e l’uscita, così se la cosa va per le lunghe poi si alza, dice che deve andare in bagno e non torna più. Il Ruvido, invece, è virilmente in piedi contro lo stipite della porta e consegna a tutti dei moduli da restituire firmati appena possibile. Mi saluta con un’alzata di sopracciglia.
«Sei qui?»
«Ehm, sì» rispondo senza trovare una cosa più intelligente da dire.
«Ah, ruolo» commenta lui, e poi fa una cosa a metà tra un grunf e uno snort, insomma, quei versi che fa zio Paperone quando gli sembra che manchi un sacco di decini dal deposito.
Vado a cercarmi un posto a sedere, le colleghe di lettere mi fanno cenno e mi avvio verso una ragionevole sesta fila. La prima è per i secchioni, quelli che vogliono degli incarichi – o quelli che non li vogliono, ma devono rassegnarsi e capire che, da quella posizione, si ritroveranno certamente coinvolti in qualcosa. L’ultima fila è per i fuggitivi, i casinisti e gli scoraggiati. Le file di mezzo sono per quelli che ancora ci provano ma a giorni alterni, un giorno buono e un giorno a incazzarsi, uno a domare le tigri e uno a spiegare il feudalesimo, uno a sacramentare contro la burocrazia e uno ad accompagnare i ragazzi al museo. Dopo due ore in classe, di qui a dieci giorni ci imbarcheremmo tutti volentieri su un transatlantico con destinazione la Terra del Fuoco, pur di non rimettere più piede in aula.
Mi schianto sulla seggiola di plastica, di quelle con il tavolinetto estraibile rotto, e sbircio con nonchalance l’ordine del giorno. Cosa mai succede al collegio di inizio anno? Mi immagino che mi vengano rivelati i tre segreti di Fatima, il nome dell’ottavo nano e il vero significato del finale di Lost.
In realtà la cosa è meno appassionante del previsto: dopo dieci minuti in cui il preside dal baffo sabaudo cerca con grande savoir faire di ridurci tutti al silenzio, il Ruvido balza verso il microfono, ruggisce un: «Preside, permette?» e ringhia, con il tono di voce di Tarzan dopo che ha messo la pianta del piede su un cubetto di Lego: «Allora, se riusciamo a stare zitti magari cominciamo!».
In un attimo si sentono rotolare perfino le balle di fieno nei campi a cento chilometri da qui.
Non appena tutti osiamo lentamente concederci il lusso di tornare a respirare, e qualche ardimentoso osa persino sussurrare, avverto qualcosa pungermi la schiena.
Mi volto, ed è la Decana che attira la mia attenzione toccandomi appena con la matita.
«Hai sentito la bella novità?» mi chiede.
Ora, a scuola di novità ce ne sono parecchie e in genere arrivano tutte dall’alto. Ma che siano belle, accade raramente. Il tono della Decana, poi, con un sorriso amaro a incresparle il rossetto color corallo, non mi lascia presagire niente di buono.
«Quale novità?» chiedo con gli occhi da Bambi e la faccia da scema, due cose che mi riescono sempre piuttosto bene.
«Le classi. I numeri. Tu che classi hai?»
Intanto il preside sta leggendo con la voce di Vittorio Emanuele II una cosa che era stata messa a verbale l’altra volta, ma che forse non era stata approvata, una cosa piena di commi e di ex lege e sigle di PON POF CIAPS, quindi mi distraggo all’istante. Che classi ho? In teoria non ne abbiamo ancora parlato, ma per logica dovrei portare avanti le mie. Anzi, non si chiama logica, a scuola questo principio si chiama “continuità”. Se ci sei ancora, ti tieni i tuoi. È un sacro principio della didattica, per la continuità si lotta, è una cosa che chiedono anche i genitori – a meno che tu non sia così poco amata da far sì che chiedano chiunque purché non sia tu, e questo si chiama “peggiononpuòessere”, un sacro principio della sopravvivenza. Ma, insomma, io spero di potermi affidare alla continuità didattica, non mi è mai successo di rimanere tanto tempo in una scuola, rivoglio le mie classi.
«Perché? Cosa è successo?» domando alla Decana.
«Eh, ci sono gli accorpamenti. Se vuoi tenerti la quinta corso moda, ti prendi pure gli elettricisti!» sussurra abbastanza forte da farsi sentire.
«Cioè devo ereditare un’altra quinta?»
«No, te li tieni insieme. Accorpati. Maschi e femmine. Moda ed elettro. Sono una trentina. Pure a me hanno accorpato le terze.»
Sbatto le palpebre. L’informazione ci mette un po’ ad attraversare il padiglione auricolare, entrare nel cervello e farsi largo tra le consapevolezze. Sta lì un po’ e poi scende più giù, a metà fra la gola e lo stomaco, e giurerei che si ferma un attimo a farmi perdere qualche battito del cuore.
La mia collega di inglese, Mary Poppins, si sporge dalla sua sedia e aggiunge: «Ce l’avrò anch’io quella classe lì. Fanno le ore di laboratorio separate, e poi per italiano e inglese, e forse anche matematica, cioè le materie comuni, ce li ritroviamo accorpati».
«Ma scusa, sarà un casino! In trenta!!! E poi non si può mica fare le stesse cose, pensa di italiano, io avrei scelto testi diver…»
«Facciamo silenzio?!» ruggisce nuovamente il Ruvido, e non è che ce l’abbia con noi, è che le linee guida per redigere il nuovo PIF PUF SGNAPS sono appassionanti come la radiocronaca di un’amichevole estiva tra scapoli e ammogliati e il corpo decente sta bisbigliando, parlottando, chiacchierando, parlando, sbraitando senza ritegno.
Ci ritiriamo in un dignitoso mutismo e ci mettiamo a fare come i nostri alunni: fingiamo di ascoltare e intanto ci messaggiamo come pazze.
“I ragazzi lo sanno?”
“Forse ancora no, ma tanto non ci possono fare niente.”
“Anche noi non possiamo far niente?”
“Aspettiamo che il preside legga l’organico. Vediamo. Magari non è vero.”
“Sì che è vero, io l’organico l’ho visto.”
“Perdiamo un sacco di ore.”
“Eh, così risparmiano sugli insegnanti.”
“Macheccazzo di modo è risparmiare sulla pelle dei ragazzi???”
Quest’ultimo raffinato grido di dolore viene dalla Decana, che magari ci mette una vita a digitare sui tasti e spesso scrive tutto in maiuscolo, ma dà voce allo sdegno generale.
Io me la immagino, la mia classe tutta al femminile, innestata con gli elettricisti casinisti. Non che sia una fautrice delle classi maschili o femminili, anzi, ho sempre sostenuto che tutti dovrebbero potersi iscrivere a qualunque corso, però è un fatto che nel corso sartoriale ci siano per lo più ragazze e nei corsi di riparazioni più ragazzi. Le cose stanno lentamente cambiando, ma per adesso è così. E io non posso pensare di ritrovarmi in quinta trenta persone di cui la metà sconosciute, da amalgamare e integrare come ingredienti di una maionese destinata a impazzire. Trasformare due classi che non si conoscono in una sola, nell’anno della maturità, sarà pure un risparmio per il ministero della Magia, ma dal punto di vista didattico è come La corazzata Potëmkin: se il preside si mette a leggere ufficialmente questa cosa, io mi alzo come Fantozzi e dico apertamente che è una cagata pazzesca.
Invece non lo faccio. Resto ammutolita ad ascoltare la lettura. Rispetto allo scorso anno, tutti abbiamo meno classi e più numerose. Alza la mano la Decana, protesta anche vivacemente, la vena le pulsa in modo preoccupante sulla tempia, ma lo stesso preside, che pure ha il baffo che freme di indignazione, ribatte di aver già tentato con ogni mezzo di cambiare la situazione, che purtroppo gli è stata imposta dall’alto.
«Sarò sincero, non piace neanche a me. Comprendo il vostro malcontento. Vi assicuro che ho già fatto presente la cosa, ma vi invito a scrivere nelle sedi opportune, in virtù del principio secondo cui più siamo a rompere le scatole più possibilità abbiamo di essere ascoltati. Quelli che per voi sono i vostri ragazzi, negli uffici scolastici sono soltanto numeri da sommare e sottrarre per ottenere il miglior risultato con la minor spesa. Non so se riusciremo a farlo capire, ma almeno potremo dire di averci provato.»
Quell’uomo, a tenere discorsi alle truppe sui campi di battaglia, si sarebbe fatto seguire fino agli ultimi confini della Terra. Sento le dita prudere, ho intenzione di vergare una vibrante lettera di protesta. Ho sempre avuto una fiducia smisurata nel potere della parola scritta. Sarò pacata ma decisa, esporrò motivazioni didattiche, pedagogiche, umane. Tirerò in ballo la sicurezza, i metri quadrati delle aule. Tirerò in ballo la continuità. Tirerò in ballo la necessità di seguire i ragazzi con bisogni educativi speciali, metterò dentro un sacco di sigle e abbreviazioni, citerò pure la Montessori, se serve. Fortuna che le ragazze di quinta non lo sanno ancora. Non la prenderebbero bene di sicuro.
Il telefono, invece, vibra e si illumina. Una notifica. Un messaggio. Riconosco la foto profilo, è Chioma di Fuoco, la mia alunna più combattiva, una valchiria dallo sguardo tagliente con un serpente di capelli color incendio di Roma.
“Prof? Ma è vera ’sta cosa che siamo in classe assieme a quelli di un’altra quinta?”
Le fughe di notizie viaggiano alla velocità del suono.
“Pare di sì, vediamo” rispondo vaga.
“Non ha idea, prof. Facciamo un casino. Spacchiamo tutto.”
Ecco. L’hanno presa bene.
Sarà un anno bellissimo.