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La questione razziale
verso la fine del secolo XIX
In Italia, come in altri paesi europei, alla fine dell’Ottocento la questione sociale era definita come la questione delle classi pericolose, da controllare e irreggimentare nell’ordine politico e nel funzionamento della produzione capitalista – in Francia ed Inghilterra con occhio rivolto più al proletariato e sottoproletariato urbano, in Italia specialmente alle popolazioni rurali. Per i nuovi movimenti sorti per sostenere la causa dei ceti subalterni la questione sociale si poneva invece come un problema di giustizia e di inclusione delle masse nei benefici che il progresso, in sé, avrebbe comportato. Per tutti il socialismo era all’ordine del giorno, come problema o come soluzione: nessuno rimaneva indifferente nei suoi confronti.
Degenerazione e razza
Nell’opera di CL, che sempre peccò per approssimazione ed eclettismo teorico, tre termini, che all’inizio erano usati sovente come sinonimi, vanno lentamente differenziandosi: atavismo (che nell’ultimo periodo definirebbe i tratti biologici del primitivo in noi), degenerazione (termine che di fatto esprime il «peggioramento» delle qualità di un popolo o popolazione, utilizzato per descrivere situazioni sociali e che negli ultimi anni si riferisce agli aspetti morali) e decadenza. Verso la fine dell’Ottocento, e accogliendo il suggerimento del giovane Ferrero (Frigessi 2003: 359), CL è incline a rendere flessibile la nozione di atavismo fino a farlo diventare un sinonimo di arretratezza di una determinata popolazione. L’ultimo dei tre, decadenza, era un termine che Lombroso non usò mai molto e verso la fine non usò più; era in voga al suo tempo, ma si riferiva specialmente a civiltà antiche o «razze». In relazione al sorgere e fiorire del dibattito sulla degenerazione in Italia – ma anche in Francia ed Inghilterra – è interessante cominciare citando l’opera di Daniel Pick, che mostra come verso la metà dell’Ottocento vi sia uno sviluppo: «uno spostamento generale dalle nozioni di individuo degenerato [...] verso una concezione bio-medica della folla e della civiltà di massa come regressione; l’‘individuo’ veniva riconcepito in relazione al complesso delle forze evolutive, razziali e ambientali che, si insisteva ora, costituivano o vincolavano la sua condizione. Con il consolidamento istituzionale del socialismo nei partiti politici europei e con la continua pressione per il suffragio universale, la folla apparentemente doveva essere riconosciuta come una realtà socio-politica che era più della somma dei suoi individui» (1989: 222). Gli anni tra il 1880 e il 1914 sono cruciali per la grande transizione dagli antichi modelli di morbilità e mortalità provocata dalle malattie infettive, dalla cattiva alimentazione e dal lavoro pesante, verso il complesso contemporaneo di disordini funzionali, infermità virali e decadimento del corpo associato alla vecchiaia. Si scoprono o si inventano una pletora di malattie, associate soprattutto all’isteria e alla sessualità, specialmente femminile. È nello stesso periodo che in Europa il ruolo della donna casalinga e della coppia (e quindi della famiglia nucleare) viene sancito. Come dice Max Nordau, nel suo classico Entartung, «ci troviamo nel mezzo di una serie di gravi epidemie mentali; una sorta di peste nera fatta di degenerazione e isteria» (Pick 1989: 537). Scrive Pick:
Lo strato più basso era un settore riconoscibile della popolazione e contemporaneamente la destinazione di tutti gli individui quando sono costretti a confondersi in folle [...]. Entrare nella folla voleva dire regredire, ritornare, essere ributtato su una certa non individualità, il minimo denominatore comune di una folla di antenati – un mondo di istinti pericolosi e ricordi primitivi. La città, la democrazia, il socialismo: tutto, a suo modo, appariva o alimentava l’illusione della capacità dell’individuo di sopravvivere intatto alla folla [...]. Non c’era nulla di nuovo nella «paura della folla» o nell’ansiosa vigilanza sulle «classi pericolose», ma alla fine del XIX secolo si assistette a un particolare tentativo di produrre una scienza positiva (un distillato di psicologia, biologia, antropologia razziale) dei tratti essenziali e metastorici della folla (luogo dell’elisione delle differenze di classe) e del suo rapporto con la «civiltà» (ivi: 223-224).
Più recentemente Simonazzi, nella sua storia del concetto di degenerazione in vari contesti e periodi tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, mostra che l’Italia fu uno dei paesi più ricettivi nei confronti della teoria della degenerazione di Morel. Ciò si deve tanto alla soggezione culturale nei confronti della psichiatria francese quanto al fatto che in quegli anni l’Italia era ancora alla ricerca di una propria identità culturale in grado di rafforzare il processo di unità politica (Simonazzi 2013: 84). Non fu comunque una prerogativa o una specificità italiana l’idea che l’uomo delinquente fosse psicologicamente e fisicamente anormale, «segnato dalla presenza di caratteri atavici e che lo studio del crimine potesse trasformarsi in una scienza positiva, in grado di riconoscere dall’aspetto fisiognomico il delinquente» (ivi: 92).
Se il successo letterario, anche commerciale, di mostri e vampiri come nel caso di Bram Stoker, era una delle conseguenze della grande preoccupazione per la degenerazione individuale e collettiva, un qualcosa che pareva essere proprio dell’epoca (Forman 2016), anche la politica non era da meno:
In politica, l’estrema sinistra e il socialismo fecero proprie le diagnosi dei teorici della degenerazione, come fu il caso di Engels, del primo Sorel, dello stesso Jaurès, mentre eugenetica, miglioramento della razza e della società poterono esser presenti sia in teorici del razzismo come Vacher de Lapouge, nello stesso momento militante socialista, che in figure come Bernard Shaw, i fabiani e i socialdemocratici tedeschi, mentre riviste teoriche francesi come La Revue socialiste e persino settimanali militanti come Le prolétaire e Le parti ouvrier, presentarono, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, questa idea di degenerazione (Gervasoni 1997: 1095).
La degenerazione era quindi una questione affrontata non solo a destra ma anche a sinistra, da Morel e Nietzsche (che considerando degenerato sé stesso ne celebrò anche i benefici, in quanto fattore di superamento della mediocrità), ma anche da Zola (con la sua Bestia umana) e, poco più tardi, Freud. Per tutti loro, comunque, evoluzione non significava di per sé progresso. Vi è inoltre l’importante fattore costituito dalla guerra a intensificare il dibattito. Già a partire dalla guerra franco-prussiana del 1870 la propaganda di guerra francese e inglese era piena di accuse ai tedeschi come una razza intrinsecamente violenta, e ciò produsse evidenze antropologiche sulla degenerazione di tale razza.
Come già segnalato, l’ansia per la degenerazione andava di pari passo con l’interesse collettivo verso il mondo del mistero. Il mistero, l’occulto, la vita dopo la morte o addirittura lo sviluppo di una teoria materialista degli spiriti rappresentano tendenze dell’epoca e delle quali CL è un ottimo rappresentante e abile specialista, a causa dei suoi interessi interdisciplinari a cavallo tra positivismo e spiritismo, medicina ortodossa e pratiche alternative, scienza e superstizione, clinica e teatro (Pick 1989: 149). Vedremo più avanti che questa sua complessità e il fatto di essere tanto un «onnivoro» – che si nutre di teorie e dati provenienti da varie fonti – quanto un poligrafo – una persona che scrive e interviene con vari mezzi, stili e registri – contribuiranno molto ad aumentarne la popolarità in America Latina.
L’ultima parte dell’Ottocento, come mostra chiaramente Clara Gallini (1983), fu inoltre attraversata da vari movimenti sincretici, soprattutto in tre direzioni: positivismo-spiritualità (ma anche medianità, spiritismo, magnetismo e magia), rurale-urbano (ed anche popolare colto, per esempio in termini di medicina popolare e lotta al malocchio) e Occidente-primitivo. Nel positivismo in sé regnano due anime: scientifica e spiritual-filosofica, e a seconda del contesto una delle due tende a prevalere. Addirittura, nella vita di uno scienziato, come CL, può affermarsi in un primo momento della sua carriera scientifica la prima e più avanti la seconda. Pare proprio che tra i positivisti, grandi chirurghi del nostro essere, si affermasse, quasi a contraltare, una forte domanda di incantamento – come se i due estremi, razionalità e mondo meraviglioso, si toccassero. Si potrebbe dire che in CL lo spiritismo/esoterismo sta alla scienza come la massoneria sta alla politica. Psicosi e psicopatie collettive erano anche esse tema di studio e di dibattito sui media dell’epoca. Non è quindi casuale che a partire dal 1896 la rivista AP introduca, oltre ad una nuova sezione sull’omeopatia, una sezione sulla medianità, nella quale ci si chiede incessantemente se i fenomeni analizzati siano associati a ciarlatani o a interpreti di poteri soprannaturali. In effetti in quegli anni vari scienziati si interessano al soprannaturale, ed è proprio uno degli allievi migliori di CL, Salvatore Ottolenghi, che nel 1900 realizza una ricerca approfondita sul magnetismo, il famoso «processo alle sonnambule». Egli divide il magnetismo in due tipi: l’essere convinti della sua esistenza avrebbe il potere di far guarire da certe malattie, creando un campo di empatia tra malato e guaritore; vi sarebbero anche però i molti trucchi dei ciarlatani. Alla stessa conclusione arrivò Alfredo Niceforo in vari articoli pubblicati nella rivista Archivi. CL rimase, invece, interdetto e, forse, più sedotto che effettivamente interessato a realizzare ricerche empiriche.
Il magnetismo ha anche a che fare col carisma e CL scrive già nel 1880 su Davide Lazzaretti, il leader messianico dell’Amiata ucciso dai carabinieri che assomiglia al leader messianico brasiliano António Conselheiro, massacrato insieme a migliaia di seguaci a Canudos (Bahia) nel 1897 e la cui personalità Nina Rodrigues studiò – senz’altro inspirato dal caso analizzato da CL. Lazzaretti sarebbe un allucinato, «teomane», monomaniaco, mattoide. La psicosi endemica è per CL, ma anche per un saggio del Sergi (1889), il motore di molte rivoluzioni. Scipio Sighele, ispirato da Tarde, scrive nel 1891 il saggio La folla delinquente. Saggio interessante perché va al di là dei motivi economici, propri delle riduttive analisi dei socialisti, ma pericoloso perché ritira dai movimenti di massa qualsiasi aspetto di emancipazione, alludendo al cosiddetto contagio morale: la folla, come la donna, avrebbe una psicologia estrema, «capace di tutti gli eccessi, forse solo capace di eccessi, mirabile per la sua abnegazione, spaventosa spesso per la ferocia, mai o quasi mediocre e misurata nei sentimenti» (lettera di Sighele a Tarde, in Gallini 1983: 305).
Clara Gallini argomenta, plausibilmente, che le fortune del magnetismo come spettacolo di massa si disfecero con l’avvento del cinematografo – la macchina che subito ottiene il monopolio della produzione di meraviglie (ivi: 117). Se il cinematografo è una alternativa meravigliosa per le folle, la svolta freudiana, che ha nella psiche dell’individuo il suo centro, crea una spiegazione alternativa alla patologia di massa. L’interesse per il magnetismo, comunque, non termina qui. La questione delle attrazioni magnetiche influenzerà alcuni anni dopo le riflessioni di Max Weber sul carisma, gli scritti di Thomas Mann sul fascino esercitato sulle folle dal fascismo (Mario e il Mago) e anche certe analisi sul «potere magnetico» dello stesso Mussolini (Sarfatti, Dux, 1926).
Il lungo Ottocento non è solo attraversato dalla ricerca di nuovi incanti o di nuove fissazioni collettive come la ricerca di una nuova purezza (Reinheit) nei corpi, nel cibo e nel rapporto colla natura, è anche il secolo della costruzione di discorsi più grandi della comunità, come quello della nazione e quindi del nazionalismo – un discorso che in sé deve superare i limiti della Gemeinschaft, la comunità più circoscritta (Smith 1998; Gellner 2006; Hobsbawm 1991). L’aumento della circolazione di immagini su genti «altre», in buona parte risultato del consolidamento degli imperi coloniali, va di pari passo con questo processo. Si potrebbero definire tre ambiti in questo senso: il circo e gli zoo umani; la circolazione della cultura a mezzo stampa; il mondo dell’Arte con la maiuscola – e il suo consumo. Tanto le celebrate esposizioni internazionali e universali quanto le più numerose e frequenti esposizioni nazionali – ispirate anch’esse dal grande registro visuale sviluppato da quelle universali – sintetizzano questi tre ambiti di una nuova cultura visuale. È un periodo che corrisponde ad una autentica ansia per il collezionare e l’esporre tutto ciò che è associato tanto agli uomini primitivi lontani come agli incivili o ai pericolosi tra noi.
Cominciamo con i circhi: «Lo spettacolo di piazza è per tradizione il luogo della mescolanza: gli artisti (cantastorie, saltimbanchi, ciarlatani) sono sempre stati itineranti [...]. Alla fine del secolo, nuove e più moderne tendenze monopolistiche si introdurranno in questo mondo, mettendo in crisi (comunque relativa) le compagnie minori [...], per lasciare sempre più spazio all’emergenza di compagnie tedesche e americane, e quindi all’enfasi sul potere – economico e culturale – di determinate nazioni ‘forti’» (Gallini 1998: 532). L’esotico è dipinto nei fondali fiabeschi e il personaggio esotico è rappresentato in carne ed ossa o immagine nei vari giochi di destrezza. Del selvaggio, spesso di pelle nera, africano o azteco, l’imbonitore racconta gli aspetti più terribili del suo essere e del suo ritrovamento (ivi: 534). Anche se la fruizione estetica ci appare – e deve apparire – più innocente e meno marcatamente razzista, in questo mondo sorgono grandi impresari dell’esotico e primitivo, come la famosa impresa tedesca Hagenbeck che, dopo aver importato animali selvaggi, passa a importare gruppi di indigeni, per creare villages nègres (ivi: 535; Sordi 1980). Gli zoo umani, con la loro incredibile popolarità, preparano quindi il terreno per una nuova cultura visuale, di cui passo a tracciare l...