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La mia storia

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La mia storia

Informazioni su questo libro

« I 100 metri sono un rettilineo, non come la vita che è piena di curve e a tratti può sembrarti di correre all'indietro. Il percorso per salire sul podio è tortuoso, difficile, ma entusiasmante. Si può cadere, io sono caduto decine di volte. Ma ogni infortunio, ogni sconfitta, è una rampa per fare meglio. Ogni falsa partenza è un'opportunità. Finché arrivano quei dieci secondi in cui ti giochi tutto. Ne bastano 9, 80 perché nulla sia più come prima. » L'uomo più veloce del mondo è italiano.
Nell'estate olimpica 2021 Marcell Jacobs ha trascinato tutti in un brivido di 9 secondi e 80 centesimi, e poi in un'esultanza sfrenata e incredula. La sua medaglia d'oro nei 100 metri di Tokyo (poi bissata grazie alla vittoria nella staffetta 4x100) ha stupito il mondo, ma viene da lontano.
In questo libro Jacobs si racconta a cuore aperto. Flash, come il suo sprint fulmineo. Flash come i ricordi che riaffiorano e si ricompongono: la passione per la velocità, la crescita sportiva e la faticosa perseveranza dell'allenamento, l'inferno dei tanti infortuni e il cambio di disciplina dal salto in lungo alla distanza "regina" dell'atletica; ma anche i figli, l'amore, gli amici, un'infanzia segnata dall'assenza del padre e dal rapporto strettissimo con la madre e i nonni che lo hanno allevato a Desenzano del Garda. Per Jacobs non è stato facile superare la sensazione di non riuscire a esprimere il proprio potenziale. È servito un lavoro tenace insieme al golden coach Paolo Camossi, per trovare la giusta tecnica di riscaldamento, di corsa e di partenza e per gestire al meglio lo sforzo in gara. È servito il contributo di una mental coach per volgere a suo favore il peso del passato e delle aspettative. Il segreto della sua svolta vincente è proprio questo: correre libero e sciolto come un bambino; portando per mano, fin sui blocchi di partenza, quel piccolo Marcell che si sentiva abbandonato e che ora sorride. Il nonno lo aveva ribattezzato "motoretta umana": ora quel bambino è salito nell'Olimpo, ed è ancora affamato di record e vittorie, sempre restando se stesso.

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Informazioni

Tokyo, 1° agosto 2021
Vai a prenderti quello che è tuo

C’è un momento in cui sei solo con te stesso, in cui il brusio del pubblico si fa muto e ti sembra di stare in un acquario, ti guardi intorno e non vedi nulla, solo le luci dello stadio e gli altri atleti che si muovono lenti, come figurine in un tempo sospeso. È il momento in cui il mondo rallenta, un attimo prima che tu esploda, correndo a una velocità strabiliante verso il fondo della pista, mettendoci tutta l’energia che hai in corpo, e tutto si compie nel tempo di un respiro.
Mi trovo a Tokyo, sto per correre la semifinale olimpica. Il giudice ci chiama in pista e andiamo ciascuno nella propria corsia. Preparo i miei blocchi; ho cinque minuti, più o meno, per sistemarli. Poi provo un paio di partenze, per essere certo di non aver commesso errori. Da quando con Paolo abbiamo costruito la partenza sulle mie caratteristiche, è un po’ difficile che io sbagli.
Sono in grado di capire da solo se parto bene o male, ma nei momenti che precedono le gare cerco sulle tribune Paolo e lui con un cenno mi segnala se il movimento è giusto o no. Mi fa sempre segno che va bene anche se non è vero, ma comunque il suo pollice in alto mi rassicura.
Qui a Tokyo no, il coach segue tutte le gare sul maxischermo del campo di riscaldamento, a cinquecento metri di distanza. Solo un’altra volta mi aveva lasciato da solo in pista, agli Europei del 2018 a Berlino, ed era andata male. Anche oggi devo fare a meno della sua approvazione e affidarmi al mio intuito. Mi rendo conto che la partenza è buona se spingendo i primi quattro, cinque appoggi ho la sensazione di non fermarmi più…
Preparo con calma i blocchi. La barra centrale è fissata alla pista grazie a chiodi che entrano in profondità nel tartan. La controllo, poi sistemo i poggiapiedi, uno avanti e uno indietro, in base alla gamba con cui parto, che è la sinistra. Ognuno ha il suo metodo: blocchi lunghi per chi è più alto, stretti per chi è più esplosivo. Io li sistemo come i bambini. Sento ancora Adriano, il mio primo istruttore, che mi dice come distanziarli dalla linea di partenza. «Metti due piedi in quello davanti e tre piedi in quello dietro.»
Ecco, quello è il mio blocco! Poi regolo le leve per inclinarli al punto giusto.
Provo due, tre partenze, non di più, altrimenti spreco energie. Adesso siamo di nuovo tutti in piedi, uno vicino all’altro, ciascuno dietro al proprio blocco, nella propria corsia. La mia è la quinta, 5 è il numero che porto sulla maglia.
Ci presentano. Scorre la telecamera, mi sento come il gladiatore che mi sono tatuato sul braccio.
Qui a Tokyo non c’è pubblico, per colpa della pandemia di Covid. Un po’ mi dispiace, ma ai fini della gara non cambia molto, non è come nel salto in lungo o in alto, dove il pubblico lo chiami, lo inciti e lui ti aiuta, ti sostiene. Sui 100 metri, quando lo starter grida: «On your marks!», ai vostri posti, sugli spalti non vola una mosca. Certo, mi piacerebbe vedere lo stadio pieno di gente, ma così sono molto più concentrato su quello che devo fare. Me lo hanno detto tutti, mia madre, i miei fratelli, persino mio padre dall’America: «Vai e fai quello che devi fare».
Ci chiamano uno per uno, per nome, indicando la nazionalità e il tempo di qualifica nelle batterie. Mi è capitata la più difficile delle tre semifinali. È il momento della verità, avverto un po’ di tensione ma tutto sommato mi sento sciolto. Non provo rigidità nelle gambe, come mi succedeva negli anni passati. Non mi viene il mal di stomaco. Posso, finalmente, disinteressarmi degli altri e occuparmi solo di me stesso, della mia corsa.
Mi trovo tra il cinese Su Bingtian, a destra, e l’americano Ronnie Baker, a sinistra. Partiranno più forti di me, lo so già, ma io so di essere più veloce nella seconda parte. Devo solo mantenere la calma, non bloccarmi.
Non è facile fare la tua corsa quando vedi qualcuno che parte più rapido di te, d’istinto vuoi andare a riprenderlo, così però non guadagni velocità, i tuoi movimenti si fanno più duri, più meccanici, finisce che perdi terreno.
Devi cercare, mi dico, di stare il più calmo possibile. Il tempo interiore non è lineare come la manciata di secondi tra sparo, partenza e traguardo. Una cosa è l’intervallo tra start e fotofinish, altra il groviglio di pensieri che ti passa nella testa in quegli istanti. Puoi vederti scorrere davanti tutta la vita, prima che lo starter chiami i posti.
Poi, però, devi pensare solo a correre. «On your marks!»
Io faccio i miei soliti gesti che mi aiutano a concentrarmi. Incrocio le braccia sul petto, mi batto le mani sulle spalle e avvicino le mani alle tempie a mo’ di paraocchi. Guardo la pista, escludo tutto il resto dal mio campo visivo e dal cervello, guardo solo la mia corsia. Nient’altro. Fisso la direzione e mi dico: ci sei solo tu, non guardare gli altri, rimani focalizzato su quello che stai facendo, sei qui perché lo hai sempre voluto.
Vai a prenderti quello che è tuo!
1

C’è un vuoto dentro di me

C’è un vuoto dentro di me e si chiama Lamont Marcell Jacobs, mio padre. Per avere un’immagine di noi due insieme, ho dovuto cercare tra le fotografie. Attraverso quelle tre o quattro istantanee e le parole di mia madre, ho ricostruito una memoria. Mio padre l’ho rivisto una sola volta a Orlando, in Florida, quando ormai ero adolescente. Fu come incontrare un estraneo.
Convivo con la sua assenza da quando ricordo di essere vivo. Neanche adesso posso dire di conoscerlo, ho dovuto fare i conti con questo vuoto per diventare me stesso.
Il gesto che mi vedete fare ogni volta quando sono in piedi e sto cercando la concentrazione, la forza, prima di accucciarmi sui blocchi, quel mio modo di incrociare le braccia sul petto e battermi le mani sulle spalle, è un rito di cui non posso più fare a meno. Scaccia via i pensieri negativi e mi focalizza sull’unica cosa che conta per me in quel momento: correre il più veloce possibile. Come il giaguaro: felpato, rapido e implacabile. Libero da zavorre fisiche o mentali. Mi piace, quando corro, la sensazione di non toccare il terreno, di sfiorarlo. È come volare. Sono felice perché mi sento libero, sento la potenza dei miei muscoli e non mi pongo limiti. Ma forse dovrei prima spiegarvi meglio quella gestualità in cui c’è il me bambino, che vive situazioni che gli hanno fatto male. Alla fine, per vincere, ho dovuto riallacciare un rapporto con mio padre. Sgretolare il muro che avevo alzato nei suoi confronti. Smettere di non volerne sapere più niente di lui. Dentro di me portavo una ferita. A scuola mi dicevano: «Disegna la tua famiglia, parlaci dei tuoi genitori». Ma finiva che parlavo solo di mia madre, perché un padre non lo avevo, non sapevo neppure chi fosse. Ai miei occhi, ero il «bambino abbandonato».
Per tanti anni, quando c’era una gara, specie se importante e con avversari forti, non riuscivo a dimostrare il mio valore: mi focalizzavo su di loro. Mi preoccupavo di ciò che gli altri avrebbero pensato se non fossi andato bene, di quello che i giornali avrebbero scritto se non avessi corso come dovevo, dei commenti dei siti di atletica se non avessi soddisfatto i pronostici. Non mi concentravo mai su quello che dovevo fare, ma sempre sul pensiero di quello che gli altri si aspettavano che io facessi. Consegnavo il mio potere ai giornalisti, agli avversari, insomma a chiunque piuttosto che a me stesso.
Avevo paura e perciò mi costruivo alibi: «Mi dà fastidio una gamba», «Qualcosa non va alla schiena», «Ho dimenticato a casa i boxer portafortuna»…
Mi creavo giustificazioni per avere la comprensione di chi mi era vicino, per il timore di deludere ed essere di nuovo abbandonato. Per non essere lasciato solo. Il bambino che è dentro di me aveva paura di rivivere certe situazioni, di esporsi troppo, perciò rimaneva sulla difensiva, terrorizzato all’idea che qualcuno potesse fargli del male. Incrocio le braccia sul petto e batto le mani sulle spalle per toccare le gambine di quel me bambino, per tenerlo vicino e non vederlo soffrire. È come se mi rivolgessi a lui e gli dicessi: «Non nasconderti più, sali qui sulle mie spalle, guarda le cose che hai fatto, le responsabilità che sei stato capace di assumerti, guarda dove ti trovi ora, che cosa sei diventato, perciò esci allo scoperto, c’è Marcell con te, è cresciuto, ci pensa lui a prenderti per mano e portarti dove abbiamo sempre sognato di arrivare».
In quel momento, con quel gesto, ritrovo mio padre, mi riappacifico con lui, divento quasi il padre di me stesso.
Il bambino che appoggio sulle spalle quando sto per mettermi ai blocchi non ha età, non cresce. Se però mi chiedete di descriverlo, vi rispondo che lo immagino di sei o sette anni. A volte fa ragionamenti da grandi, altre ha ricordi di quand’era ancora più piccolo. L’elemento che lo contraddistingue è quello di essere un bambino impaurito che si rintana, che si spaventa a farsi vedere, che teme il giudizio degli altri ed è felice solo quando mi sta a cavalcioni, guarda la pista che abbiamo davanti e non vede l’ora di mettersi a correre.
Sono nato a El Paso, Texas, il 26 settembre 1994. I ricordi che mi permettono di ricostruire quel periodo fondamentale e misterioso sono mediati da mia madre. Quando ero davvero piccolo, lei mi teneva buono raccontandomi una verità aggiustata: mio padre era un marine che ogni tanto tornava dalle sue guerre in giro per il mondo per stare con noi, cioè con me. Arrivò a dirmi che una volta lui mi aveva portato a sparare, anche se io proprio non me lo ricordavo. Voleva convincermi che Lamont non fosse il padre che mi aveva lasciato, ma un padre che non poteva essere presente pur volendo.
Con gli anni, mia madre cominciò a correggere quell’idea che mi aveva inculcato, a dirmi la verità un brandello alla volta. Lamont era un soldato, non proprio un marine, serviva in un corpo speciale che aveva il compito di presidiare i siti nucleari. A un certo punto era andato in Corea del Sud e lì aveva fatto uso di droghe, come capita spesso ai militari nelle missioni lunghe all’estero.
Io, in realtà, avevo già capito che le cose stavano diversamente da come me le aveva raccontate mia madre; se fossero state vere, lui ogni tanto si sarebbe fatto vivo, mi avrebbe chiamato, scritto. Invece, niente. Così ho cominciato a dirmi che non me ne importava nulla di lui e alla fine ho alzato un muro. Contro quel muro sono andato a sbattere tante volte senza rendermene conto. Prima delle gare sentivo un peso sul cuore. Per uno come me che «corre col sorriso», come dice Paolo, succedeva qualcosa di incomprensibile: mi aumentava la pressione, i battiti acceleravano, sudavo, avevo il respiro corto e tutti i sintomi di un’ansia crescente.
La verità, vi dicevo, mi è stata raccontata un po’ alla volta. Fin da piccola mia madre era attratta dall’America, da quel mondo che rappresentava ai suoi occhi forza, bellezza e potenza. Quell’universo lontano, così diverso dal nostro, la affascinava. Una sera, lei era ancora adolescente, sua sorella maggiore la portò in una discoteca a Vicenza, che era frequentata da americani della NATO. Là è successo il patatrac. C’erano questi militari e Viviana, mia madre, incrociò lo sguardo di Lamont. Era bello, alto quasi due metri, aveva modi gentili. Atletico, dinoccolato, trasmetteva sicurezza. Avevano diciotto anni lui, sedici lei. Era appena arrivato in Italia, faceva il carrista nella base di Portogruaro, lontano da Castiglione delle Stiviere dove mia madre viveva coi genitori. Fu un colpo di fulmine, come molti anni dopo, in una discoteca a Milano, tra me e Nicole. Agli inizi si vedevano una volta al mese, sempre in quella discoteca di Vicenza. Poi è sbocciato un sentimento più forte, lui la andava a trovare ogni fine settimana a Castiglione.
Era un gigante buono. Simpatico. Faceva tanti sport e in tutti riusciva bene, dal basket alla corsa. Amava i videogiochi, proprio come me. Mia madre mi ha raccontato che una sera era andata a dormire e l’aveva lasciato che giocava. Il mattino dopo, lo trovò ancora lì che smanettava.
Poi arrivò il giorno in cui Lamont disse a mia madre che aveva ricevuto una lettera: i suoi capi gli ordinavano di rientrare. I due anni in Italia erano finiti. Lei non ci pensò due volte. «Non vorrai mica lasciarmi qui?»
Lui la guardò, sposarsi e portarla negli States non era una decisione da prendere alla leggera. Dopo averci riflettuto, ammise che però era l’unica soluzione.
Mia madre non aspettava altro. «Good idea!»
Stavano insieme già da due anni, si amavano. Passarono sei mesi prima del matrimonio in Comune a Castiglione. Lamont era protestante, non potevano unirsi in chiesa col rito cattolico. Adesso lui aveva ventun anni, lei diciannove.
Fu così che Viviana decise di partire per gli Stati Uniti con un marito americano e di colore.
Dopo il matrimonio, volarono dai miei nonni paterni a Jacksonville, Florida. Altre due settimane e mio padre prese servizio a El Paso. Mia madre rimase dai suoceri per qualche tempo, aspettando che Lamont si sistemasse. Infine, dopo tre mesi lo raggiunse.
Quando nacqui io, dieci giorni dopo che i miei genitori si erano ricongiunti a El Paso, ci fu assegnata una casa all’interno della base, che di fatto era un aeroporto: il Biggs Army Airfield a Fort Bliss, la seconda più grande area militare degli Stati Uniti, creata nel 1919 dopo l’ennesimo attacco di Pancho Villa.
Tutto era successo in così poco tempo! Mentre lo racconto penso alla forza che deve aver avuto mia madre, e quanto dovesse amarlo. L’impatto con El Paso fu quello che potete immaginare: emotivamente forte, sfidante, ben più che a Jacksonville dove le era sembrato di stare in vacanza.
El Paso è una città enorme in mezzo al deserto del Chihuahua, il capoluogo di una contea alla fine del mondo… Sono andato a ricercarla sulla mappa degli Stati Uniti. È la tipica città di frontiera. Il Rio Grande la separa da Ciudad Juárez, che è già Messico, ancora più vasta e popolosa.
Qui mia madre dovette crescere e diventare donna in fretta, trovare lavoro, sistemare la casa, prendersi cura del marito e del figlio piccolo. Anche la solitudine lavorò su di lei. In quella città, così diversa dai paesi del Lago di Garda dov’era cresciuta, non poteva che sentirsi straniera, estranea. A legarla era solo l’amore per Lamont. El Paso era anche, nei suoi ricordi, una città pericolosa per i militari americani e le loro famiglie. Lei viveva con l’angoscia di perdere la strada e ritrovarsi dalla parte “sbagliata” della città, la più a rischio. Siccome papà era un militare, mia madre aveva r...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prologo
  4. Tokyo, 1° agosto 2021. Vai a prenderti quello che è tuo
  5. 1. C’è un vuoto dentro di me
  6. 2. La motoretta umana
  7. Tokyo, 1° agosto 2021. «On your marks!»
  8. 3. Mamma’s boy
  9. 4. Tacchi a spillo e scarpette chiodate
  10. Tokyo, 1° agosto 2021. La bambola
  11. 5. Muscoli di burro
  12. 6. Paura di volare
  13. Tokyo, 1° agosto 2021. Vai e divertiti!
  14. 7. Golden coach
  15. 8. Match Point
  16. Tokyo, 1° agosto 2021. Andiamo a correre!
  17. 9. Amici e rivali
  18. 10. La scossa
  19. Intermezzo. L’elastico è diventato una fionda
  20. 11. Brezza di mare
  21. 12. Il pendolo
  22. Tokyo, 1° agosto 2021. Carpe diem
  23. 13. L’uomo dei sogni
  24. 14. Call Room
  25. Tokyo, 1° agosto 2021. L’urlo
  26. Epilogo
  27. Copyright