La funzione Joyce nel romanzo italiano
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La funzione Joyce nel romanzo italiano

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La funzione Joyce nel romanzo italiano

Informazioni su questo libro

Esiste una funzione Joyce nel romanzo italiano? È possibile rintracciare elementi e questioni che l'esperienza joyciana ha sollevato, e con cui i successivi narratori italiani hanno fatto i conti? È insomma lecito parlare di "funzione-Joyce"? Sono queste le domande da cui scaturisce questo volume. In alcuni casi è stato necessario ritornare alla prima ricezione su rivista, in altri si sono indagate l'avanguardia e la neoavanguardia, in altri casi ancora si è puntato l'occhio sugli anni Sessanta o specificamente su Gadda. Il risultato finale è quello di una fotografia omogenea, che testimonia in che modo Joyce ha influenzato il corso e lo sviluppo del romanzo italiano del XX secolo.

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Informazioni

Valentino Baldi
LA REALTÀ DELLA PAROLA. NOMI E COSE IN JOYCE E GADDA
Introibo
Esiste una evidente sintonia tra Joyce e Gadda. Una sorta di comunione di temi e intenti; una analoga declinazione della complessità delle cose attraverso un linguaggio stratificato e mutevole; un simile destino di classici tanto istantanei quanto illeggibili, indigesti, a tratti persino noiosi. Notava con eleganza Contini, già nel 1963, che il «nome di Joyce» era «caduto ovviamente dalla penna dei primi recensenti»1 la Cognizione del dolore, ma nelle sue parole è malcelato un giudizio negativo che vale la pena di lasciar parlare: l’avverbio sta a figurare una sorta di benevolo rimprovero nei confronti dei «recensenti» che pronunciavano con trascuratezza un nome ovvio e non proprio adeguato per comprendere Gadda, almeno non adeguato quanto la «produzione francese» più vicina alle «nostre letture quotidiane» (vedi il Proust con cui si apre il saggio).2 E sarebbe possibile continuare a raccogliere giudizi simili che, per analogia o differenza, si dipanano nelle scritture critiche successive al saggio continiano. La sintonia potrebbe dunque rivelarsi un’esca per quei lettori incapaci di distinguere i due sperimentalismi e, con essi, le due tradizioni a cui Gadda e Joyce si riferiscono: «Ciò che distingue Gadda dagli autori satirici e maccheronici del passato, da Swift a Sterne, da Joyce ai diversi scrittori plurilingui e umoristici cui egli poteva guardare nell’ambito della tradizione italiana (Dossi, Faldella, ecc.) è la pratica di una disseminazione della voce narrante lungo la variata traiettoria di differenti registri linguistici».3 Un Gadda, questo di Dombroski, molto più avvicinabile a Woolf che a Joyce, cioè all’altro classico del modernismo mondiale. Se aggiungiamo che qualsiasi lettore del Racconto italiano di ignoto del Novecento ben conosce l’ostilità gaddiana nutrita nei confronti dello sperimentalismo a lui contemporaneo, non possiamo evitare di considerare quella sintonia come una effettiva trappola per recensenti alla ricerca dell’ovvio.
Nonostante simili autorevoli moniti, intendo proporre una comparazione della lingua di Joyce con quella di Gadda: in particolare, intendo lavorare sul rapporto singolare che, sia nell’Ulisse che nel Pasticciaccio, si stabilisce tra nomi e cose, tra linguaggio e referente. L’obiettivo è di impiegare questi due romanzi come figure generalizzanti, per proporre una linea di lettura formale di quel fenomeno letterario europeo, occidentale, che indichiamo attraverso la categoria di “modernismo”. Non voglio ignorare i rischi che Contini, Dombroski e altri hanno prospettato a chiunque si avventurasse su simili strade, ma tenterò di valorizzare quella linea di ricerca che si è concentrata su un’analisi linguistica e storiografica di Joyce e Gadda.4
Nella conferenza che Italo Svevo ha tenuto su Joyce a Milano nel 1927, l’oggetto di questo saggio è colto ed enunciato con particolare chiarezza.5 Ho già avuto modo, in altra sede, di analizzare alcuni passaggi della conferenza e dei suoi materiali preparatori: mi muoverò, di conseguenza, rapidamente verso il centro della questione.6 Nel frammento intitolato Joyce dopo «Ulysses», Svevo spiega che l’ambizione di Joyce è stata la creazione di un romanzo “oggettivo”, cioè di un testo che ambisse a diventare «un oggetto reale per chi lo sa guardare».7 La letteratura joyciana, la sua «oggettività», stabilisce nuovi rapporti tra parole e cose, così che la «parola si altera per aderire meglio all’oggetto e fa a meno di ogni commento».8 In un passaggio più esteso, Svevo prova a cogliere l’oggettività dell’Ulisse attraverso un aneddoto:
Non più la parola vizza per il lungo uso. E quando il Joyce mi spiegava che il pane che un bambino sogna di mangiare non può essere lo stesso ch’egli mangia quando è desto perché il bambino non poteva trasportare nel sogno tutte le qualità del pane e che perciò il pane del sogno non poteva essere fatto della solita farina (flour) ma piuttosto di una farina designata con un suono simile (flower, fiore), che le toglieva delle qualità e gliene impartiva delle altre più proprie allo stato del sogno, io subito ricordai l’oggettività dell’Ulisse.9
Spostandoci dal frammento al romanzo è possibile rilevare che il «flower» di cui Joyce avrebbe parlato a Svevo coincide col nom de plume utilizzato nell’Ulisse da Leopold Bloom – alias Henry Flower – per la sua corrispondenza (in odore di adulterio) fermo posta con Martha Clifford. All’inizio dei «Lotofagi», Bloom preleva una lettera di Martha all’ufficio postale di Westland Row, si apparta in un vicolo per leggerla e, quando apre la busta, scopre che la sua corrispondente gli ha inviato un memento romantico: «Un fiore. Mi pare che sia un. Un fiore giallo coi petali appiattiti. Allora non è irritata? Che dice?».10 Un fiore vero spunta tra le pagine della lettera e, con perfetta simmetria, un riferimento al profumo di Molly chiude il post scriptum, come a formare una cornice simbolica che ritaglia lo scritto: «P.S. Dimmi che profumo usa tua moglie. Lo voglio sapere».11 Mentre rilegge lo scritto, le parole di Martha si fondono con i pensieri di Bloom, e il segno «flower» germina:
Staccò gravemente il fiore dallo spillo che lo teneva puntato ne aspirò il quasi niente profumo e se lo mise nella tasca del cuore. Linguaggio dei fiori. Gli piace perché nessuno lo sente. Oppure un mazzolino avvelenato per levarselo di torno. Poi procedendo lentamente, rilesse la lettera, borbottando una parola qua e là. Arrabbiata tulipani con te caro uomo fiore ti punirò il tuo cactus se tu non accontenti la tua povera non ti scordar di me che voglia matta ho di violette al caro rose quando presto anemoni ci vedremo ragazzaccio belladonna profumo di moglie Martha.12
L’effetto prodotto dalla prosa è effettivamente da «sogno», perché il significante «flower» condensa e orienta i significati differenti all’interno della catena del discorso. Notiamo, per ora solo superficialmente, che si tratta della stessa tecnica impiegata da Gadda in uno dei suoi brani più rappresentativi, il sogno del brigadiere Pestalozzi nell’ottavo capitolo del Pasticciaccio:
Aveva veduto nel sonno, o sognato… che diavolo era stato capace di sognare?... uno strano essere: un pazzo: un topazzo. Aveva sognato un topazio: che cos’è, infine, un topazio? Un vetro sfaccettato, una specie di fanale giallo giallo, che ingrossava, ingrandiva d’un attimo in attimo fino ad essere poi subito un girasole, un disco maligno che gli sfuggiva rotolando innanzi e pressoché al di sotto della ruota della macchina, per muta magia.13
Entrambe le scritture affermano la dominanza del significante, creando una catena primaria a cui si adeguano le traslazioni di significato: Bloom/Flower/fiore dai petali appiattiti nella lettera/profumo di Molly/fiore annusato da Bloom (per analogia)/metafora-personificazione sul linguaggio dei fiori/sinestesia «nessuno può ascoltarlo»/analogia del bouquet avvelenato. E, nel corso della rilettura, si insinuano innesti analogici in cui nomi di fiori e piante si accumulano, rovesciando ironicamente l’ignoranza di Bloom sul nome del fiore giallo trovato dentro la busta. Lo «strano essere» del sogno di Pestalozzi nel Pasticciaccio, segue un analogo percorso metamorfico, fatto di pause e accelerazioni dovute all’iterazione di parole e sintagmi, al ritmo della punteggiatura e all’alternanza tra la paratassi dei primi periodi e il lungo periodo ipotattico che chiude la citazione. La serie pazzo/topazzo/topazio orienta, foneticamente, la mimesi delle immagini oniriche, quasi a riprodurre quella dominanza del sign...

Indice dei contenuti

  1. La funzione Joyce nel romanzo italiano
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Introduzione
  5. Joyce ipermoderno e i suoi lettori in italia
  6. La prima ricezione di Joyce
  7. La funzione Joyce nel dibattito letterario degli anni Venti
  8. Contro il romanzone analitico
  9. La realtà della parola
  10. Mappe, percorsi e sguardi
  11. Da un bordello a una tintoria
  12. Ulysses: la «moneta corrente» del romanzo sperimentale italiano anni Sessanta
  13. Il debito modernista di Vincenzo Consolo
  14. «Una temibile tentazione»
  15. La zérolangue du nonde
  16. Il cinematografo della mente