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Il massacro dimenticato della Grande Guerra

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Il massacro dimenticato della Grande Guerra

Informazioni su questo libro

Le vicende della Grande Guerra sul fronte italo-austriaco sono note al grande pubblico di lingua inglese essenzialmente attraverso le pagine di "Addio alle armi" di Ernest Hemingway e le poche righe di circostanza che si possono trovare nei testi dedicati dagli storici angloamericani alla ricostruzione del primo conflitto mondiale. Questo libro di John R. Schindler rappresenta una eccezione di assoluto rilievo nella storiografia contemporanea statunitense in quanto è il primo studio scientifico in lingua inglese che esamina con la necessaria ampiezza le fasi dello scontro lungo quel fronte. L'Autore ricostruisce gli aspetti operativi delle battaglie dell'lsonzo e richiama in modo attento l'importanza del fattore informativo nella preparazione e conduzione delle varie offensive, di cui sottolinea l'enorme costo in termini di vite umane. Schindler rilegge in maniera originale anche l'esperienza della guerra in trincea e, quando occorre far risaltare l'evoluzione di vicende d'insieme che coinvolgono masse di soldati in lotta feroce con altre masse di soldati, riesce a inserire nella narrazione degli scontri dei veri e propri cammei che ricostruiscono singole esperienze di vita e di battaglia. Ma l'interesse maggiore per la ricerca di Schindler deriva dalla sua capacità di affrontare lo scontro armato lungo l'lsonzo in maniera professionale e accurata, arricchendo e integrando lo studio della bibliografia e il lavoro d'archivio con la ricognizione sul territorio. Lo studioso statunitense ha saputo andare oltre l'aspetto meramente descrittivo del paesaggio naturale per cogliere con la necessaria precisione anche la dimensione essenzialmente multietnica del paesaggio umano tipico di quel teatro operativo. Si tratta di un salto di qualità che risulta assai raro anche per gli studiosi italiani, solitamente poco attenti al fatto che Caporetto è in realtà Kobarid e che il cosiddetto "fronte dell'lsonzo" non è solo il fronte di Nord Est della guerra italiana ma è anche e soprattutto un territorio multietnico di confine segnato da scontri e tensioni che hanno preceduto i trenta mesi della guerra italo-austriaca e che non sono certo venuti meno con la fine delle ostilità. Schindler spinge tanto avanti il riconoscimento della realtà multietnica della zona da interpretare in tale chiave anche l'andamento degli scontri, con puntuali riferimenti alla composizione delle nazionalità all'interno delle unità imperial-regie qui impegnate, sottolineando come lo svolgersi degli scontri dal 1915 al 1917 avesse fortemente condizionato il rendimento bellico delle unità austro-ungariche. L'Autore va poi oltre la dimensione strettamente militare e operativa e allarga la sua riflessione anche ad altre problematiche. In particolare, Schindler rovescia l'interpretazione corrente secondo cui la fine della Duplice Monarchia era dovuta essenzialmente a questioni politiche o etniche e spiega invece la sconfitta austro-ungarica essenzialmente con ragioni di tipo economico e militare. Infine, Schindler afferma il fatto (noto ma generalmente sottovalutato) che il fascismo è nato sull'Isonzo e mette in luce in maniera convincente i collegamenti tra il primo e il secondo conflitto mondiale, ricostruendo, in un denso capitolo finale, le carriere politiche e militari seguite dal 1918 al 1945 (e oltre) sia da alcuni combattenti italiani che da quelli dell'lsonzoarmee divenuti cittadini dei molti Stati e staterelli in cui si era frantumata la Duplice Monarchia. Il volume è corredato da immagini storiche e cartine a cura della redazione di Leg edizioni.

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Informazioni

1915

III. “L’ora del trionfo delle virtù più alte”

Appena l’Italia ebbe dichiarato guerra, il generale Luigi Cadorna avvicinò rapidamente il quartier generale ed il suo staff al fronte. Stabilì il Comando Supremo nella città di Udine, distante appena sedici chilometri dal confine austriaco e ventisette soltanto dalle rive dell’Isonzo. Cadorna intendeva dirigere da qui l’esecuzione della sua grandiosa strategia, e controllare l’attuazione dei suoi piani. Egli attendeva che la 2ª e la 3ª Armata, in marcia nel Friuli orientale, giungessero con rapidità in territorio austriaco per combattere sull’Isonzo la battaglia decisiva. Cadorna aveva previsto che le sue divisioni avrebbero sfondato facilmente le deboli difese austriache, per poi avanzare velocemente in direzione est verso il valico di Lubiana, che avrebbe consentito loro di attraversare le Alpi Giulie e di sfociare nelle pianure dell’Europa centrale. Una volta raggiunto questo obiettivo, le sue forze avrebbero minacciato la capitale dell’Austria. L’“Italia Irredenta” sarebbe stata liberata, e l’impero austriaco si sarebbe ritrovato in ginocchio. Il tutto si sarebbe concluso entro la metà dell’estate.
Le circostanze sembravano giocare a favore di Cadorna. Il 23 maggio, giorno d’apertura delle ostilità, le sue truppe vennero tutte poste sul piede di guerra. Mesi di preparativi segreti, congiunti alla mobilitazione parziale di fine aprile, avevano fatto sì che quella ufficiale del 22 maggio non costituisse che una pura formalità. L’esercito era pronto a scendere subito in campo. La forza messa a disposizione di Cadorna era impressionante. Il suo esercito operativo era formato da 900.000 soldati. Calcolando le riserve di seconda linea, in totale comprendeva trentacinque divisioni di fanteria, una decina di divisioni di milizia territoriale e quattro divisioni a cavallo, oltre alla divisione dei Bersaglieri, fanteria leggera d’élite. Vi erano anche cinquantadue battaglioni di Alpini, truppe esperte da montagna, e quattordici battaglioni di Genieri. L’artiglieria campale contava 467 batterie, quasi 2.000 pezzi tra cannoni ed obici. Vi erano inoltre numerosi battaglioni di Carabinieri e Guardie di finanza a sostegno dell’esercito operativo. I mesi che Cadorna impiegò per preparare alla guerra le sue unità diedero buoni frutti. L’esercito italiano era ben più numeroso, addestrato ed equipaggiato di quanto lo fosse l’estate precedente.
Nonostante ciò, l’ordine di battaglia di Cadorna conteneva pericolosi punti deboli. Sulla carta, le divisioni di fanteria italiane erano organizzate in modo abbastanza simile a quelle austriache: due brigate di fanteria, ciascuna delle quali con reggimenti da tre battaglioni; un reggimento di artiglieria campale; unità di sostegno del genio e di cavalleria; e unità mediche e di servizi logistici a supporto delle divisioni schierate sul campo di battaglia. Eppure, malgrado il generale Vittorio Zupelli avesse impiegato diversi mesi a riorganizzare le forze in campo e a procurare loro armi efficienti, le unità di combattimento risultavano ancora prive di cannoni moderni, di mitragliatrici e persino di fucili. Le carenze più rilevanti riguardavano l’artiglieria. L’artiglieria campale leggera, che aveva svolto gran parte del lavoro, era abbastanza ben attrezzata, ma l’esercito poteva contare su pochi cannoni da montagna, fondamentali per il combattimento in quota che Cadorna si apprestava ad affrontare. Peggio ancora, il parco di artiglieria pesante era molto limitato: nell’intero esercito si contavano soltanto 112 cannoni pesanti. Questa carenza di grossi calibri si sarebbe dimostrata un grave problema, in quanto lo scontro sul fronte dell’Isonzo avrebbe assunto molto presto caratteristiche simili a quelle dell’assedio. Le truppe di Cadorna risultavano anche a corto di mitragliatrici, le armi maggiormente utilizzate nel corso della Prima guerra mondiale. Alla fine di maggio l’esercito poteva contare appena su 618 mitragliatrici, una media di due soltanto per reggimento di fanteria – un terzo rispetto all’Austria. Le bombe a mano, armi utili ma pericolose che vennero impiegate per la prima volta proprio nel 1915, erano assolutamente sconosciute all’esercito italiano. A tutto ciò si aggiungeva anche la carenza di fucili moderni. Quando iniziarono le ostilità, gli arsenali italiani producevano soltanto 2.500 fucili mod. 1891 al mese, una quantità assolutamente inadeguata ad equipaggiare le riserve e le unità militari, ed a rimpiazzare le perdite subite in battaglia. La riserva di proiettili d’artiglieria era limitata, sufficiente al massimo a sostenere una guerra di breve durata; la produzione giornaliera di granate delle fabbriche italiane – sette colpi a pezzo – non poteva consentire un combattimento prolungato. Le forze italiane, benché numerose, erano perciò impreparate ad affrontare una lunga campagna. Se il combattimento fosse durato più di qualche settimana, l’esercito si sarebbe trovato con una quantità di proiettili e di munizioni insufficiente. Fortunatamente per Cadorna, la superiorità numerica dello schieramento italiano era così schiacciante che la disfatta dell’Austria sembrava sicura.
Le truppe italiane avevano a loro favore un altro importante elemento per compensare le carenze in fatto di equipaggiamento. L’esercito austriaco, che già nel 1914 appariva impreparato ad affrontare i combattimenti, aveva subito milioni di perdite ed era in ginocchio. I reggimenti asburgici erano al di sotto dei loro organici, stremati dalla guerra, e nei Carpazi il morale stava precipitando. Per quanto tempo l’esercito austriaco, ridotto così malamente, avrebbe potuto sostenere un terzo fronte? All’opposto, le forze italiane erano fresche e ansiose di gettarsi nella mischia. Esse non mostravano alcun segno di affaticamento; le armate di Cadorna marciavano verso la guerra con lo stesso entusiasmo manifestato dall’Austria quasi un anno prima. I loro ranghi erano formati da migliaia di giovani volontari ardenti e desiderosi di scendere in campo per liberare le province italiane dall’Austria. Per questi uomini, infervorati da un romantico nazionalismo, era finalmente arrivato il giorno della resa dei conti con gli Asburgo e della gloria italiana. Come scrisse un giovane poeta, “Questa è l’ora del trionfo delle virtù più alte”. I reggimenti italiani, ancora integri, marciarono alla volta dell’Isonzo con un entusiasmo che non si era più visto in Europa da quando, dieci mesi prima, ranghi di volontari giubilanti, ignari del proprio triste destino, avevano lasciato Vienna per la Serbia e la Galizia.
Il piantone di guardia alla sede del comando della Terza Armata, la più famosa Grande Unità italiana e senz’altro la più conosciuta fra le molte che hanno inquadrato i militari del Regio Esercito dal 1915 al 1918. Alle spalle del piantone, il duca d’Aosta. (Raccolte storiche del Comune di Milano)
Il piantone di guardia alla sede del comando della Terza Armata, la più famosa Grande Unità italiana e senz’altro la più conosciuta fra le molte che hanno inquadrato i militari del Regio Esercito dal 1915 al 1918. Alle spalle del piantone, il duca d’Aosta. (Raccolte storiche del Comune di Milano)
I caduti provocati dalla potenza del fuoco avversario non rappresentavano nient’altro che numeri. Nelle Fiandre, in Galizia, in Alsazia e nella Serbia, le granate avevano annientato intere divisioni di entusiasti volontari. La volontà di combattere era certo fondamentale e condizione imprescindibile per qualsiasi esercito, però da sola non bastava a sconfiggere l’artiglieria, e non poteva sostituire un addestramento efficace e una preparazione adeguata. Questa fu la lezione che si poté senz’altro trarre, nel 1914, dal terribile massacro che imperversò su tutti i fronti.
L’esercito austriaco, ridotto allo stremo, lo aveva imparato. I reggimenti asburgici non sarebbero mai più andati in battaglia preparati in modo così improvvisato come era avvenuto l’estate precedente. L’esercito austriaco, a prezzo di due milioni di soldati caduti in battaglia, aveva appreso che erano le armi moderne – specialmente le mitragliatrici e l’artiglieria – a dominare sul campo di battaglia e a determinare l’esito del combattimento. Le truppe di Cadorna, che si stavano radunando per lo scontro, non fecero propri tali insegnamenti.
I piani tattici italiani, ovvero le istruzioni ufficiali fornite dai comandi sul modo di impiegare le unità sul campo di battaglia, non furono modificati neanche a seguito dei combattimenti che avevano insanguinato l’Europa nel corso degli ultimi dieci mesi. La dottrina militare italiana non dimostrava di aver assimilato la lezione dei tragici combattimenti avvenuti sia sul fronte occidentale che su quello orientale. Sotto la direzione di Cadorna, l’esercito si era preparato alla guerra trascurando di esaminare le nuove modalità di combattimento che si erano affermate l’anno precedente, in particolar modo la guerra di trincea. Nell’Europa intera, ma soprattutto in Francia e nelle Fiandre, gli opposti schieramenti avevano scavato a fondo nel terreno per sfuggire agli effetti letali dell’artiglieria e del fuoco delle mitragliatrici. Il combattimento si era trasformato in guerra di posizione e di trincea, condizione che favoriva nettamente la difesa. Ciò rappresentò un duro colpo per tutti, costituendo il perfetto ribaltamento degli insegnamenti di tattica impartiti in Europa prima della guerra, secondo i quali la futura lotta sarebbe stata mobile e decisiva, con le armi moderne che avrebbero favorito l’attaccante. Malgrado ciò, Cadorna aveva progettato di combattere una guerra offensiva mobile, esattamente del tipo che era scomparso dagli altri fronti. L’esercito italiano si accingeva ad affrontare gli austriaci con la stessa tattica – massicci assalti di fanteria senza il supporto diretto dell’artiglieria – che nel 1914 aveva prodotto ovunque effetti catastrofici.
Sarebbe stato comunque prevedibile che tali metodi avrebbero portato al disastro. Su tutti i fronti in cui si combatteva l’Italia aveva ufficiali in servizio che fungevano da osservatori e che erano stati testimoni del massacro e del drastico mutamento delle tattiche di guerra. Gli addetti dell’esercito in servizio presso le capitali straniere avevano goduto dell’opportunità di osservare il progredire della guerra di trincea. Nel mese di maggio 1915, Cadorna ed il suo staff disponevano quindi di una gran quantità di informazioni che indicava chiaramente come l’andamento degli scontri sul fronte occidentale non corrispondesse a quello previsto. Nei mesi di dicembre 1914 e di febbraio 1915, il tenente colonnello Breganzi, addetto militare a Parigi, consegnò dettagliati rapporti riguardo i combattimenti in Francia. Nel suo primo rapporto aveva registrato il predominio della difesa, il ruolo determinante dell’artiglieria e delle fortificazioni, le perdite enormi ed il massiccio quantitativo di munizioni utilizzato; nel secondo rapporto era giunto alla conclusione che in simili condizioni era impossibile, per ciascuna delle due parti, ottenere in battaglia una risoluzione vittoriosa. A marzo Cadorna ricevette un’analisi ancor più approfondita da parte del colonnello Bongiovanni, addetto a Berlino. Il colonnello descrisse dettagliatamente tutti gli aspetti della nuova guerra simile ad un assedio di trincea, che prevaleva dovunque sul fronte occidentale: il predominio dell’artiglieria e delle mitragliatrici, la necessità di un’interazione tra fanteria e artiglieria, la costruzione di trincee e l’impatto del filo spinato e delle nuove armi, come le bombe a mano ed i mortai. Bongiovanni avvertì Cadorna che le offensive, per giungere ad un esito positivo, dovevano disporre di ingenti quantitativi di pezzi artiglieria e, ancor più, di proiettili. Il capo di Stato Maggiore non prestò alcuna attenzione a quei rapporti rivelatori, che invece avrebbero dovuto indurlo alla cautela. L’ostinato e testardo Cadorna riteneva che gli austriaci fossero stanchi e prossimi al collasso, e che quindi le sue forze avrebbero attraversato l’Isonzo senza sostenere un combattimento prolungato. La sua debole concezione implicava un massiccio fuoco di preparazione d’artiglieria seguito da ondate di fanteria per travolgere il nemico. Cadorna era intimamente convinto della vittoria; l’entusiasmo e l’alto morale delle truppe avrebbero avuto la meglio su ostacoli puramente materiali: “Ciò dipenderà dalla loro energia, dalla loro tenacia e dal loro convincimento nella propria superiorità materiale e morale”.
Nel corso degli ultimi giorni di maggio, la 2ª e 3ª Armata, assai rinforzate e giunte sul confine austriaco, effettuarono gli ultimi preparativi per la battaglia. La 3ª Armata, comandata dal nobile e popolare cugino del re, Emanuele Filiberto di Savoia, duca d’Aosta, doveva compiere la missione più rilevante dal punto di vista politico: proteggere il margine occidentale del Carso e marciare su Trieste. La 2ª Armata del Generale Pietro Frugoni doveva invece conquistare Gorizia e l’alta valle dell’Isonzo. Prima dell’inizio dell’attacco principale, le divisioni di Frugoni dovevano comunque svolgere un compito preliminare di estrema rilevanza: impadronirsi di alcune vette alpine e di alcune importanti località prima che gli austriaci fossero in grado di rafforzare le loro deboli guarnigioni. Durante le ultime giornate di maggio e le prime di giugno, la 2ª Armata doveva attraversare l’Isonzo nella sua parte alta, occupare la località di Caporetto ed alcune vette di rilievo strategico, tra cui il Monte Nero e la catena del Kolovrat. Frugoni preparò le sue unità per i primi scontri, concentrandosi in particolare sugli Alpini, il suo reparto da montagna d’élite.
Mentre la 2ª Armata effettuava gli ultimi preparativi, Cadorna ed il suo staff, a Udine, attendevano gli sviluppi della guerra. Il capo di Stato Maggiore era chiaramente infastidito dal fatto che i movimenti delle truppe nella zona di battaglia fossero più lenti del previsto, malgrado i mesi di pianificazione. Erano state attuate alcune penetrazioni di secondaria importanza oltre il confine, appena dopo la dichiarazione di guerra, ma non era ancora scattata alcuna avanzata di maggior rilievo. I rifornimenti, inoltre, erano in qualche modo ritardati. Esistevano sei linee ferroviarie per il Piave, ma soltanto due di esse oltrepassavano il confine austriaco, cosicché le unità operative di Cadorna disponevano soltanto di una linea ferroviaria per il trasporto delle munizioni e dei rifornimenti. Ciò nonostante, Cadorna rimaneva impassibile. Egli era stato raggiunto dal re, che voleva assistere all’imminente trionfo del suo esercito. Sebbene Vittorio Emanuele III fosse il capo nominale di tutte le forze armate italiane, egli giunse sull’Isonzo in qualità di spettatore: era Cadorna ad esercitare il controllo effettivo dell’esercito. Di bassa statura e dal portamento assai poco militaresco, Vittorio Emanuele era un comandante in capo improbabile e poco significativo. Però era un militare entusiasta; la storia militare costituiva il suo principale argomento di conversazione, ed egli aveva sempre preferito i militari ai civili. Fin dalla sua ascesa al trono, avvenuta nel 1900, il re aveva manifestato grande interesse per le questioni militari, e aveva dato il suo pieno appoggio, quando era giunto il momento, alla scelta di intervenire nella guerra, sostenendo che “l’Italia non venne unificata da Dante, ma dalle baionette”. Come del resto quasi tutti, egli era convinto della vittoria. Ironia della sorte, Vittorio Emanuele fu però anche l’unico a raccomandare un certo grado di cautela – o almeno di realismo – alle sue armate che marciavano verso la battaglia. Nel proclama del 27 maggio, il re dichiarò la sua fede nelle truppe, ma ammise che sconfiggere gli austriaci non sarebbe stato semplice come Cadorna e gli altri generali immaginavano: “Favoriti dal terreno e da un’attenta preparazione, essi resisteranno tenacemente, ma il vostro incontenibile impeto riuscirà sicuramente a sopraffarli”.
L’ottimistica valutazione espressa da Vittorio Emanuele riguardo alla battaglia che presto sarebbe iniziata nella valle dell’Isonzo, era probabilmente imputabile alle notizie poco gradite che giungevano dal fronte orientale. Nell’arco di tempo intercorso tra la firma del Trattato di Londra, il 26 aprile, e la dichiarazione ufficiale di guerra, il 23 maggio, le sorti del conflitto ad est volgevano decisamente a favore delle potenze centrali. Appena un giorno prima che l’Italia denunciasse la Triplice Alleanza, un’offensiva congiunta austro-tedesca era scattata in Galizia e nei Carpazi. L’attacco, condotto dall’11ª Armata tedesca, aveva l’obiettivo di alleggerire la pressione russa dalle forze austriache che si trovavano dislocate nei Carpazi. L’offensiva di Gorlice-Tarnów si rivelò un successo al di là di ogni possibile previsione. Una decina di divisioni di veterani tedeschi, che attaccavano su un fronte di nemmeno quindici miglia con il valido appoggio dell’artiglieria pesante, riuscirono ben presto ad avere il sopravvento sulla 3ª Armata russa; i difensori, disorganizzati, furono costretti ad una precipitosa ritirata. Entro la seconda settimana di maggio le divisioni austriache erano riuscite a penetrare oltre i Carpazi, mentre i russi andavano rapidamente ritirandosi verso est. All’inizio di giugno gli austriaci avevano riconquistato la fortezza di Przemyśl, e per la fine del mese quasi tutta la Galizia era nuovamente in mano asburgica. I russi subirono una sconfitta senza precedenti, perdendo la parte migliore di un milione di uomini. Il vantaggio che gli Alleati avevano acquisito nel corso dell’autunno precedente andò perduto: sul fronte orientale, la bilancia strategica pendeva ora decisamente a favore degli imperi centrali. Fatto molto importante, l’Austria, adesso, poteva tirare un po’ il fiato; l’esercito asburgico, inoltre, aveva evitato la disfatta. La prevista vittoria russa nei Carpazi ed il conseguente collasso austriaco – assunti che stavano alla base dell’entrata in guerra italiana – non si erano realizzati(5).
Grazie all’allontanamento della mortale minaccia russa nei Carpazi, l’Austria poteva ora concentrare più forze lungo l’esposto confine italiano. Conrad poteva quindi spostare le divisioni di riserva sull’Isonzo per respingere la prevista invasione italiana. Il 23 maggio, poche ore dopo la dichiarazione di guerra da parte dell’Italia, il capo di Stato Maggiore ordinò il trasferimento del XV e del XVI Corpo dal tranquillo fronte della Serbia all’Isonzo. Questi corpi (ciascuno composto da due o più divisioni di fanteria e di truppe di appoggio) contavano in tutto cinque divisioni con effettivi inferiori all’organico e quaranta battaglioni di truppe da montagna formate da veterani. L’esperienza e l’equipaggiamento che possedevano li rendevano adatti a difendere il settore alpino sulla sponda orientale dell’Isonzo. Le divisioni furono inviate in tutta fretta sul Litorale con i primi treni disponibili, in modo da raggiungere l’Isonzo prima che Cadorna sferrasse il suo poderoso assalto. Franz Conrad von Hötzendorf costituì inoltre una nuova Armata, la 5ª, con il compito di tenere la linea dell’Isonzo e controllare la difesa dell’intero Litorale, dal Tricorno a Pola.
Questa fu posta sotto il comando di un condottiero esperto, il generale Svetozar Boroević von Bojna, il cui nome sarebbe stato irrevocabilmente associato alla guerra sull’Isonzo. Il cinquattottenne Boroević era un combattente nato, figlio di una famiglia Grenzer serba della Croazia. I reggimenti Grenzer dell’esercito asburgico avevano difeso il confine meridionale dell’impero dagli ottomani dall’inizio del sedicesimo secolo. Fino al suo scioglimento avvenuto nel 1881, l’eccezionale Confine Militare, come era conosciuto, fornì agli Asburgo i suoi soldati più valorosi, selvaggi irregolari serbi e croati famosi per la loro fedeltà all’imperatore e per la loro brutalità nei confronti dei nemici. Tutti gli uomini delle regioni di confine erano chiamati a difendere la frontiera in caso di necessità. I guerrieri-contadini Grenzer persero il loro status eccezionale nel 1881, quando i reggimenti locali vennero assorbiti dall’esercito regolare. Ma il loro spirito sopravvisse tra i soldati della regione di frontiera, come Svetozar Boroević. Il generale discendeva dai Grenzer da entrambi i rami della famiglia, e suo padre aveva combattuto contro gli italiani nel 1859 e nel 1866. Egli era un serbo dell’aspra frontiera della Croazia, regione conosciuta più di recente con il nome di Krajina, ed aveva trascorso gran parte della sua vita al servizio di Francesco Giuseppe(6).
Boroević, come Cadorna, entrò nella scuola cadetti all’età di dieci anni, e conseguì risultati brillanti in tutte le altre scuole che frequentò. Egli servì come ufficiale subalterno nella fanteria, combattendo in diverse battaglie nel 1878, al tempo dell’occupazione della Bosnia, e fu decorato per il coraggio dimostrato nella presa di Sarajevo. Nel periodo immediatamente successivo frequentò la scuola di guerra, dove eccelse, ed in seguito entrò a far parte dell’élite dello Stato Maggiore. Da allora in poi ricoprì contemporaneamente incar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. INDICE
  5. Ringraziamenti dell’autore
  6. Introduzione
  7. Verso la guerra
  8. 1915
  9. 1916
  10. 1917
  11. 1918
  12. Epilogo
  13. Bibliografia