Un grido.
Nel racconto biblico Giobbe appare innanzitutto come un grido. È la sua postura di fondo. Il grido è il modo piú estremo della domanda. Non si articola nelle parole, non risponde alle leggi del linguaggio, non è adottato da nessun significante. Esce dal corpo come un altro corpo. È uno strappo, una lesione, una nuda voce. Il grido è innanzitutto quello del bambino inerme che accompagna la nascita e le prime percezioni turbolente e confuse della vita. Di fronte alla condizione di estrema passività e sconforto nella quale il bambino si trova gettato, il grido appare come una prima invocazione rivolta all’Altro. È ciò che si ripete in coloro che si trovano esposti a un pericolo o a una condizione di derelizione. È lo stesso grido che sorge dalla sofferenza quando essa intacca la vita umana. Anche nell’esperienza analitica, in ogni paziente, si palesa il grido di Giobbe come domanda di soccorso. È questa una delle eredità bibliche piú profonde della psicoanalisi di Freud: rispondere al grido della sofferenza, interrogarne il senso, farsi suo destinatario. È quello che Giobbe insistentemente chiede al suo Dio: qual è il senso del dolore che mi affligge?
Di fronte alla lama della sofferenza la sua voce non si adagia remissivamente nel silenzio, non sussurra, non dialoga con i suoi amici, né si ripiega in una contemplazione meramente teoretica del dolore del mondo. La voce di Giobbe prende corpo solo nel grido. È il carattere blasfemo della sua interrogazione: e se Dio fosse l’artefice del male, se fosse un persecutore anziché un padre benevolo? Se Egli non fosse il Dio del patto ma il Dio voluttuoso e inumano della pura potenza? Quello che già il serpente nel tempo mitico della Creazione del mondo aveva insinuato a Adamo ed Eva?
Nel Libro di Giobbe la decifrazione del dolore coincide con la decifrazione del vero volto di Dio. Come può volere tutto questo male, come può straziare in questo modo le sue creature, che razza di Dio è questo Dio? Anche la bestemmia, rompendo le consuetudini della comunicazione umana, tende al grido. Giobbe oscilla tra il grido della bestemmia e quello dell’invocazione: bestemmia il Dio sadico che infligge dolore al giusto mentre invoca il Dio come padre amorevole dell’universo. Ma la domanda intorno al senso della sofferenza sembra prevalere su ogni possibile risposta. Con un ulteriore paradosso che la sua vicenda di uomo retto e giusto comporta: perché la violenza del male si accanisce sull’innocente e non sul reo? Perché colpisce il giusto e non il malfattore? È questa domanda a costituire lungo tutto il Libro di Giobbe la vera pietra dello scandalo per lo stesso logos biblico. La sofferenza che non è stata generata dalla colpa, che non è manifestazione della ritorsione della Legge sul reo, eccede, infatti, ogni forma di spiegazione. Il dolore dell’innocente sovverte ogni rappresentazione morale della Legge di Dio poiché nessuna Legge, nemmeno quella di Dio, può giustificarne l’esistenza. Questa Legge, infatti, di fronte alla domanda di Giobbe resta opaca, illeggibile, indecifrabile.
La scena che domina il Libro di Giobbe è quella di un abbandono: l’uomo retto e giusto, timorato di Dio, viene lasciato cadere, rotola nella «polvere e nella cenere» e il suo corpo viene ricoperto di piaghe. La notte di Giobbe assomiglia a quella di Gesú nell’orto del Getsemani: il padre non si cura del figlio, non lo tutela, lo lascia nella solitudine piú assoluta, il suo silenzio appare scandaloso di fronte al dolore dell’uomo. Ma dinanzi alla solitudine e al silenzio, Giobbe non cessa di rivolgersi a Dio. Per questa ragione Giobbe non è tanto una figura della pazienza o della rassegnazione – come la si è voluta tradizionalmente dipingere –, bensí una figura della lotta. La sua fede non cede ma insiste nell’incontrare Dio faccia a faccia.
La scommessa di Satana.
Il Libro di Giobbe affronta lo scandalo dell’innocente colpito dal male, dell’uomo giusto afflitto dall’ingiustizia della sofferenza. Dunque, di conseguenza, solleva lo scandalo di una possibile responsabilità di Dio nella presenza del male nel mondo. Al centro è quindi il grande tema della Legge di Dio, della giustizia divina, dei rapporti tra la Legge di Dio e l’uomo. Il dolore estremo di Giobbe appare infatti in se stesso un capo di accusa di fronte a quella Legge, poiché il male che lo affligge non sembra avere alcun senso in quanto ha eletto un uomo giusto a suo bersaglio.
Se la teologia della maledizione decifra la sofferenza come segno inequivocabile della colpa, la vicenda narrata nel Libro di Giobbe entra fatalmente in collisione con questa interpretazione della Legge di Dio in quanto Giobbe è un uomo che ha vissuto proprio nel nome di tale Legge ma, nonostante questo, o, forse, proprio per questo, dalla Legge viene demolito. In questo modo un principio della Legge mosaica viene scardinato: la maledizione non sferra i suoi colpi sul reo ma sull’uomo giusto. Sicché il dolore dell’innocente segnala il fallimento sintomatico della Legge, la sua impossibilità di regolare il problema della sofferenza umana che colpisce indistintamente l’empio e il santo.
All’inizio del racconto Giobbe viene, infatti, riconosciuto esplicitamente come un «giusto», «integro e onesto, timorato di Dio e avverso al male»:
Nel paese di Utz c’era un uomo di nome Giobbe. Quell’uomo era integro e onesto, timorato di Dio e avverso al male. Gli erano nati sette figli e tre figlie. Possedeva settemila capi di ovini, tremila cammelli, cinquecento paia di buoi, cinquecento asine e una servitú numerosissima. Insomma, costui era il piú potente degli orientali (Gb 1,1-3).
La sua è una vita piena, soddisfatta, sottratta all’aleatorietà di tutte le cose, capace di non cadere nel vuoto immenso, nella vanità senza speranza di cui parla Qohelet. Quella di Giobbe è una vita che, per usare una nota immagine evangelica, ha saputo dare i suoi frutti. Il dubbio sorge allora inevitabile: non sarà proprio il carattere fortunato di questa vita pienamente soddisfatta a rendere Giobbe uomo «integro e onesto»? Non è troppo facile per Giobbe ringraziare Dio, essere un uomo di fede, se la vita è stata con lui cosí generosa, se la benedizione di Dio lo ha protetto da ogni sventura? Come sarebbe possibile distinguere l’autenticità della sua fede dai benefici che egli ha illimitatamente ricevuto?
Satana, che ritiene di conoscere bene quello che accade sulla terra, insuffla in Dio un dubbio generale sulla fede degli uomini. Si metta allora alla prova la fede di quest’uomo fortunato facendo cadere sulla sua testa la mannaia della sventura. È il primo tempo del racconto biblico: e se la fede di Giobbe fosse solo il risultato di una contabilità cinica, di un interesse, di un’economia redditizia, mercantile, se, cioè, essa non fosse altro che un’operazione strumentale che utilizza la fede come moneta di scambio per ottenere benedizione e fortuna? Ponendo questo interrogativo Satana non si limita a rappresentare presso Dio il male, ma attenta le fondamenta teologiche della fede. Il suo dubbio cinico è radicale: può esistere davvero una fede che rifugga ogni calcolo, ogni economia incentrata sul do ut des, capace di amare Dio al di là di ogni interesse personale, dedita in modo assoluto all’Altro? Giobbe, proprio in quanto riconosciuto come uomo «integro e onesto», è destinato a diventare il banco di prova che dovrebbe convalidare o confutare agli occhi di Dio le tesi disincantate di Satana.
Si prenda, dunque, un uomo giusto e si faccia in modo che il destino si accanisca brutalmente contro di lui. La sua fede di fronte al moltiplicarsi delle ingiustizie e delle disgrazie subite resisterà o si scioglierà come la neve al sole? La scommessa di Satana riattiva la strategia del serpente nel giardino, ma a rovescio. Uno – il serpente – dubita di Dio, l’altro – Satana – dubita dell’uomo. Mentre quello cercava di alimentare il sentimento dell’invidia in Adamo ed Eva nei confronti di un Dio egoista che voleva trattenere tutto il godimento per se stesso, questo esige la fustigazione di Giobbe per spingerlo ad abiurare alla propria fede mostrando a Dio che nessun uomo lo ama veramente. Il serpente e Satana restano, tuttavia, due facce della stessa medaglia: l’invidia dell’uomo che vuole tutto (Adamo ed Eva) e la disperazione dell’uomo che perde tutto (Giobbe) cancellano la fede nel Signore.
Nelle insinuazioni del serpente l’immagine di Dio viene aggredita e dipinta come egoistica e gelosa, mentre nella scommessa di Satana si vuole mostrare il carattere inconsistente e interessato dell’amore umano nei confronti di Dio al fine di rivelare a Dio stesso la sua solitudine e il suo fallimento. In questo hanno pienamente ragione coloro che ritengono che il grande tema del Libro di Giobbe non sia tanto quello della sofferenza umana ma quello della volontà di Dio1.
Il complotto che unisce Dio a Satana consiste, dunque, nel voler misurare la fede di Giobbe. Dio scommette su Giobbe contro il demonio: la fede del giusto sarà piú forte della sua sventura. La questione sollevata si profila problematica e incerta soprattutto dal punto di vista della vittima: sarebbe in grado l’uomo giusto di restare integro e fedele al suo Dio se la sorte gli remasse violentemente contro? Se la sua vita fosse costretta a sperimentare l’ingiustizia, la perdita, la malattia, la sofferenza, la rovina di ogni cosa? Se fosse obbligata a vivere se stessa senza speranza essendo permanentemente oppressa dal male?
Satana, sfidando Dio, coinvolge sul terreno dello scontro l’innocente Giobbe. Questi diventa il protagonista della prova proprio a causa della sua fede incrollabile che lo rende unico tra gli uomini («Non c’è nessuno come lui sulla terra: uomo integro e onesto, timorato di Dio e avverso al male», Gb 1,8). Insieme a quella di Abramo la prova che egli deve sostenere è tra le piú terribili: sopportare la perdita di ogni bene. Con l’aggiunta che, diversamente da Abramo al quale Dio parla richiedendogli in sacrificio il suo amato figlio Isacco, Dio non si rivolge mai direttamente a Giobbe, non rivela le sue intenzioni, resta nascosto, assente. Giobbe, l’«uomo integro e onesto», è tenuto all’oscuro del disegno di Dio e della sua strana complicità con Satana. L’unica cosa certa è che una disgrazia senza paragoni è destinata a cadere sulla sua testa. Giobbe diventa il simbolo dell’ingiustizia subita, dell’umiliazione e dell’abbandono assoluto.
La domanda che Satana pone a Dio ha un profondo spessore teologico: la fede e le buone opere servono a chi le compie per avere benefici da Dio o possono avere un valore in se stesse? La fede svolge nell’essere umano la funzione di un rifugio strumentale o di un talismano superstizioso capaci di garantire la realizzazione positiva della vita alimentando i suoi tornaconti, oppure è una donazione in perdita che si realizza nel suo stesso atto a prescindere da ogni eventuale rimborso? La fede degli uomini si riduce a una astuzia contabile? Se solo si pensa al carattere idolatrico della fede la cui tentazione è onnipresente nel testo biblico, quella di Satana è una domanda cruciale che non può essere ignorata nemmeno da Dio. Per questa ragione Egli acconsente all’esperimento-Giobbe: vuole verificare il valore della fede umana assumendo come riferimento il suo servo piú fedele. L’intenzione di Dio è quella di confutare con un esempio incontrovertibile il cinismo di Satana. Ma la prova non è affatto indolore. Essa esige che si abbatta su Giobbe una violenza «senza motivo» (Gb 2,3)2. La crudeltà della frusta della sofferenza, del lutto e della perdita deve colpire senza pietà la sua vita mettendo alla prova la sua fede.
La persecuzione di Dio.
In uno dei suoi ultimi discorsi rivolti a un Dio ostinatamente silenzioso e assente, Giobbe rimpiange nostalgicamente il tempo in cui la sua vita era felice. Le virtú dell’onestà e dell’altruismo animavano il suo rapporto col prossimo. La vita famigliare come quella pubblica era ricca di gratificazioni. La sua fama di uomo dedito a fare il bene e, per questa ragione, benedetto, lo precedeva. Dio gli era amico e garantiva con la sua presenza benefica sostegno alla fortuna della sua esistenza. Il ritratto è quello di un uomo che vive nella fede e nella piena realizzazione, è il ritratto di un uomo di prestigio che suscita rispetto e ammirazione negli altri:
Quando uscivo alla porta della città e nella piazza mettevo il mio scanno, i giovani al vedermi arretravano e gli anziani si alzavano in piedi, i capi smettevano di parlare… la voce dei notabili spariva… Vestivo giustizia, e m’abbelliva… Me ascoltavano e con attenzione; zitti attendevano il mio consiglio (Gb 29,7-21).
Il dramma di Giobbe scaturisce dal brusco capovolgimento di questa condizione di vita pienamente realizzata in quella di una vita umiliata, decaduta, costretta a perdere progressivamente ogni bene: prima tutti i propri possedimenti, poi i propri figli e, infine, la sua stessa salute. Povero e solo, deve vivere una malattia che devasta il suo corpo trasformandolo in un’unica «piaga maligna, da capo a piedi» (Gb 2,7). La sua vita è diventata una vita di scarto; l’ammirazione lascia rapidamente il posto all’umiliazione. Non è piú come prima, quando la sua persona suscitava rispetto: «Ora, invece, di me si burlano quelli piú giovani di me per età, i cui padri mi sarei rifiutato di noverare tra i cani del gregge!… Mi aborrono, se ne stanno lontani e persino mi sputacchiano in faccia» (Gb 30,1-10).
Dopo la scommessa con Satana, è questo il primo movimento del racconto biblico. Un repentino e drammatico cambio di segno: il giusto, l’uomo retto, ammirato e riconosciuto nella sua famiglia e dalla sua città, rotola miseramente nella polvere, cade in una buca. La felicità dei giorni fortunati lascia il posto alla sofferenza senza scampo dei giorni a venire. Si tratta, vista dalla prospettiva di Giobbe e non da quella di Dio e di Satana, di un’irruzione traumatica, violenta, improvvisa e senza giustificazioni del male. In questa irruzione anche Dio sembra trasfigurarsi; il suo volto non appare piú come quello benevolo dell’amico o del padre, ma come quello maligno di un implacabile nemico. L’ordine del mondo ispirato dalla Legge di Dio entro il quale la vita di Giobbe era inscritta è scosso violentemente. Prima era la gioia e la luce, ora la sofferenza e le tenebre. La violenza div...