Era già passata l’una di notte, quando Carlos Kleiber aveva infine salutato Franz e Karl, i suoi amici piú cari. Avevano mangiato e bevuto. Era stata una serata divertente, interminabile, all’aria aperta. A trentasei anni Carlos si sentiva nel pieno delle forze. Era nato a Berlino, ma aveva trascorso parte della sua infanzia in Argentina. Era un ircocervo, un animale favoloso che mescolava la perizia e la meticolosità tedesca con la tellurica vitalità e il calore di quell’altra parte di mondo. Forse era per questo che amava le cene all’aria aperta. Dopo averli abbracciati ancora una volta, dopo aver risposto gioiosamente alle loro raccomandazioni insistenti, era salito in macchina, si era seduto al posto di guida e aveva aggiustato lo specchietto retrovisore. Aveva compiuto tutti quei piccoli gesti rituali che sembrano darci il pieno controllo di ciò che invece non possiamo mai controllare. Aveva tirato giú il finestrino e respirato a fondo l’aria dolcissima delle notti di giugno; infine aveva girato la chiave del motore. Da quel momento, da quando era salito in macchina, di lui, quella notte, non si era piú saputo nulla.
Mancavano solo due giorni al 20 giugno del 1966. Mancavano solo poche ore all’anteprima del suo esordio all’Opera di Stoccarda, che avrebbe dovuto dirigere e che lo avrebbe potuto avvicinare, per la prima volta, a ciò che era stato suo padre. A ciò che sarebbe stato. O a ciò che non sarebbe riuscito a essere. Franz e Karl gli avevano proposto piú volte di fermarsi con loro, di restare in città. Era stata cosí piacevole quella serata che non volevano che nulla la incrinasse. Cosí, per una sorta di strano presagio, lo avevano quasi implorato di rimanere a Stoccarda. L’alcol è capace di fare brutti scherzi. Ma Carlos non era un tipo facile da convincere. Prima aveva sorriso con dolcezza. Poi era rimasto imperscrutabile, grazie a quel suo modo di contenere, nella stessa espressione, la gioia e una specie di enigmatico struggimento. D’altronde, per lui, prendere l’auto era un piacere personale a cui non sapeva rinunciare, un modo di cercare un rifugio che altrove non avrebbe trovato. Una maniera di andarsene lungo percorsi e traiettorie di cui nessuno poteva capire l’intima ragione.
Ne avevano parlato anche loro, insieme a Carlos. Di come era andata a finire la storia della balena. In quei giorni, in Germania, non si parlava d’altro. All’inizio, quando il 18 maggio due pescatori avevano chiamato la polizia nautica per segnalare l’avvistamento di una balena nelle acque del Reno, cioè a oltre trecento chilometri dalla costa e dal mare aperto, l’agente, dall’altra parte del ricevitore, doveva aver pensato che i due pescatori avessero bevuto un bicchierino di troppo. Era una comunicazione fantastica e irreale. Come era possibile che un mammifero acquatico di quelle dimensioni, di solito alla ricerca delle acque salate dei mari del Nord, si trovasse nell’arena stretta di un fiume, per quanto quel fiume fosse il grande Reno? Anche se le balene, che per gran parte dell’anno risultano inaccessibili e remote, a partire dai primi giorni di giugno si lasciano intravedere lungo i loro percorsi misteriosi, non capita quasi mai che si inoltrino cosí vicino all’uomo. Abbiamo visto una balena bianca, avevano ripetuto i due uomini. Ma quanto erano credibili? Tra i primi a raggiungere il posto ci fu il nuovo direttore dello zoo di Duisburg. Dietro alla balena, dietro agli argini del fiume, si innalzavano, minacciose, le ciminiere di alcuni complessi industriali. Lo zoologo disse che il fiume era pieno di scarti industriali, un vero e proprio brodo fenolico. La balena, in un contesto di quel tipo, rischiava di morire.
Il beluga aveva attirato la curiosità di chi viveva lungo le rive, di chi ascoltava la radio sdraiato su un prato, di chi si affacciava dal proprio balcone. Tra quelli che seguivano ciò che stava accadendo, in molti parteggiavano per il direttore dello zoo, per quella specie di Achab alle prese con un Moby Dick imprevedibile ed esposto ai veleni del fiume. Il beluga faceva avanti e indietro nel tratto d’acqua tra Düsseldorf e Duisburg. La stessa città dove fino a poco tempo prima aveva lavorato Carlos, lí dove aveva esordito, quando invece di usare il proprio nome, per una sorta di timidezza o vergogna, ne aveva scelto uno diverso. Suo padre, in quell’occasione, vedendolo dirigere l’orchestra, aveva detto alla sorella che in fondo quel ragazzo non era male.
Tutti ne parlavano ancora in quei giorni. Tutti in Germania, quell’estate, non facevano altro che discutere della balena finita nelle acque del Reno; tutti sembravano toccati dalla fragilità enorme, dalla maestosità sperduta. Lo zoologo era sembrato quello che piú di tutti avesse davvero a cuore il destino dell’animale. L’uomo, però, aveva un approccio naïf o inadeguato all’impresa. Un giorno, dopo averla presa in prestito da un club locale, venne visto tendere, con i suoi assistenti, una rete da tennis tra due barche, nella speranza che la balena vi finisse impigliata. L’uomo dava l’idea di pregustare già il rapido successo dell’operazione. Ma quando il mammifero fece per avvicinarsi, a un passo dalla trappola piegò il capo gigantesco fin dentro il corpo del fiume, si inabissò e scomparve nelle profondità delle acque. Dove era finito quell’essere delicato e solenne? Dove era finito Carlos?
A casa, quella notte, ad aspettarlo c’era Svetlana. La moglie, una donna minuta, era stata una ballerina classica. Con Carlos si erano conosciuti a Düsseldorf, in occasione di uno spettacolo. Lui le aveva chiesto se le andava di uscire insieme. Lei aveva risposto che non ne aveva proprio voglia. Lui glielo aveva chiesto ancora con l’eleganza e il fascino innati che aveva. L’insolita altezza per un direttore d’orchestra, l’allegria e la malinconia mescolate insieme. Lei, però, aveva ripetuto il suo diniego. Carlos allora si era inabissato nelle sue distanze, come faceva di frequente. Poi era ricomparso in maniera inattesa e sorprendente. Svetlana alla fine aveva ceduto. Una sera d’estate partirono in macchina. Se ne andarono insieme lungo traiettorie che nessuno aveva mai percorso. Si inabissarono nelle profondità oceaniche della loro intimità per riemergere lontanissimi e liberi. Si sposarono presto. E anche se al cospetto di lui, che era alto, atletico ed elegante, Svetlana sembrava ancora piú piccola, lei era capace di restituire la tranquillità a quel nucleo familiare che si era formato in poco tempo e in maniera cosí inaspettatamente salda. Insieme a lei, quella notte, ad attendere una buona notizia, pur senza essere consapevole del tempo che scorreva, del precipizio che si apre quando l’attesa si allunga invano, c’era anche Mark, il figlio venuto alla luce solo un anno prima.
Durante la cena con Franz e Karl, Carlos aveva scherzato come sapeva fare solo lui. Come accade in quelle sere di giugno quando qualcosa smette di pesare e diventa piú lieve e sopportabile. Gli occhi azzurri e il suo sorriso giovane. Aveva gesticolato con ampi movimenti delle braccia, le stesse braccia che durante la direzione tracciavano linee di inusuale bellezza. Con arguzia, aveva fatto giochi di parole ricorrendo a tutte le lingue che conosceva. Tedesco, italiano, spagnolo, francese. Mescolando accenti, dizioni, sonorità. Aveva usato tutte le possibili salite e discese di toni. Le lingue erano come partiture, soprattutto nelle serate in cui si finiva per bere un po’. Anche quella voglia di scherzare era sembrata un modo di alleggerire un peso. Di diminuire la zavorra e sentirsi piú leggeri.
Quando era alle prove, nelle settimane che avevano preceduto quella notte, nei primi giorni di giugno, Carlos aveva sprigionato un’energia contagiosa, un fascino irresistibile, in maglietta nera a maniche corte. Era cosí carismatico che si fermavano a vedere, e ad ascoltare, anche gli addetti delle pulizie, i tecnici, i giovanissimi allievi che capitavano lí per caso in attesa delle loro lezioni. Ipnotizzati si godevano lo spettacolo di lui che interrompeva l’esecuzione di uno strumentista e cantava il passaggio di note proprio nel modo in cui desiderava che venisse eseguito. Dagli orchestrali, che avevano in genere il doppio dei suoi anni, ed erano spesso lontani dalla sua dirompente vitalità, dalla sua inarrivabile irrequietezza e incomprensibile alternanza di furia e silenzi, dipendeva l’esito del suo tentativo di emulare e superare suo padre. Durante le prove lo si vedeva condividere con ciascuno di quegli strumentisti la visione che lui aveva di quell’opera. I suoni, i trilli. Gli staccati. Spiegava loro come eseguire alcune parti, fischiava la melodia, faceva battute che rimandavano sempre a qualcosa di piú intimo, che oltrepassava la dimensione del gioco di parole e scavava in maniera imprevista dentro l’animo. Come quando non riusciamo a smettere di pensare a qualcuno che ci ha ferito, o che abbiamo perso e di cui non ci rassegniamo ad accettare l’assenza. Riempiva il tempo delle prove con gesti di infinita chiarezza e gentilezza, che coinvolgevano, e portavano ciascuno di loro ad amare quell’opera con la stessa intensità con cui l’amava lui. Che senso aveva vivere con loro quell’esperienza senza condividere fino in fondo ogni stilla di energia? Senza condividere la spinta forsennata a dar vita a qualcosa di unico? Ripeteva parole come «per favore» o «grazie», anche se aveva le idee chiarissime su quel che avrebbero dovuto eseguire gli orchestrali. Si immaginava, e immaginava tutti loro, non come delle star che si trovano su un palco, ma come mendicanti con un cappello da porgere ai passanti nella speranza di ottenere qualche moneta per potersi bere un caffè caldo. Non era solo una questione di orchestrali o di artisti, di musicisti o direttori d’orchestra.
Nonostante tutto, nonostante il fascino e la vitalità, sorprendeva che in lui non ci fosse compiacimento per quel che riusciva a fare. Anzi, cercava sempre di prenderne le distanze, di scrollarsene da dosso qualsiasi frammento. L’unico amore che poteva coltivare, in quella pratica della musica, era per la musica stessa, e non per gli incarichi che gli assegnavano. Piú parlava con gli orchestrali, piú mostrava la sua personalità, piú descriveva dettagliatamente la forma di una melodia, la necessità di quell’opera, e piú era chiaro che si allontanava dall’ego, dall’ingombro dell’io. Spesso usava metafore, immagini vivide, cosí come testimoniato anche da Franz e Karl, i quali avevano avuto la fortuna di vederlo durante le prove che avevano preceduto quella notte. A volte arrivava a sintetizzare i suoi pensieri in modo sorprendente, come quando aveva spiegato agli attempati componenti dell’orchestra che bisognava provare a suonare come se si fosse ubriachi, ma non ubriachi da non stare in piedi, ubriachi da riuscire ancora a guidare la macchina.
Dopo che si fu inabissata, della balena si persero a lungo le tracce in quel mese di giugno. Poi all’improvviso ricomparve. Prima a Götterswickerhamm, in seguito a Wesel e ancora a Xanten. Quindi di nuovo a Duisburg. E con lei ricomparve anche lo zoologo. Su una barca attrezzata, impugnava, nella mano sinistra, una speciale pistola che conteneva il combelen, un potente sonnifero. Forse fu proprio in quel momento che gran parte delle persone smise di stare dalla parte di quell’Achab mediocre. Fu proprio negli ultimi giorni di giugno del 1966 che sempre piú persone, che fossero sugli argini del fiume, affacciate alle finestre, o che ascoltassero le vicende alla radio, cominciarono a provare una singolare compassione per quell’essere maestoso e fragile. Se lo zoologo avesse sbagliato dose del calmante, sarebbe stato lui, e non l’inquinamento del fiume, a uccidere la balena. Quell’uomo era davvero lí per tentare il possibile e salvare l’animale misterioso? O forse le ragioni di quella solerzia nel catturarlo erano riconducibili al desiderio di farne al piú presto la maggiore attrazione del suo zoo? Una balena gigantesca chiusa in una gigantesca vasca con uomini, donne e bambini pronti a pagare per osservare la meraviglia incatenata. Insieme allo zoologo c’era anche il guardiano degli animali, pronto a scoccare una freccia a cui aveva assicurato, tramite una corda di nylon, una boa che serviva a rendere il beluga sempre rintracciabile. Quando lo zoologo sparò con la sua pistola anestetica, nessuno piú parteggiava per lui. Tutti speravano che la balena non venisse colpita. Invece fu cosí.
Anche Franz e Karl avevano sperato che a Carlos non succedesse nulla, quella notte. Ma nessuno di loro due era in grado di dire all’altro se Carlos, nonostante tutto, nonostante ciò che diceva quando prendeva le sembianze irripetibili del direttore d’orchestra, fosse davvero capace di capire quando era ubriaco, non al punto però di non riuscire a guidare la macchina. Carlos parlava molto poco di sé. Chissà chi poteva dire di conoscerlo bene. Forse nessuno. Il direttore del teatro di Stoccarda lo aveva cercato per almeno un anno. Carlos, infine, aveva accettato la sua proposta, ma chiarendo fin da subito che non si sarebbe trasferito in città. Carlos preferiva vivere a Oberaiche, un piccolo villaggio distante il giusto per non essere troppo alla portata di tutti e per uscire dai radar, per essere considerato quasi introvabile, in una di quelle viuzze in cui nessuno riesce ad arrivare. In quei giorni di giugno si sentiva un silenzio profondo quando si rimaneva nelle stanze con le finestre aperte. Al direttore aveva chiarito anche che nessuno poteva telefonargli a casa per comunicargli alcunché di professionale. L’unica possibilità di raggiungerlo, e non c’era modo di non seguire l’iter da lui suggerito, erano i telegrammi. Una modalità di comunicazione che apparteneva ad altri tempi. Neppure lui voleva diventare una stupefacente meraviglia da mostrare agli spettatori curiosi e assetati. Neppure lui voleva essere una creatura da esporre dietro le sbarre. Aveva anche lui una propensione alla fuga.
È per questo poi che chi ha ricostruito, o ha provato a ricostruire, le sequenze di ciò che avvenne quella notte degli ultimi giorni di giugno del 1966, ha fatto molta difficoltà. Perché tutto quello che riguardava Carlos era sempre avvolto da un velo di mistero. Quando sua sorella Veronica gli aveva regalato il libro di un filosofo indiano, lui quasi non fu piú capace di separarsene. Lo portava sempre con sé. Lo teneva sul comodino. E leggeva e rileggeva frasi ipnotiche, ermetiche, che lo colpivano a fondo. Aveva letto e riletto, fino a sottolinearla con evidenza, la frase in cui il pensatore asiatico suggeriva che il miglior comportamento per ogni essere umano è quello che gli permette di non lasciare tracce. Come una balena che fugge, come una balena che compare e scompare nei giorni di giugno.
Per quella prima di Stoccarda, per quell’esecuzione che poteva rappresentare la svolta della sua carriera, il momento in cui avrebbe potuto compiere una specie di passaggio di natura, da promessa a vera consacrazione, era stato costretto dalle contingenze a spostarsi con tutti gli orchestrali a Vienna. In quelle settimane, in quelle notti estive, Carlos, oltre a dirigere, a dare indicazioni, a cercare di catturare l’attenzione di ogni singolo orchestrale, oltre a soffiare nel loro orecchio tutto l’incredibile amore che provava per le partiture, per la musica, non aveva fatto altro che guidare. Che fuggire via.
Il beluga fu raggiunto dal colpo di pistola esploso dall’uomo che voleva farlo diventare un’eccentrica attrazione. Ma il proiettile, per qualche insondabile ragione, per una specie d’intima resistenza e naturale invulnerabilità, non sortí alcun effetto. La balena non si addormentò. Anzi, in seguito a quel colpo, a quell’allarme che segnalava le intenzioni reali di chi si avvicinava, sembrò ancora piú vivace. I ristoranti sulle sponde del Reno si riempivano ogni giorno di piú. La voglia di seguire una storia, il desiderio di conoscere l’insondabile. La voglia che qualcosa andasse per il verso giusto, il desiderio che giugno portasse una buona notizia cresceva tra tutti. Era una partecipazione collettiva.
Nessuno sa dire con precisione a che ora, quella notte di inizio estate, si venne a sapere che Carlos aveva perso il controllo della macchina. Nessuno seppe dire, o ha lasciato scritto, a che ora, quella notte, Carlos era andato a schiantarsi contro un albero senza che qualcuno potesse intervenire in suo soccorso. La strada doveva essere pressoché deserta. Tutti, a quell’ora della notte, avevano già raggiunto la sicurezza della loro casa, del letto, della compagnia di un amore, del sonno, del ristoro. Lui invece si era ritrovato da solo contro un albero.
Al momento di decidere con quale esecuzione si sarebbe misurato quel 20 giugno del 1966, molti furono sorpresi dalla scelta di Carlos: avrebbe eseguito Wozzeck di Alban Berg. La stessa opera che anche il padre aveva messo in scena a Vienna nel 1953 con un successo clamoroso. Un’esecuzione considerata inarrivabile. Aveva forse bisogno di misurarsi con il padre che non c’era piú, ma che incombeva su di lui come un fantasma? Voleva provare a se stesso di essere riuscito finalmente ad affrancarsi dalla sua figura? Quando Carlos aveva diciotto anni, al termine della scuola, nei giorni di giugno di un’altra èra della sua vita, al padre, affermatissimo direttore d’orchestra, aveva detto che sognava anche lui di salire un giorno sul podio. Il padre gli aveva risposto che un Kleiber direttore d’orchestra in famiglia era già abbastanza.
Il padre, la direzione d’orchestra, quei suoi tentativi di sparire, di sottrarsi, di essere solo la musica a cui riusciva a dare vita. La presenza e l’assenza. Il desiderio di quando aveva appena terminato la scuola. La vicinanza della balena. Le storie che prendevano vita nelle opere che Carlos dirigeva. I dubbi continui che lo assalivano sulle proprie capacità. Durante le prove, a un certo punto, aveva detto agli orchestrali che, in alcuni punti della partitura, lui non poteva fare nulla, non poteva aiutarli. In quei passaggi, anzi, dovevano essere loro a fare il possibile per andargli incontro. Era un modo di coinvolgerli, di dar loro una responsabilità che altrimenti non avrebbero sentito, ma era anche un modo di confessare qualcosa di piú vero, di piú profondo, che lo riguardava. Tutti i suoi continui ripensamenti, apparentemente incomprensibili, che lo spingevano a dubitare di sé. Tutte le volte che tornava a casa in auto e pensava che la direzione che aveva appena ultimato, anche quando era ancora giovanissimo, sarebbe stata l’ultima. Alla sorella aveva confidato spesso che non trovava piú una ragione in ciò che faceva. E oscillava tra la vertigine della direzione d’orchestra e il desiderio di non lasciare alcuna traccia di sé, tra il sublime che percepiva in quei momenti di musica pura e l’assenza del proprio ego.
Cosí quella notte nessuno fu avvertito per tempo. Fu lo stesso Carlos che riuscí, chissà grazie a quale forza, ad aprire lo sportello e, con una commozione cerebrale in corso, a compiere i primi passi verso la salvezza. Nessuno sa con precisione quanto dovette camminare. È possibile intuire però la gioia che provò appena intravide una fattoria.
In quei giorni la balena scomparve di nuovo e quella volta sembrò per sempre. Era fuggita come solo in un giorno di giugno si può desiderare di fuggire. Qualcuno pensò che avesse trovato la strada della libertà, qualcun altro che le fetide acque del fiume fossero state mortifere. Altri ancora erano pronti a sostenere, non ci fossero state le foto che la ritraevano nel fiume, con le alte ciminiere dietro gli argini, che si era trattato solo di un sogno, di una specie di allucinazione collettiva. La sera del 16 giugno invece la balena fu avvistata per l’ultima volta a Hoek van Holland, sulla costa del Mare del Nord. Era riuscita a fuggire da tutti i suoi inseguitori. Secondo l’agenzia di stampa che diede la notizia, a condurla a pochi metri dal mare aperto furono gli operatori di una motovedetta dell’autorità portuale di Rotterdam.
Le persone della fattoria portarono Carlos all’ospedale di Stoccarda. Furono loro a capire che le condizioni in cui versava il giovane direttore d’orchestra richiedevano l’intervento immediato di un medico. Eppure bastò molto poco. Tuttavia a nessuno Carlos volle dire quel che davvero aveva provato, quel che era accaduto, se si era trattato di un errore, di una svista, di un colpo di sonno, oppure se era stato un gesto intenzionale, quello di lasciare che la vettura finisse contro un albero. Di fatto Carlos la sera del 20 giugno 1966 si presentò agli orchestrali con una fasciatura in testa. E sublime, come nelle prove, salí sul podio, e come un mendicante che con un cappello chiede poche monete per un caffè, cominciò ad agitare la bacchetta e a disegnare in aria un’infinita linea di bellezza. Nei giorni successivi, tra coloro che scrissero sui giornali per elogiare la grandezza di Carlos, nessuno si era accorto della fasciatura. Nessuno aveva nominato il nome del padre. Solo lui sapeva davvero tutto ciò che aveva passato. Tutto ciò che desiderava. Il mare aperto. Le misteriose traiettorie. I maestosi animali. Tutto ciò che riusciamo a intravedere solo in quei giorni di giugno. La fragilità e la sublime bellezza.