E chi l’ha vista mai una pelle d’orso nelle strade di Napoli? Gli scugnizzi fanno a gara per toccarla, birocciai e vetturini per scansarla. Lui, l’imbonitore, la indossa con disinvoltura mentre fila via rapido, evitando strattonate e insulti. Corre, svicola e si intrufola fino a piantarsi al centro di via Foria, dove la città non è piú vicoli e bassi maleodoranti ma palazzi e giardini di agrumi.
– Gnothi seautòn, conosci te stesso! – urla con tutto il fiato che ha in gola, mentre la vita della Napoli di inizio Novecento gli gira intorno.
– Gnothi seautòn, conosci te stesso! – ripete soffiando in una trombetta per attirare ancora di piú l’attenzione dei passanti.
Gli risponde lo scampanellio insistente di un tram e il belato di un gregge di pecore. Il pastore lo minaccia con un bastone di legno e gli ordina di levarsi. Lui, la sua pelle d’orso e la trombetta stanno ingombrando la strada del rientro sulle montagne da cui è sceso quella notte per vendere il formaggio al mercato di Porta Capuana.
L’imbonitore si scosta continuando a spargere a destra e a manca il suo richiamo.
– Gnothi seautòn! Venghino, studenti e studentesse! Venghino, medici e aspiranti medici. Pure i falsi medici sono i benvenuti, pure chi di medicina non sape niente ma vulesse sape’ qualche cosa.
Elvira si ferma, incuriosita. – Dove bisogna andare?
L’imbonitore indica una baracca di legno su un lato della via. «Museo delle cere» è scritto accanto all’ingresso.
– Entrate, signorina. Scoprirete qualcosa di mai visto prima. Poi mi ringrazierete.
La risposta contiene una nota di mistero, una promessa di avventura. E lei ama misteri, promesse e avventure.
Si volta verso Margherita, la piú giovane delle sue sorelle, l’ultima dei cinque figli della famiglia Coda. – Entriamo?
Margherita lancia un’occhiata distratta alla costruzione in legno. Possono scriverla grossa anche il doppio la parola museo accanto all’ingresso, a lei sembra un capannone, un ricovero per bestie come quelli che si vedono nelle campagne di Cava de’ Tirreni, la loro terra d’origine nella provincia di Salerno. Solo sua sorella può aver voglia di infilarsi in un posto cosà malmesso.
– Non so se abbiamo abbastanza soldi per i biglietti, – risponde.
– Ma sÃ, dobbiamo solo comprare due pezze di stoffa per papà che le ha terminate in negozio, – risponde Elvira.
Lo squillo di tromba risuona di nuovo a pochi passi da loro. – Signori’, stateme a senti’, là dentro ci sta la meraviglia!
L’imbonitore è un maestro nel suo ruolo di incantatore di parole e Margherita si sbaglia, Elvira non è la sola a voler entrare. Davanti all’ingresso si è formata una lunga fila di persone in attesa. Famiglie con bambini, giovani studenti, semplici curiosi e una torma di monelli ad aggiungere confusione e allegria.
Elvira sbuffa, spazientita. Va a finire sempre cosà con le sorelle, il loro unico divertimento è parlare di uomini, moda e pettegolezzi. Per convincerle a fare qualcosa di nuovo bisogna obbligarle.
– Mettiti in fila, – le dice. – Io corro, il commerciante di tessuti è qui vicino. Lo conosco, mi fa sempre un ottimo prezzo –. Elvira nasconde sotto un cappello la chioma nera, riccia, crespa, impossibile da domare. – Come sto? – chiede mentre con la mano tasta le ciocche sfuggite a ogni tentativo di freno. Se il padre vende tessuti e la madre e le sorelle cuciono, lei dà una mano a tutti e sta imparando anche a confezionare cappelli. Li imbastisce, li modella, li orna, li rinnova e li indossa.
– Devo allargarlo. O mi devo tagliare i capelli. Che ne dici, Ritina? – prosegue Elvira provando a strappare un sorriso alla sorella.
– Tagliati i capelli! – ribatte Margherita in tono seccato.
Elvira si arrende. – Vabbuo’, e quanto si’ pesante! Mo vado! Scommettiamo che mi porto via due pezze intere a un terzo del prezzo? E dopo andiamo a visitare il museo!
Non perde tempo ad aspettare l’ennesima risposta contrariata.
Corre fino alla fine di via Foria.
Corre come una donna di ventisette anni non dovrebbe fare in strada.
Corre e il cappello si sposta lasciando di nuovo libera la chioma.
Corre e riempie di polvere il vestito.
Corre e si sente viva come mai prima di allora.
È arrivata pochi mesi prima da Salerno con la famiglia. Hanno preso casa in via Benedetto Cairoli, una delle strade oltre Porta Capuana. Il nuovo secolo è appena iniziato, quella parte di città cresce a vista d’occhio. Gli antichi fossi e le paludi hanno lasciato il posto a una miriade di strade, case e piccole aziende che gravitano intorno alla stazione ferroviaria costruita dopo l’Unità d’Italia. La considerano la nuova zona industriale, ma nelle sue vie si incontrano pochi operai. È piú facile imbattersi in capannelli di creditori impegnati a sequestrare macchinari in cambio dei pagamenti rimasti scoperti. Anche di soldi non ne circolano molti e sempre nelle tasche delle stesse persone. Diego, il padre di Elvira, l’ha scelto perché è un quartiere abbastanza economico dove vivere. Ha preso in affitto una casa e ha aperto un negozio di tessuti con una speranza non diversa da quella di ogni altro emigrante, trovare un lavoro che a Salerno non aveva piú.
Elvira torna un quarto d’ora dopo con le guance rosse per la corsa e le due pezze di stoffa sotto il braccio. La sorella ormai è abbastanza avanti nella fila. Proprio come sperava. Appoggia i tessuti a terra e prende fiato. – Hai visto? Ce l’ho fatta, ho i soldi. Altri cinque minuti ed entriamo.
Margherita le punta addosso uno sguardo carico di rimprovero. Ha cinque anni di meno ma si sente piú matura. Elvira la irrita con quella testa piena di pensieri strani, di desideri incomprensibili. Almeno per lei. Afferra le stoffe con un gesto brusco e le allontana dai basoli di pietra scura. – Fai attenzione, la strada è lurida! Comunque io non tengo voglia di andare a vedere questa roba. Ho sentito dire che ci mostrano come siamo fatti dentro, con i muscoli, i polmoni, l’utero e tutto il resto. Resta tu, se proprio ti interessa. Io porto le pezze a casa.
Elvira osserva la sorella mentre si allontana. Per un istante pensa di seguirla, non le è ancora successo di rimanere da sola nelle strade di Napoli e non si sa mai che cosa può capitare. Ma la fila è diventata un lungo serpente umano di cui non riesce a vedere la fine. Possibile che si blocchi un’intera strada solo per andare a vedere dei polmoni e uno stomaco ricostruiti? Dev’esserci dell’altro e vuole sapere cos’è.
– Signorina, non so se fate bene a restare, – l’avverte una voce alle sue spalle. Elvira si volta. Un uomo le sorride. Di sconosciuti che provano ad abbordare le ragazze era piena Salerno, e lo è ancora di piú Napoli. Infastidita, avanza di qualche passo, ma allontanarsi davvero è impossibile senza uscire dalla fila e perdere il posto.
La voce dell’uomo la raggiunge di nuovo, chiara e netta come prima. – Scusatemi, non voglio importunarvi, ma siete rimasta da sola e mi sembra giusto avvertirvi. È un’esperienza piuttosto forte, non tutti resistono fino alla fine.
Elvira si volta, gli uomini vanno affrontati a testa alta, guardandoli bene in viso, soprattutto quelli che pensano di fare colpo sulle ragazze con una scusa qualsiasi.
Si trova davanti un tizio dall’aria rassicurante. Nota il vestito scuro di buon taglio, i baffi appena accennati, il guizzo negli occhi, il sorriso irriverente. Decide di rispondere anche se fin da bambina le hanno ripetuto di non dare confidenza agli estranei. – E allora voi perché restate? E che ne sapete che è uno spettacolo cosà forte?
– Sono qui per lavoro, è la terza volta che lo vedo. Il Museo mi interessa poco, sono tornato per la parte finale.
Elvira taglia corto. L’uomo le ispira fiducia, però non le va di trattenersi troppo a lungo, non sa nemmeno come si chiami. – Bene, vi ringrazio per il consiglio –. Si gira di nuovo verso l’ingresso, impaziente di entrare e di capire che cosa si nasconde dentro la strana baracca di legno.
L’interno è poco illuminato. La folla avanza pestando i piedi, spingendosi e urtandosi, un’onda che smuove odore di fumo, corpi, cera e legno umido. Elvira è abbastanza piccola da riuscire a insinuarsi tra i visitatori. Sono tutti in visibilio davanti alle statue addossate a decine alle pareti, una fila di celebrità riprodotte fedelmente in ogni dettaglio, dall’altezza al colore dei capelli. Non è facile riconoscerle, per fortuna accanto a ognuna c’è una scritta. Elvira legge il nome di Cleopatra, Beatrice Cenci, il re Umberto I e non va oltre. Si sta annoiando, la meraviglia promessa dall’imbonitore mascherato da orso non può essere questa.
Attraversa la stanza fino a una tenda di stoffa scura e pesante. Un uomo bardato di tutto punto, con una giacca dagli alamari dorati e un berretto rosso in testa, accoglie i curiosi. – Trasite, non perdetevi l’attrazione delle attrazioni! Per la prima volta a Napoli il Museo Anatomico Ostetrico Patologico!
Elvira paga il secondo biglietto e si ritrova in una camera altrettanto affollata. Tutti hanno gli occhi puntati su una statua di cera, un corpo di donna nudo e cosà perfetto da far venire voglia di toccarlo. Qualcuno non resiste alla tentazione, allunga una mano. Un uomo con un camice bianco tiene tutti alla larga, soltanto lui può avvicinarsi. Ordina il silenzio, solleva un coltello e inizia a tagliare. Uno strato dopo l’altro. Sotto la pelle appaiono i muscoli, sotto i muscoli le costole, quindi i polmoni, il cuore, i ventricoli e all’altezza dell’addome anche un feto di tre mesi. Qualcuno soffoca un grido di disgusto.
Elvira resta indifferente. È là per scoprire una meraviglia, non un laboratorio di vivisezione umana. Si guarda intorno, nota ancora una tenda. Dall’interno si diffonde una luce tremolante. L’uomo con i baffi e il sorriso irriverente che le aveva rivolto la parola mentre erano in fila scosta il panno ed entra.
Non esistono alternative, si può solo andare avanti o tornare indietro. Elvira lo segue.
La stanza è diversa dalle altre. Nessuna statua in mostra né corpi finti. Decine di sedie in legno sono disposte in modo casuale con l’unica premura di lasciare uno stretto corridoio al centro. Là un ragazzetto in maniche di camicia si muove con fare concitato intorno a un baldacchino ricoperto di velluto. Solleva il tessuto, esamina qualcosa all’interno di una scatola di legno rettangolare. Scuote la testa poco convinto, avvita alcuni ingranaggi e fissa l’apparecchio a un treppiede.
Elvira avanza per cercare un posto. I suoi occhi incontrano lo sguardo dell’uomo con cui ha diviso la fila. Lui le indica un posto libero accanto a sé. Uno degli ultimi. Elvira dimentica le buone maniere e la prudenza consigliate a una giovane donna e corre a sedersi vicino allo sconosciuto.
Il ragazzetto in maniche di camicia chiude la scatola di legno e sembra calmarsi.
– Jamm, ja! – avverte. E il buio scende sulla sala.
Se in strada si è sentita a disagio quando la sorella è andata via, ora si rende conto di essere di nuovo da sola, nell’oscurità , circondata da estranei. Trattiene il fiato, intimidita.
Il cigolio di una manovella e il ronzio del proiettore invadono la grande stanza. Un fascio luminoso investe la tela bianca. Qualche secondo dopo appaiono le prime immagini. Tremolanti, a tratti sbilenche e interrotte da scatti improvvisi. Grandi, vere, in cammino verso gli spettatori.
Elvira non riesce a frenare un grido. Un prodigio, un sogno, un incantesimo realizzato, non sa decidere che cosa pensare. Si gira verso l’uomo che le ha tenuto il posto, vuole capire se è l’unica a provare quell’emozione. L’uomo ha perso il sorriso irriverente, le immagini hanno rapito anche lui.
Sconcertata, torna a fissare il telo e una città intera che sembra travolgerla. Le passano davanti le scene di due carretti trainati da muli, alcuni facchini con le ceste colme di frutta sul capo, i tramvai carichi di conducenti e viaggiatori, donne e uomini a passeggio sui binari, sui marciapiedi, al centro della strada e ovunque sia possibile posare i piedi. Sullo sfondo appaiono il Vesuvio e il lungomare di Santa Lucia.
È la vita di tutti i giorni a Napoli e, anche per questo, appare ancora piú incredibile vederla ingigantita mentre scorre su un lenzuolo al chiuso di una sala.
La proiezione dura poco piú di tre minuti. Le immagini si interrompono in modo brusco, la luce si accende senza lasciare il tempo agli spettatori di riprendersi dallo sbigottimento. Elvira resta seduta, le sembra che intorno a lei tutto si stia ancora muovendo.
– Bisogna uscire, devono far entrare altri spettatori, – la scuote la voce dell’uomo con i baffi.
Vede la mano tesa verso di lei per aiutarla ad alzarsi. Esita. Pensa a quello che direbbero suo padre e sua madre se fosser...