Amore è una parola che indica un sentimento universale, che tutti usano, ma alla quale ognuno attribuisce un significato diverso, personale, dato dalle proprie esperienze di vita, dal proprio vissuto.
Ci hai mai pensato? Tutti usano questa parola, ma ognuno la interpreta a modo suo, a seconda di ciò che lo ha condizionato nella vita.
C’è chi ha assistito all’idillio d’amore dei propri genitori, sempre felici e sorridenti, e chi invece ha visto la propria famiglia sgretolarsi e autodistruggersi proprio a causa di un amore inesistente e malato.
C’è chi ha vissuto il vero amore nei confronti dei propri nonni, del proprio animale domestico, chi non ha mai avuto queste fortune e chi si è creato un’illusione d’amore guardando le commedie romantiche.
Tutte queste diverse rappresentazioni dell’amore creano in noi delle aspettative: cresciamo abbinando alla parola un determinato tipo di relazione e, inconsciamente, decidiamo che «quello per noi è il vero amore». Quante volte ci siamo trovati a guardare la relazione di qualcun altro e pensare: “A me questi non sembrano innamorati”. È normale che succeda, perché stiamo utilizzando dei parametri personali, basati sulla nostra esperienza, per valutare gli altri. Questo concetto è la base del «giudizio», ma ne parleremo più avanti…
Il fatto è che tutti noi, sebbene la parola sia la stessa, trattandosi di un sentimento, le attribuiamo un significato diverso.
Per me l’amore sono i miei nonni che mi hanno cresciuta come una figlia fino ai sei anni. Abitavamo in campagna, facevamo una vita semplice, non avevo giocattoli e passavo le giornate in compagnia di mia nonna aiutandola in cucina, con le faccende, giocando in giardino, nella natura. Era un sentimento semplice, puro e sincero: ricordo quegli anni come i più belli della mia vita.
Per me l’amore è mio nonno che per sette lunghi anni è rimasto accanto a mia nonna, seduta su una sedia a rotelle, incapace di intendere e di volere, prendendosi cura di lei ogni giorno, gioendo per ogni piccolo cenno, finché lei non ce l’ha fatta più.
Per me l’amore è Luna, la mia gattina, arrivata nella mia vita quando io ero ancora all’inizio del mio lungo e tortuoso percorso; quando mi sentivo inutile e non ero in grado di prendermi cura di me stessa è arrivata lei che si è affidata a me affinché la accudissi. Mi ha fatto sentire importante, avevo compreso che la sua vita dipendeva interamente da me, dovevo nutrirla e curarla, e per me è stato terapeutico; da ormai ben sette anni siamo inseparabili, amo all’inverosimile quella bestiolina alla quale devo la vita.
Per me l’amore è Jimmy, il mio fidanzato da oltre nove anni, che è arrivato nel mio periodo più buio, quando vivevo nella sofferenza, e si è da subito preso cura di me.
Sono stata fortunata: nel pieno della mia malattia, ho incontrato una persona disposta ad amarmi. Un Jimmy diciottenne – forse ancora troppo immaturo per capire il buio che mi attanagliava, forse troppo maturo per lasciarsi intimorire – mi ha raccolta quando avevo perso ogni capacità di amare.
Ero indifferente a me stessa, ero indifferente al mondo. Le giornate mi passavano davanti senza che io le vivessi, ero presente ma ero assente, ero un’anima che vagava in un corpo scarno. Ero incapace di provare emozioni, men che meno ero capace di provare sentimenti per qualcun altro. Ero pronta ad accogliere una persona, permetterle di amarmi e riuscire ad amarla? No. Probabilmente, se fossi stata lasciata a me stessa, non lo sarei mai stata.
Per quanto possiamo credere di essere la nostra unica forza, per quanto possiamo credere di poter contare sempre e solo su di noi, ci sono momenti e «stati d’essere» in cui entriamo che non ci permettono di rialzarci senza l’aiuto altrui. E così è stato per me. Con delicatezza, Jimmy si è fatto spazio nelle mie tenebre portando in mano un lumino che poi è diventato una luce sempre più grande che è riuscita a illuminare ogni parte di me. Con lui ho imparato ad amare, gli altri e me stessa, ma soprattutto lui mi ha insegnato a lasciarmi amare. Che non è facile. Significa aprirsi a qualcuno, svelare se stessi e correre il rischio di essere calpestati. Per questo tiriamo su difese, e così spesso la paura di soffrire per amore ci limita nell’amare. È un meccanismo di autodifesa, ma è anche un meccanismo di solitudine. Quella in cui io per troppo tempo mi sono rinchiusa.
Amare Jimmy non è stato facile. Quando l’ho incontrato, vivevo già una «relazione»: avevo una storia d’amore malato con il mio disturbo alimentare e Jimmy era l’intruso. O meglio, questo era ciò che la vocina mi diceva. E ci sono state lotte tra loro, eh… Si sono scontrati numerose volte, io per anni ho assistito a una guerra tra Jimmy e quella stronza, fino a quando non ho alzato la voce, mi sono schierata dalla parte di Jimmy e insieme, mano nella mano, abbiamo schiacciato la nemica.
L’amore è ciò che mi ha salvato la vita. Ho scoperto che ha due lati: il lasciarsi amare e l’amarsi.
Quando mi sono finalmente sentita pronta, ho affrontato la forma d’amore più complicata e difficile da provare: quella verso me stessa. Amarsi significa avere il giusto egoismo che ci permette di rendere noi stessi una priorità. Questo non significa essere egocentrici, significa essere consapevoli del proprio ruolo nel mondo. Concentrandoci su di noi, possiamo capire cosa ci fa stare bene e cosa no, scoprendo così come imparare a stare bene con noi stessi. E nel momento in cui si sta bene con se stessi e si è sereni, attorno a noi si crea un’aura di energia positiva, che non solo permette di stare bene in mezzo agli altri, ma permette anche di far stare bene gli altri.
Quando sto bene con me stessa, sono una persona più ottimista, meno rabbiosa, energica e riesco a trasmettere emozioni positive a chi mi circonda, quando invece non sto bene con me stessa, ho attorno un’aura negativa e trascino giù tutti gli altri con il mio malumore.
Imparare ad amarmi e prendermi cura di me è stato ancora più difficile. Per il mio diciottesimo compleanno, le mie amiche mi regalarono un set profumo con bagnoschiuma di Gucci. Felice del regalo mi dissi che avrei usato il bagnoschiuma solo per le grandi occasioni. Dopo tre anni era ancora lì, appoggiato sullo scaffale che mi fissava ogni giorno nell’attesa di essere utilizzato. L’occasione giusta non arrivava mai, qualunque cosa io dovessi fare, non era mai all’altezza di quel «lusso». Con il passare del tempo, capii che il problema non era l’occasione, il problema ero io, che non mi giudicavo abbastanza di valore per coccolarmi con quel bagnoschiuma. Volete sapere come è andata a finire? Dopo quasi otto anni, ormai scaduto, aveva perso tutto il suo profumo.
AMARSI SIGNIFICA AVERE IL GIUSTO EGOISMO CHE CI PERMETTE DI RENDERE NOI STESSI UNA PRIORITÀ.
Questo episodio mi fu di lezione. Per anni non mi ero valutata all’altezza di un sapone. Viviamo in una società dove si tende a dare più importanza agli oggetti che alle persone, finendo così per usarli come metro di misura del nostro valore; se guidi un’auto costosa allora sei una persona di successo, se indossi un capo di marca allora sei trendy e così via. Non è stato facile capire che sopra qualunque oggetto, sopra qualunque cosa ci sono io, e io valgo semplicemente perché sono io. Non per ciò che indosso, non per ciò che faccio, non per ciò di cui mi circondo. Gli oggetti rimangono tali, un composto di materiali, io invece sono sentimenti, emozioni, sensazioni, empatia, capacità di ascolto, abbracci, sorrisi, gentilezza, bontà, talento…
La parola amore è una, ma le sue mille sfaccettature e interpretazioni sono capaci di condizionarci la vita. Ed è da qui che inizia il percorso di questo libro, uno specchio di ciò che è stato il mio percorso di crescita fatto di comprensione delle mie forze e debolezze, di analisi e scoperta di chi sono e del mio ruolo nel mondo, di evoluzione e di presa di coscienza. Un percorso che sto ancora seguendo perché, come dico sempre, la vita è un continuo work in progress, che ti porta a diventare, passo dopo passo, una persona dall’anima pura.
Penso che mi piaccia ogni giorno di più la persona che sto diventando.
Equilibrio. Una delle parole più usate in questi ultimi anni. Tutti parlano di equilibrio, tutti cercano l’equilibrio, eppure è così tremendamente difficile da scovare.
Cerco di essere una persona equilibrata, ma mi risulta difficile, perché la verità è che io ho una personalità addictive, ovvero ho la tendenza a sviluppare dipendenze. Lo si capisce se si considera la mia malattia: l’anoressia deriva da un disagio molto profondo, da uno squilibrio dell’anima, ma si identifica tramite la dipendenza dall’idea del cibo. Passavo tutto il tempo a bramarlo, il cibo, a cercare di evitarlo, a stilare liste di tutti i piatti che volevo consumare e, una volta che lo avevo a disposizione, di tutti i modi per non cadere in tentazione. Il cibo era diventato un pensiero fisso, attorno al quale si sviluppava tutta la mia giornata.
Sono stata dipendente dallo sport, che ho iniziato a fare in maniera compulsiva e compensatoria: i miei impegni dipendevano dai miei allenamenti, mi arrabbiavo quando un giorno non riuscivo ad allenarmi, ero completamente assuefatta al desiderio di farlo per dare una ragione e giustificare tutto il resto. Non riuscivo a darmi un freno, convincermi a non fare sport e prendermi un giorno di riposo era un lavoro estenuante di botta e risposta di voci all’interno della mia testa. Cascasse il mondo io dovevo allenarmi.
Sono stata dipendente dal fumo, più per noia che per altro. L’avevo fatto diventare una routine, scandiva le mie giornate e nottate.
Sono stata dipendente dall’alcol per la mia spensieratezza. Era l’unica soluzione che avevo per passare una serata in compagnia e sembrare divertita, divertente e libera, quando invece dentro ero apatica e triste.
Una volta iniziato, non riuscivo a darmi un freno: con tutto ciò che mi creava dipendenza, io esageravo.
La mia soluzione per le dipendenze è stata molto metodica: per quelle che non potevo completamente eliminare, come cibo e sport, ho creato delle schede e tabelle molto rigide da seguire. Era veramente una soluzione? No. Era un piccolo palliativo. Per me è stato un imprescindibile passo intermedio per potermi poi evolvere, scoprire piano piano che potevo mollare la presa, potevo saltare un allenamento e potevo mangiare qualcosa fuori programma. Si è trattato però di un percorso lunghissimo, durato anni. Curare una personalità addictive è complicato, non esiste un interruttore on-off, e quindi ho dovuto usare il dimmer. Sviluppiamo delle dipendenze verso cose che in realtà, se prese nelle giuste dosi, sono sane, cose di cui il nostro corpo si nutre e che necessita per rinvigorirsi e vivere nel benessere. Mi ci sono voluti anni di vertigini per riuscire a trovare l’equilibrio in bilico tra questi due mondi. Per riuscire a mangiare in modo sano nutrendo il mio corpo senza però denigrare alcun alimento, per trovarmi davanti a una tavola imbandita e riuscire a scegliere ciò che più mi attira senza cadere in un’abbuffata, o senza limitarmi alle cose meno caloriche. Per riuscire ad allenarmi con costanza ma non necessariamente tutti i giorni, per trovare il giusto equilibrio tra allenamenti cardio e forza, a corpo libero e con pesi, riscoprendo il divertimento e la gioia di fare sport.
Altre dipendenze, invece, quelle che se anche prese a piccole dosi non sono vitali ma rappresentano più un vezzo (fumo, alcol e dolci nel mio caso), le ho semplicemente chiuse fuori dalla mia vita. Ho smesso di fumare dalla sera al mattino. Era l’ultimo anno di triennale, avevo dato il mio ultimo esame della sessione estiva e il giorno dopo sarei partita per andare al mare insieme ai miei genitori, ignari del mio tabagismo. Decisi che quella poteva essere un’ottima occasione per smettere dal momento che non esistevano abbastanza scuse per uscire ripetutamente di casa in un paesino con cinque anime e tornare profumata come appena uscita da una profumeria. Fumai l’ultima sigaretta prima di andare a letto e dalla mezzanotte di quel giorno, ormai ben sei anni fa, non ne ho mai più riaccesa una. Ho smesso di bere e ho smesso di mangiare dolci perché ero completamente dipendente dallo zucchero. Infatti, una volta preso un sorso o dato un morso, era come se fossi in preda a un raptus irrefrenabile che mi istigava a finire il bicchiere, ordinare la bottiglia e finire anche quella, o mettere da parte la fetta e passare direttamente alla torta.
Il problema, con queste mie dipendenze concluse così di netto, è stata la paura di ricascarci. Per quanto non abbia mai più avuto alcun interesse a fumare e sia fiera di aver smesso, sono arrivata a un punto del mio percorso di vita in cui poter festeggiare con una fetta di torta o godermi un buon bicchiere di vino e lasciarmi un pochino andare senza eccessi era qualcosa che desideravo. E così ho affrontato una nuova sfida, riuscire a reintegrare ciò che avevo escluso, questa volta, però, con parsimonia. Non è stato facile, l’istinto di bere un’intera bottiglia dopo il pr...