I ragazzi di Leningrado
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I ragazzi di Leningrado

Memorie di uno studente italiano in Urss

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I ragazzi di Leningrado

Memorie di uno studente italiano in Urss

Informazioni su questo libro

L'esperienza unica di alcuni ragazzi italiani che all'inizio degli anni Sessanta, in piena Guerra fredda, varcano la Cortina di ferro per studiare in Unione Sovietica.
L'esperienza unica di alcuni ragazzi italiani che all'inizio degli anni Sessanta, in piena Guerra fredda, varcano la Cortina di ferro per studiare in Unione Sovietica.Una pagina del tutto inedita nella storia dei rapporti italo-russi.
Una Russia che era Unione Sovietica, una San Pietroburgo che si chiamava Leningrado. E uno studente italiano che vi approda, nel 1962, con una borsa di studio del Partito comunista. Attraverso i corridoi dell'università e le vie della metropoli, Carlo Fredduzzi ci svela la vita quotidiana dei cittadini sovietici. E i racconti e gli aneddoti di quegli anni svelano una pagina sconosciuta nella storia dei rapporti italo-russi: l'esperienza unica degli oltre cento italiani che tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, in piena Guerra fredda, varcarono la Cortina di ferro per studiare in Unione Sovietica.

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L’universo femminile sovietico negli anni Sessanta

In quegli anni, le donne sovietiche erano incredibilmente emancipate, se paragonate alle donne italiane o forse, anche a quelle di tutto il mondo. La prima delle cause di questo atteggiamento era probabilmente la coabitazione, che comportava non poche spiacevoli conseguenze soprattutto alle giovani coppie costrette a rinunciare alla propria intimità.
Le kommunalki erano antichi appartamenti borghesi – quasi nobiliari – del periodo precedente alla rivoluzione. Dopo il 1917, ogni famiglia ne occupava una singola stanza con i servizi in comune – cucina, toilette, bagno e sgabuzzino. Questo creava situazioni a volte comiche ma il più delle volte sgradevoli: le coppie di giovani sposi vivevano in un’unica stanza con all’interno un letto e un piccolo mobile, insieme ai genitori di lui o di lei. Lo spazio occupato dai loro parenti era delimitato solo da un lenzuolo appeso a una corda. La situazione era veramente intollerabile e la prima conseguenza non poteva che essere la mancanza di intimità. Non serviva a nulla tapparsi la bocca per soffocare i propri lamenti d’amore: le brandine cigolavano e gli adulti, dall’altro lato del lenzuolo, capivano subito la situazione. Superato un iniziale smarrimento, sorridevano abbracciati all’idea di avere presto un nipotino o una nipotina. Questa situazione si aggravò con l’assedio tedesco della Seconda guerra mondiale. Solo le coppie che avevano la fortuna di lavorare nella stessa fabbrica o nello stesso ufficio approfittavano dell’intervallo del pranzo per soddisfare i propri bisogni sessuali. Nonostante ciò, si calcola che nei decenni del periodo postbellico la natalità in Russia – in particolare a Leningrado – sia aumentata enormemente, superando anche il numero dei divorzi “facili” (si ottenevano in pochi giorni) che questa situazione comportava. L’istinto di sopravvivenza dopo la tragedia della guerra si manifestava. E, forse, anche il desiderio di una vita più appagante.
Quando, più di cinquant’anni fa, arrivai in Russia e mi trasferii a Leningrado, venni colpito dalla libertà sessuale delle donne russe: disinibite, pronte a farsi avanti con gli uomini, libere, anche se la sessualità finiva col trasformarsi in una normale pratica da svolgere, priva di fantasia e vero coinvolgimento. Gli uomini sovietici mi spiegarono che questo comportamento era fondamentalmente dovuto a tre fattori: il primo era l’educazione che avevano ricevuto, che contemplava un’assoluta parità tra uomo e donna e che quindi assicurava anche alle ragazze il diritto di esaudire i propri desideri e appetiti, senza però ostentarli e possibilmente senza uscire dall’ambito della famiglia. Il secondo era legato alle conseguenze della guerra in termini di vittime umane, soprattutto uomini. Il Paese contava difatti milioni e milioni di vedove, sorelle e figlie senza sostegni maschili in famiglia (non dimentichiamo che l’Unione Sovietica, secondo stime recentissime, ebbe complessivamente 26 milioni e mezzo di caduti, principalmente uomini, in gran parte giovani). Il terzo elemento era un corollario del secondo: negli anni Sessanta in Russia si contavano tre donne per ogni maschio dai 18 ai 40 anni e quindi, prima ancora di trovare marito, la donne desideravano soddisfare le proprie pulsioni.
Negli ostelli studenteschi le ragazze potevano incontrare giovani di tutto il mondo. Il luogo più adatto era il tavolino del bar, sorseggiando un nauseante caffè americano o mangiando un panino.
Un giorno venni avvicinato da una bella ragazza. Aveva lunghi capelli neri, non era alta, ma aveva un corpo ben proporzionato, molto esuberante. Si faceva chiamare Nelly, anche se il suo vero nome era Natalja. Aveva divorziato dal primo marito russo, proveniva da una famiglia ebraica dell’Ucraina. Il padre faceva il calzolaio e la madre, oltre ad accudire la casa, era insegnante di sostegno in un asilo nido. Proprio in quel periodo stava nascendo il movimento degli ebrei russi che volevano lasciare il Paese: avevano il sostegno delle associazioni ebraiche israeliane e americane che fornivano garanzie alle autorità sovietiche in fatto di accoglienza a coloro che lasciavano l’Urss per “il mondo libero”. Il movimento era ancora in nuce e avrebbe assunto una certa importanza solo a partire dal 1971. Tuttavia già allora cominciavano a esserci casi sporadici di ebrei che chiedevano di espatriare e che vi riuscivano, dopo una lunga trafila burocratica di controlli. Ben presto la condizione degli ebrei in Russia divenne un elemento di contrapposizione politica tra Mosca e l’Occidente, in particolare per Tel Aviv e Washington. Cominciava così la lunga querelle sui diritti umani che avrebbe sempre diviso i due blocchi e che, gradualmente, avrebbe coinvolto dissidenti politici, scrittori in lotta con la censura sovietica e comuni cittadini.
Nelly non aveva ambizioni, rivendicazioni politiche o etniche di alcun tipo. Voleva solamente andarsene dall’Urss usando un sistema ben noto: trovare uno straniero che le consentisse di varcare la cortina di ferro. Poi sarebbe stata libera di girare il mondo. Ma aveva un problema in più, rispetto alle altre ragazze ebree: far espatriare i vecchi genitori. E questa era certamente un’incombenza seria, perché i genitori di una ragazza sposata con uno straniero potevano sì andare a trovare la figlia, ma a turno: l’altro doveva rimanere in Russia come “garanzia” o, sarebbe meglio dire, come ostaggio. Allo stato occorreva un deterrente contro la possibilità che l’altro coniuge non tornasse più indietro. Ecco perché Nelly non si poneva problemi ad andare a letto con gli stranieri. Era sempre alla ricerca di qualcuno che fosse colpito dalle sue arti amatorie – che dovevano essere notevoli – e dai suoi modi gentili e raffinati, piuttosto diversi da quelli della stragrande maggioranza delle ragazze russe dell’epoca, che badavano più al sodo che all’eleganza. Lei aveva in mente solo questo: emigrare, ma in modo regolare, senza sbandierare la sua nazionalità ebraica che nel frattempo era riuscita a nascondere conservando il cognome del marito, dopo il divorzio. Questa prassi era molto in voga, a prescindere dalle origini: molte donne russe dopo il divorzio avevano conservato il cognome dell’ex marito.
Insomma, Nelly cercava un marito straniero, ma non uno qualsiasi. Mi diceva che non avrebbe mai sposato un arabo, o un africano, un asiatico o un latino-americano. E neppure un europeo dell’Est. Perché nel futuro compagno – anche se doveva essere per lo più uno strumento per espatriare – cercava «un uomo con certe qualità intellettuali e civili», così diceva. L’ideale? Un italiano, un francese o uno spagnolo. Certo, un americano o un canadese sarebbe stato davvero il massimo, ma Nelly sapeva che era molto difficile.
«Perché pensi che sia difficile?» le chiesi.
«Voi europei pensate a divertirvi, e alla fine sposate solo le vostre donne. Anche a me il divertimento piace, ma so che l’anello debole del mondo maschile non sta nell’Europa mediterranea, ma altrove. Quanto ai nordamericani… in tanti anni, non ne ho visto nemmeno l’ombra!».
L’intelligenza femminile si esprimeva anche e soprattutto sul terreno della moda e, più in generale, delle tendenze.
Era il maggio 1963 e stavo concludendo la facoltà preparatoria per l’accesso all’Università statale di Leningrado come studente straniero. La primavera era arrivata in anticipo di qualche settimana rispetto al previsto e le belle giornate avevano causato un improvviso disgelo delle acque della Neva. Una mattina, mentre mi avviavo verso la fermata del bus che mi avrebbe portato davanti al Monastero Smol’nyj, vicino alla mia facoltà, notai una cosa strana: le ragazze sembravano più alte. Guardai meglio e mi accorsi che a tutte erano cresciute le gambe. Le loro facce sfoggiavano ampi sorrisi e guardavano i ragazzi con un certo compiacimento. Arrivato in facoltà, ritornai in me: lì eravamo tutti stranieri, comprese le ragazze, e non vedevo niente di strano. Nel nostro gruppo italiano c’era anche Amelia che vestiva come al solito pantaloni e maglietta nera. Le chiesi se avesse notato qualcosa di strano nelle ragazze.
«La mattina fino alle 9.00 dormo in piedi, non vedo e non sento nulla. Mi sveglio solo dopo il caffè» mi rispose.
Alla fine della lezione mi fermai a parlare con Varvara Mikhailovna.
Le raccontai dello strano fenomeno delle gambe allungate a cui avevo assistito quella mattina Lei sorrise, mi prese da parte lontano dagli altri. «Ma non te l’hanno detto all’ostello studentesco?» mi disse.
«Cosa?».
«Da ieri le emittenti estere che riusciamo a captare hanno annunciato che c’è una nuova moda in occidente: la minigonna. Sembra che l’abbia inventata una stilista inglese. È una gonna di almeno 15, 20 centimetri più corta di quella tradizionale, arriva sopra le ginocchia».
«E allora?» replicai.
«Allora le nostre ragazze ieri notte hanno preso forbici e ago e si sono confezionate subito le loro belle minigonne casarecce. Ecco spiegato il mistero» sorrise lei.
Un semplice taglio di forbice ed erano spuntate migliaia di minigonne come funghi nel bosco dopo una pioggia abbondante. Naturalmente l’esito di quella trovata fu diverso da caso a caso, come era naturale. Ma anche le ragazze più improbabili per la loro corporatura massiccia facevano tenerezza. Era la loro rivoluzione, importata dall’Occidente in una notte d’ascolto radiofonico, e ne andavano orgogliose. Si comportavano come le loro coetanee oltre la cortina di ferro e non si sentivano da meno. In poche ore avevano compiuto un balzo in avanti di anni luce. Non importava se erano a disagio o se non apparivano sempre eleganti. Era un segnale forte verso i loro stilisti parrucconi: volevano dire no ai calzini portati fino a 14 anni, alle indicazioni del Komsomol su come abbigliarsi per evitare imbarazzanti scollature. Se non potevano scoprirsi dal seno in su si sarebbero scoperte dal basso fino a sopra le ginocchia. Che soddisfazione!
Nessuno fu capace di arrestare quella valanga rivoluzionaria, nemmeno i moniti e gli appelli moralistici alla decenza. Naturalmente, per ogni studente straniero in procinto di partire per le vacanze estive nel proprio paese aumentarono le commesse di minigonne di ogni tipo. I ragazzi non furono da meno e ci chiesero una massiccia importazione di jeans. Di marca però, così da riequilibrare il confronto con le ragazze che la minigonna aveva portato pericolosamente a loro vantaggio. Riflettendoci, dopo molti anni, mi sono convinto che la minigonna sia stata la prima rondine della globalizzazione mondiale, quasi cinquant’anni fa.
Dopo una manifestazione nell’aula magna dell’università in occasione dell’anniversario dello sbarco alla Baia dei Porci di Cuba, concluso il mio intervento, si avvicinò a me un uomo sui trent’anni, dalla stazza imponente, vestito con cura.
«Mi scusi, lei è italiano, vero? Studia qui all’università?».
Senza darmi neppure il tempo di rispondere, proseguì: «Mi chiamo Kolja, sono un assistente universitario. Ho ascoltato il suo intervento, l’ho trovato diverso da tutti gli altri e… ecco, mi piacerebbe conoscerla. Domenica è il mio compleanno, e avrei piacere di invitarla a casa mia. Vorrei presentarla ai miei amici russi».
Restai senza parole. Era avvenuto tutto così in fretta che stentai a rispondere. Dissi che non avevo con me l’agenda e non conoscevo i mie...

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. Colophon
  3. Dedica
  4. Nota dell’autore
  5. Prologo
  6. Alla politica ho preferito la storia e la letteratura
  7. Si muove il vagone blindato
  8. Mosca, un gigantesco bazar
  9. Un’attesa snervante e la nuova destinazione
  10. Alla scoperta di Leningrado
  11. Nemmeno se lo chiede Togliatti
  12. L’universo femminile sovietico negli anni Sessanta
  13. Due chansonnier e tre geniali personaggi
  14. Maria Teresa, il matrimonio e la nascita di Alessio
  15. Amori e disamori
  16. Il Kgb veglia su di noi
  17. Tutto è bene quel che finisce bene
  18. Epilogo
  19. Note sulla traslitterazione
  20. Biografie
  21. Collana Historios
  22. Ebook disponibili