I
Un giorno prima della stazione terminale il treno si era già quasi completamente svuotato. Percorse l’ultimo pomeriggio senza fermarsi, e quando verso sera, qualche ora prima dell’arrivo, A.G. ripassò ancora una volta lungo le vetture, scorse soltanto due persone negli scompartimenti polverosi e male illuminati, un vecchio magro dall’aspetto da contadino, e poi, nell’ultimo traballante vagone, una vecchia appisolata, che per difendersi dalla polvere si era coperta il viso con un grande fazzoletto di cotone celeste. La locomotiva ormai trainava solo sei piccoli vagoni: carrozze malandate, non più in servizio sulle linee principali, con sedili consunti, lampadine impolverate, finestrini rotti. L’oscurità calò prima di quanto ci si sarebbe aspettato in quella stagione. Si viaggiava sotto un cielo plumbeo, che favoriva la malinconia e affrettava l’opacità serale. Raggiunsero la stazione d’arrivo che era ormai sera inoltrata.
I tre passeggeri trascorsero la notte sulle panche della sala d’attesa. Quando iniziò a diffondersi il primo grigiore dell’alba, un monte brullo, alto ottocento o mille metri, apparve a qualche chilometro di distanza, dietro l’edificio della stazione; di fronte, invece, sotto il cielo ancora privo di luce, si stendeva una muta pianura senza fremiti, che si perdeva all’orizzonte. Passeggiando avanti e indietro lungo i binari, A.G. aspettò che il capostazione si svegliasse.
Il convoglio sostava ancora vuoto davanti all’edificio. A notevole distanza, lungo una curva della strada polverosa che portava verso il monte, si scorgevano il vecchio contadino e l’anziana donna, entrambi con un fagotto bianco in mano, che si allontanavano camminando uno dietro l’altra e sollevando con i loro passi nuvolette di polvere. Nessuno dei due aveva salutato A.G. C’era un gran freddo, dalla parte della pianura tirava un vento silenzioso e tenace, che faceva correre brividi gelidi lungo la schiena.
Era già piuttosto tardi quando il capostazione uscì da casa sua per entrare nell’ufficio. A.G. gli domandò come si faceva per arrivare a X. Il capostazione alzò lo sguardo su di lui e non rispose. A.G. ripeté la domanda.
«A X?» chiese il capostazione. «Sarà una cosa complicata. Mezzi di trasporto non ce ne sono, può andarci solo a piedi.»
«Quanto è distante?»
«Se cammina spedito potrà arrivarci tra due settimane» disse l’altro. «Però durante il viaggio non troverà da mangiare. Ci sono solo pochi insediamenti umani da quelle parti, e sono lontani dalla strada. E dove dormirà di notte? Sotto il cielo aperto?»
Nel pomeriggio il capostazione riuscì a trovare qualcuno disposto a dare un passaggio ad A.G. su un carro fino a un punto distante da X tre giorni di cammino; non poteva accompagnarlo oltre, disse, perché doveva tornare indietro a riprendere servizio. Era il macchinista della locomotiva, che aveva condotto il convoglio fino a quella stazione terminale, e solo dieci giorni dopo avrebbe dovuto riprendere il viaggio in senso inverso. Avrebbe acquistato anche un po’ di viveri, promise. Era una persona cupa, scontrosa, evidentemente aveva deciso di malavoglia di intraprendere il viaggio, spinto dalla noia. Era ormai tardo pomeriggio quando partirono con una carretta tirata da un asino bigio, magro, con certe macchie spelate grandi un palmo sulla vecchia cute. Sotto l’asse di legno che serviva da sedile era stato gettato un mezzo sacco di patate, mentre il bagaglio di A.G., costituito da una valigia di pelle di vitello e da uno zaino verde, fu sistemato dietro il sedile. Affrontarono in linea retta la pianura che si stendeva davanti alla palazzina della stazione, il suolo sabbioso era ricoperto, fin dove giungeva lo sguardo, da un rado tappeto di grigia erba desertica, dagli steli lunghi e affilati come rasoi; qua e là, da questo squallido tessuto, spuntavano folti gruppi di cespugli in conformazioni irregolari e capricciose.
«Non c’è una strada?» domandò A.G.
«No» rispose il macchinista. «È stata ricoperta dalle erbacce.»
«Non viene nessuno da queste parti?»
L’altro gettò uno sguardo truce al suo passeggero. «A far che?»
«Per favore, mi risponda!» disse A.G.
«Ho già risposto, signore» disse il macchinista. «Solo che lei non ha capito. Se non c’è motivo di venire, non ci viene nessuno.»
La pianura era coperta da una fitta coltre di nuvole pesanti, spesse, di colore grigio opaco, attraverso cui non filtrava alcuna luce che potesse esser utile per orientarsi. Già durante il lungo viaggio in treno A.G. si era sentito oppresso da quel cielo che sembrava sempre coagulato, e che assorbiva nel suo corpo di latte rappreso la luce solare in arrivo dall’alto, per poi rigurgitarla ormai spenta sulla terra sotto di sé; quel cielo lo avrebbe accompagnato sempre, d’ora in poi?
«E come si orienterà senza strada?»
«Si va sempre verso occidente, signore, dritti come una freccia» rispose il macchinista. «Non si può sbagliare. Il sole si alza dietro il monte.»
A.G. fu preso da un’irritazione per lui insolita.
«Ma se domani non vediamo più il monte?»
Non aveva ancora visto un solo uccello da quando si erano messi in marcia, per terra non c’era traccia di una qualsiasi vita animale, non una lucertola, un insetto, una blatta, un verme. L’erba si piegava sotto le ruote della carretta, ma si capiva che entro un’ora o due avrebbe di nuovo ripreso a dondolarsi nel vento gelido che soffiava dritto da occidente. Di tanto in tanto vasti aggregati di cespugli fitti e spinosi sbarravano loro la strada e bisognava girare al largo poiché sembravano davvero impenetrabili, e così per delle mezzore intere i due ricevevano il vento di fianco. Il deserto privo di punti di riferimento non offriva più orientamento che il mare aperto.
«Ho una bussola» disse il macchinista «però non ne abbiamo bisogno, perché si deve sempre procedere dritti controvento.»
«E se il vento si arresta?»
«Non si arresta.»
«Neanche di notte?»
L’altro, invece di rispondere, scrollò una spalla, di malumore. Evidentemente si vergognava, macchinista qual era, di guidare una carretta tirata da un asino. A.G. capiva il suo sconforto. L’animale sembrava perfino più vecchio di quella decrepita T.110 a sei ruote che aveva trainato il convoglio fino alla stazione; il somaro andava per lo più al passo, e soltanto dopo reiterati incitamenti con il fischietto si convinceva a un trotto silenzioso, ma poi entro pochi minuti rallentava di nuovo, e il macchinista era ancora costretto a portare alla bocca il suo fischietto. Incessantemente, dal mattino fino a tarda sera, quegli acuti fischi rabbiosi risuonavano per la sterminata pianura spazzata dal vento, ed era quella l’unica voce, oltre al sottile sibilo dell’erba oscillante e al sommesso brontolio dei cespugli, a far vibrare i timpani di A.G. Il macchinista non parlava. Le ruote incidevano profondamente il terreno sabbioso, e ogni tanto scricchiolavano anche, e capitava talvolta di dover scendere a far risuscitare il veicolo, sprofondato fino al mozzo, dalla sua morte apparente; in queste occasioni il macchinista spingeva l’asino, mentre A.G. spingeva la carretta. A un certo punto cominciò a piovere, ma poi smise. Un’altra volta il carro gettò per qualche minuto un’ombra chiaramente distinta, benché tenue, sul terreno, poi il cielo si rabbuiò di nuovo.
Il quarto giorno l’asino si fermò, e sollevando adagio la testa si mise a ragliare. Sembrava che volesse vomitare, e anche la sua testa rivolta al cielo, con i grandi occhioni lacrimosi, faceva pensare a un bambino in preda a un panico mortale, che vomitando per la prima volta in vita sua non sa che cosa gli stia succedendo. Però la voce, che all’inizio era un profondo rantolo che finiva in un urlo chiaro e sempre più acuto, continuava a crescere, e a ogni ripresa risultava più stridula e disperata; si aveva l’impressione che al prossimo grido le viscere dell’animale si dovessero staccare e rovesciare all’infuori attraverso la bocca spalancata; già nella voce si potevano sentir penzolare brandelli di vita dei polmoni, del cuore, degli intestini. Con i suoi fianchi concavi, con il ventre scosso da sommovimenti convulsi, e con la testa sollevata che tremolava di qua e di là, il vecchio asino emetteva i suoni della massima disperazione animale, quei rantoli rauchi e stridenti parevano salire direttamente dai testicoli alla gola, rivoltando la lingua e traforando le narici sanguinanti. Dio stesso ne avrebbe avuto pietà a sentirlo. Il macchinista se ne stava accanto alla povera bestia a testa bassa, immobile.
«Non si va più avanti, signore» disse dopo qualche tempo.
«Cosa intende dire?» domandò A.G.
Il macchinista abbassò gli occhi a terra. «Non posso andare più avanti» ripeté.
«Siamo già arrivati fin dove ci siamo accordati?»
«Mi dispiace, signore» disse il macchinista, ancora più nervoso del solito.
«Non vuole proseguire?» domandò A.G.
L’uomo, invece di rispondere, fece un passo indietro, levò dalla carretta la valigia e lo zaino di A.G., li posò per terra, poi tornò verso l’asino, afferrò le briglie e lentamente voltò il veicolo. L’animale tacque di colpo. A.G. scese dal carro.
«Parli!» gridò con rabbia.
Le vene sembravano scoppiare sulle tempie del macchinista. «Non so che altro dire, signore», rispose. «Non andiamo più avanti.»
«Quanto manca per arrivare a X?»
«Otto giorni di marcia.»
«Questo è un tradimento!» esclamò A.G.
Il macchinista risalì sulla carretta. «Può tornare con me, se vuole. Ma se non torna, mi deve pagare la metà di quanto abbiamo pattuito per il trasporto.»
Il paesaggio rimase immutato, continuò a srotolare da sé le sue grigie lenzuola senza ondulazioni, con arida e monotona pedanteria. Il vento non si arrestò, anche di notte continuò a scuotere i rami dei cespugli, ricoperti di spine e di foglie minute; non era possibile sbagliare strada, a meno che la direzione del vento non mutasse in segreto. Ma A.G. non aveva alcun modo di controllare questa eventualità, perché all’alba la volta del cielo densa di nuvole si rischiarava nello stesso momento da tutte le direzioni, gli oggetti non gettavano ombre. Si fece la barba, poi proseguì. Dopo tre giorni di marcia forzata buttò via la pesante valigia di vitello, mettendo in serbo nello zaino soltanto un cambio di biancheria, qualche fazzoletto e alcune paia di calze. Il polso destro gli si era gonfiato. Mangiò poco e per il resto del viaggio gli rimasero solamente alcune scatole di conserva di manzo con fagioli e due tavolette e mezzo di cioccolato.
La pianura cominciò lentamente ad animarsi. Per prima cosa il suo piede inciampò in un filo di ferro arrugginito, che era...