
- 504 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Catturiamo la fiamma
Informazioni su questo libro
Zafira è il Cacciatore: vestita da uomo, si procaccia il cibo perché la sua gente non muoia di fame nella foresta maledetta dell'Arz. Nasir è il Principe della Morte, incaricato di uccidere chiunque sia tanto folle da sfidare suo padre, il dispotico sultano. Se qualcuno scoprisse che Zafira è una ragazza, tutto ciò che ha guadagnato andrebbe perduto; se Nasir dovesse dimostrare compassione, suo padre lo punirebbe nel modo più feroce. Entrambi sono leggende nel regno di Arawiya. Loro malgrado.
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Informazioni
Print ISBN
9788804747659eBook ISBN
9788835718062CAPITOLO 1
LA GENTE CONTINUAVA A VIVERE PERCHÉ LEI UCCIDEVA. E se ciò comportava sfidare l’Arz, dove persino il sole non si arrischiava a gettare i suoi raggi, che così fosse.
Quando le cose andavano bene, Zafira bint Iskandar si sentiva coraggiosa più del sole. La maggior parte dei giorni, però, non vedeva l’ora di lasciarsi alle spalle l’Arz perennemente immerso nel buio e trovarsi sana e salva sulle piatte distese del suo califfato, con la neve e tutto il resto, dèma.
Ed era proprio uno di quei giorni, nonostante le corna del cervo che aveva appena abbattuto le stessero scorticando le mani. Si liberò dalle grinfie di quella maledetta foresta, fingendo di sospirare solo per la soddisfazione di aver fatto ciò che aveva in programma, anziché per la paura che in quel momento le dilagava nel cuore, dopo essere stata tenuta lungamente a bada. Il sole del mattino l’accolse baciandola sulle guance.
“Mèrhaba anche a te, codardo.”
La luce del giorno era sempre fioca nel califfato di Demenhur. Nemmeno il sole sapeva cosa fare con quella neve che avrebbe dovuto essere sabbia.
Per un istante, il bianco mare che si stendeva liscio e immacolato davanti ai suoi occhi fu un balsamo per la sua solitudine, anche se si sentiva le dita dei piedi intirizzite e l’aria frizzante le pizzicava il naso. Perché in un califfato in cui una donna rischiava sempre di vedere le proprie azioni ritorte contro di sé non c’era nulla di facile nel fingersi un uomo. Non quando si avevano curve femminili, e di una donna anche la voce e il portamento.
Trascinò la carcassa del cervo lasciandosi dietro una scia di vapore e un’inquietante traccia rossa nella neve. L’aria era carica di attesa. Una sensazione d’immobilità tra la terra e gli alberi che stormivano al vento.
“Non è niente.” Le sue ossessioni si ripresentavano sempre nei momenti meno opportuni. E lei era un miscuglio di emozioni per via delle nozze imminenti, ecco tutto.
Dal palo marcio dove l’aveva legato, Sukkar la salutò con un nitrito. Il suo mantello quasi candido si confondeva con la neve. Mentre si affrettava a legare la carcassa del cervo alla sella dello stallone, lui rimase immobile, dolce come il nome che lei gli aveva dato.
«Abbiamo fatto una buona caccia» disse al cavallo, che pure non aveva collaborato per niente, e gli montò in groppa con un balzo.
Sukkar non reagì, limitandosi a fissare in lontananza l’Arz, come se un ‘ifrìt potesse saltarne fuori per inghiottirlo in un boccone.
«Vigliacco» gli disse Zafira con un sorriso sulle labbra intorpidite.
Non c’era nessuno, però, che non si mostrasse un vigliacco al cospetto della foresta. Ognuno dei cinque califfati che componevano Arawiya temeva l’Arz, l’immensa distesa frondosa che cingeva quelle terre. Una maledizione gravava su di loro da quando il regno era stato derubato della magia.
Bàba aveva insegnato a Zafira che l’Arz, sotto tanti aspetti, era solo un bosco. Le aveva spiegato come servirsene a proprio vantaggio. Le aveva fatto credere di essere in grado di domarlo, quando in realtà era impossibile. Nessuno ne sarebbe stato capace.
E la sua morte l’aveva dimostrato.
Zafira allontanò Sukkar dalla foresta e lo condusse in direzione della radura e dell’entroterra di Demenhur. L’Arz, però, esigeva immancabilmente un ultimo sguardo. E lei si fermò a darglielo.
La foresta la stava fissando. Respirava. Gli alberi scheletrici immersi nell’ombra protendevano verso di lei le loro dita contorte.
Si diceva che l’Arz divorasse le persone come facevano gli avvoltoi con i cadaveri. Eppure Zafira ci tornava, giorno dopo giorno, caccia dopo caccia. Ogni volta che ci si avventurava era consapevole che avrebbe potuto essere l’ultima e, anche se giurava di non averne paura, il rischio di perdersi laggiù la terrorizzava più di qualunque altra cosa.
Ciò malgrado, sentiva dentro sé qualcosa che pareva gioire nell’addentrarsi fra le tenebre. Odiava l’Arz. Lo odiava al punto da bramarlo.
«Akh! Hai avuto tutto il giorno per guardare l’Arz, dèma» disse a Sukkar con la voce tremante. «Dobbiamo tornare per il matrimonio, altrimenti Yasmine ci staccherà la testa.»
Non sembrava che a Sukkar importasse. Zafira lo fece avanzare con uno schiocco della lingua. La tensione abbandonò i muscoli del cavallo a mano a mano che si allontanavano dalla foresta.
Finché un’altra presenza non gravò nell’aria.
Zafira si guardò alle spalle e le venne la pelle d’oca. L’Arz rispose al suo sguardo come se trattenesse il fiato. No, chiunque fosse era lì, a Demenhur, e sapeva imitare il silenzio quasi quanto lei.
“Quasi.”
Se c’era una cosa che temeva più di perdersi nell’Arz era lasciarsi sorprendere da qualcuno che la smascherasse, dimostrando che non era un cacciatore ma una cacciatrice, una diciassettenne che si camuffava sotto il cappuccio del mantello del padre ogni volta che andava a caccia. E a quel punto l’avrebbero emarginata e avrebbero irriso le sue vittorie. Avrebbero fatto a brandelli la sua identità. Quel pensiero le ghermì il cuore, e il suo tump tump accelerò.
Girò il cavallo verso l’Arz, vincendo la sua esitazione, mentre il vento portava l’eco di un comando indecifrabile.
«Yalla.» Con voce tesa lo spronò ad avanzare.
Sukkar scosse la criniera e si avviò al piccolo galoppo senza protestare. Si avvicinarono alla foresta e il buio si fece ancora più fitto. Che strano: al primo segno di pericolo mortale, Zafira fuggiva verso l’ignoto.
Il freddo le addentò il volto. Un lampo nero a destra, un altro a sinistra. “Cavalli.” Si morse il labbro e con uno scarto spinse Sukkar tra loro, abbassandosi quando qualcosa le sfiorò la testa.
«Qif!» gridò qualcuno, ma quale idiota si sarebbe fermato?
Sukkar. Il cavallo s’immobilizzò al limitare dell’Arz e Zafira sobbalzò in sella, ricordandosi tutt’a un tratto che non l’aveva mai portato così vicino alla foresta prima di allora. La puzza di legno marcio le aggredì i sensi indeboliti dal freddo.
«Laa. Laa. Non adesso, vigliacco» sibilò.
Sukkar scattò con la testa, ma non cedette. Zafira gettò uno sguardo nel buio della foresta quieta, e le tremò il respiro. L’Arz non era un posto cui voltare le spalle; non era un posto dove farsi cogliere alla sprovvista e…
Imprecò e costrinse Sukkar a cambiare direzione, incurante delle sue proteste.
Il vento freddo e violento lanciava il suo ululato. Lei si sentiva sul collo il feroce respiro dell’Arz. A un certo punto, però, vide i due cavalli sbuffare a pochi passi da lei, il mantello scuro come il cielo notturno e il corpo possente avvolto in cotte di maglia. Cavalli da guerra.
C’era solo un luogo dove potevano essere stati allevati: il vicino califfato di Sarasin.
O forse Rocca del Sultano. Difficile dirlo, dato che di recente il sultano di Arawiya aveva ucciso a sangue freddo il califfo di Sarasin, impadronendosi con l’inganno di terre ed eserciti di cui non aveva bisogno, non con Arawiya pacificata sotto la sua guida e gli uomini della sua guardia del corpo pronti a obbedirgli. I califfi dovevano servire a mantenere l’equilibrio dell’assetto politico. Non ci si aspettava che il sultano li levasse di mezzo.
In groppa ai cavalli c’erano due uomini dalle braccia nude e muscolose, i volti affilati. Avevano la pelle del colore di chi vive a lungo sotto il sole, il flusso e il riflusso del deserto che Zafira desiderava.
«Yalla, Cacciatore» disse il più grosso dei due. Come se lei fosse una bestia da condurre al pascolo, pensò Zafira mentre le cadeva lo sguardo sulla scimitarra che impugnava.
Se ancora aveva dei dubbi sulla loro origine, il timbro della voce bastò a dissiparli. Le si chiuse la gola. Avere alle calcagna dei demenhune ficcanaso era una cosa, subire l’attacco dei sarasin un’altra.
Chinò la testa in modo che il cappuccio le scivolasse ancora di più sul volto. Lei sfidava le tenebre per uccidere cervi e conigli. Non si era mai trovata davanti a una lama.
A dispetto del loro atteggiamento minaccioso, però, gli uomini rimasero fermi dov’erano. Persino loro temevano l’Arz. Zafira sollevò il mento.
«E perché?» chiese strascicando la voce nel tentativo di sovrastare il sibilo improvviso del vento. Aveva persone da nutrire e una sposa bella come la luna da salutare. “Perché io?”
«Ordini del sultano» rispose il più basso dei due.
“Il sultano? Spiriti del cielo!” Quell’uomo mozzava dita con la facilità con cui si faceva tagliare i capelli. La gente diceva che un tempo era stato di animo buono, anche se Zafira stentava a crederlo. Era sarasin di nascita, e i sarasin, così le era sempre stato detto, non avevano in cuore neppure un grammo di bontà.
Una nuova ondata di panico le infiammò il petto, ma tenne la voce bassa. «Se il sultano desidera vedermi dovrebbe inviarmi una missiva, non dei cani da caccia. Non sono un criminale.»
Quando si sentì paragonare a un cane, l’uomo più basso aprì la bocca, ma l’altro sollevò la lama e si avvicinò. «Non è una richiesta.» Si fermò, come rendendosi conto che la sua paura dell’Arz non gli avrebbe permesso di avanzare oltre, poi ripeté: «Yalla. Muoviti».
“No.” Doveva esserci una via d’uscita. Zafira strinse le labbra. Certo. Un’altra cosa per cui i sarasin erano famosi, a parte la crudeltà, era l’orgoglio.
Cercò di tranquillizzare Sukkar mormorandogli paroline dolci. Intimidito dagli uomini o forse dai possenti cavalli da guerra, il suo leale destriero indietreggiò. Non si era mai avvicinato tanto all’Arz, e Zafira stava per torturarlo costringendolo ad avanzare. Rivolse agli uomini un sorriso obliquo, con le labbra screpolate e probabilmente blu per il freddo. «Venite a prendermi.»
«Non puoi scappare da nessuna parte.»
«Dimentichi, sarasin, che l’Arz è la mia seconda casa.»
Accarezzò la criniera di Sukkar, si fece forza e lo spinse verso le tenebre.
Che la inghiottirono completamente.
Provò, provò con tutta se stessa a ignorare l’entusiasmo con cui l’accoglievano tra sussurri di eccitazione. Il tumulto con cui rispondeva il suo sangue. La brama nelle sue vene.
Gli alberi scuri incombevano minacciosi, con i bordi delle foglie luccicanti nel buio. In lontananza udì galoppare i cavalli e le grida dei sarasin che si lanciavano all’inseguimento. Le piante rampicanti scricchiolavano sotto gli zoccoli di Sukkar mentre lo sguardo di Zafira si perdeva quasi del tutto nel buio.
Per fortuna Sukkar, per quanto ansimante, rimase tranquillo mentre Zafira drizzava le orecchie, il cuore che le sobbalzava in petto. Nonostante la paura che la foresta incuteva loro, gli uomini, spinti dai pericolosi morsi dell’orgoglio, si erano gettati sulle tracce del fuggitivo.
Lei, però, non sentì nulla all’infuori del silenzio, come accade subito dopo aver sguainato una spada. La quiete che seguiva il primo soffio di tempesta.
Se n’erano andati.
Per una volta fu grata all’Arz per il misterioso prodigio che aveva fatto sparire i cavalieri. I due sarasin potevano essere a leghe di distanza senza che né lei né loro lo sapessero. Così era la...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- CATTURIAMO LA FIAMMA
- Atto I. La mezzaluna d’argento
- Capitolo 1
- Capitolo 2
- Capitolo 3
- Capitolo 4
- Capitolo 5
- Capitolo 6
- Capitolo 7
- Capitolo 8
- Capitolo 9
- Capitolo 10
- Capitolo 11
- Capitolo 12
- Capitolo 13
- Capitolo 14
- Capitolo 15
- Capitolo 16
- Capitolo 17
- Capitolo 18
- Capitolo 19
- Capitolo 20
- Capitolo 21
- Capitolo 22
- Atto II. Lontano da casa
- Capitolo 23
- Capitolo 24
- Capitolo 25
- Capitolo 26
- Capitolo 27
- Capitolo 28
- Capitolo 29
- Capitolo 30
- Capitolo 31
- Capitolo 32
- Capitolo 33
- Capitolo 34
- Capitolo 35
- Capitolo 36
- Capitolo 37
- Capitolo 38
- Capitolo 39
- Capitolo 40
- Capitolo 41
- Capitolo 42
- Capitolo 43
- Capitolo 44
- Capitolo 45
- Capitolo 46
- Capitolo 47
- Capitolo 48
- Capitolo 49
- Capitolo 50
- Capitolo 51
- Capitolo 52
- Capitolo 53
- Capitolo 54
- Capitolo 55
- Capitolo 56
- Capitolo 57
- Capitolo 58
- Capitolo 59
- Capitolo 60
- Capitolo 61
- Capitolo 62
- Capitolo 63
- Atto III. Le menzogne di cui ci nutriamo
- Capitolo 64
- Capitolo 65
- Capitolo 66
- Capitolo 67
- Capitolo 68
- Capitolo 69
- Capitolo 70
- Capitolo 71
- Capitolo 72
- Capitolo 73
- Capitolo 74
- Capitolo 75
- Capitolo 76
- Capitolo 77
- Capitolo 78
- Capitolo 79
- Capitolo 80
- Capitolo 81
- Capitolo 82
- Capitolo 83
- Capitolo 84
- Capitolo 85
- Capitolo 86
- Capitolo 87
- Capitolo 88
- Capitolo 89
- Capitolo 90
- Capitolo 91
- Epilogo
- Ringraziamenti
- Glossario
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