Un cartello che promette un belvedere panoramico sull’isola: OVERLOOK. È lui che ha proposto di fermarsi qua. Un parcheggio per almeno un centinaio di automobili, tutto vuoto al momento; la macchina di lei è l’unica in mezzo a due strisce dipinte sull’asfalto. Mattina. Sole. Cespugli e sterpaglia intorno al parcheggio vuoto; niente belvedere dunque, ma c’è un sentiero in mezzo alla sterpaglia, non c’è bisogno di fare tante discussioni: sarà quel sentiero a condurli al grande punto panoramico. Lei allora è tornata alla macchina. E lui resta lì ad aspettare; di tempo ne hanno. Un intero weekend. Lui se ne sta in piedi senza sapere a cosa sta pensando… A Berlino sono già le tre del pomeriggio… Di solito non ama aspettare. All’improvviso le è venuto in mente che per vedere l’Atlantico non ha certo bisogno della borsa. A lui sembra tutto piuttosto improbabile, ma dopo un po’ percepisce ogni cosa come un semplice dato della realtà : un fruscio nei cespugli, poi i pantaloni di lei (azzurro slavato ovviamente) e i suoi piedi sul sentiero, e dietro una quantità di rami e frasche i suoi capelli decisamente rossi. Ritornare alla macchina è servito: YOUR PIPE. E poi riparte, camminando davanti; si china qua e là fra i rami contorti, e anche lui si china in mezzo a quegli stessi rami, quando lei ha già ripreso a camminare dritta, sempre in mezzo alla sterpaglia. È una specie di sentiero, a tratti si fa fatica a distinguerlo, un sentiero inselvatichito. Prima è andato avanti lui: in quanto maschio, inesperto almeno quanto lei. Una volta una pozza paludosa, dove ha dovuto aiutarla, da allora è lei che fa strada. E lui lo preferisce. A lei fa piacere, lo dimostra quella sua andatura svelta e leggera. L’Atlantico non dev’essere troppo lontano. Su in alto un gabbiano isolato. Camminando riempie la pipa ed è pieno di meraviglia, ma non vuol sapere per cosa. In certi punti si sente un odore di fiori; chissà che cosa sta fiorendo; piante sconosciute. L’ha assicurata che non avrebbe avuto difficoltà a ritrovare la macchina, lei sembra fidarsi. Per accendere la pipa deve fare una breve sosta, c’è molto vento, ci vogliono cinque fiammiferi, e lei nel frattempo è andata avanti, tanto che per qualche istante non la vede più; per qualche istante gli sembra di essersi immaginato tutto o che sia un ricordo lontano: camminare insieme a una giovane donna. In realtà i sentieri o quelli che hanno l’aria di esserlo sono molti; per questo si è fermato: e adesso dove si va? La cartina che ha comprato ieri è rimasta in macchina; comunque in questa landa non servirebbe a granché. Camminano in direzione del sole. Non è un sentiero che favorisce la conversazione. Quando non è troppo folto si vede il paesaggio intorno: non del tutto sconosciuto, anche se in vita sua lui qua non c’è mai stato. Non è la Grecia; una vegetazione completamente diversa. Malgrado ciò pensa alla Grecia, ma poi anche a Sylt. Gli dà fastidio che ci siano sempre dei ricordi. Stanno camminando già da mezz’ora. Vogliono vedere l’Atlantico. Non hanno altro da fare; hanno tempo. E non è nemmeno la Bretagna, l’ultimo posto sul mare dov’è stato, l’anno scorso. La stessa brezza marina. Può darsi che porti la stessa camicia di allora, le stesse scarpe, tutto più vecchio di un anno. Sa dove si trovano:
MONTAUK
un nome indiano; designa la punta settentrionale di Long Island, a centodieci miglia da Manhattan, e potrebbe anche indicare la data:
11.5.1974
Non ci sono solamente rami che pendono sul sentiero e che costringono a chinarsi; di tanto in tanto si trovano rami secchi anche in terra, e lei allora ci salta sopra. È molto snella, ma non ossuta. Porta i jeans arrotolati fino ai polpacci; il sedere piccolo nei pantaloni attillati che indossa senza cintura, e nella tasca laterale tiene un pettine. Non è più alta né più bassa di lui, ma è leggera. I capelli, quando li porta sciolti, le arrivano ai fianchi; ora li tiene raccolti, una coda di cavallo rossa che camminando dondola qua e là . Poiché bisogna stare attenti al sentiero, sempre che lo si possa definire un sentiero, e poiché deve cercare di capire qual è la strada migliore per uscire da quell’intrico, scorge la figura di lei solo di tanto in tanto; la sua camicia chiara sotto il sole e anche i capelli sotto il sole che adesso sembrano più chiari. Spesso si tratta solo di valutare se sia il caso di proseguire o no; ecco, niente sentiero. Qualche volta lei fa un passo un po’ più deciso per finire su una pietra o sul ceppo di un albero; ha le gambe lunghe, ma la falcata finisce per risultare troppo lunga, tanto che il corpo riesce a salire solo a fatica. Farebbe così anche se fosse sola: lo scatto con la testa per gettarsi la coda di cavallo dietro le spalle. È sempre più dubbioso che riescano ad arrivare fino alla costa. Ma proseguono lo stesso. E poi, per qualche istante, sembra che lei cammini su una corda, un passo avanti all’altro come un’acrobata, col busto che, elastico, cerca e trova l’equilibrio. Nessuna traccia, ancora, delle dune; niente gabbiani in cielo. Una volta si ferma di colpo per arrotolare le maniche della camicia; qui, in questa conca, fa proprio caldo; niente vento di mare. Quando si ritrovano uno accanto all’altra come adesso: la strana presenza di loro due insieme. Si rende conto di avere le mani nelle tasche dei pantaloni, la pipa spenta in bocca. Il suo viso: non lo ha dimenticato, ma lei porta quei grandi occhiali da sole e gli occhi non si vedono. Le labbra di giorno sottili, spesso beffarde.
HOW DID I ENCOURAGE YOU?
la sua domanda, non ora, ma ieri durante il viaggio fin qua; a quanto pare lei è sorpresa, anche lui del resto, quando se lo ritrova accanto, come adesso.
WHEN DID I ENCOURAGE YOU?
Ha il volo prenotato per martedì.
All’inizio ho pensato che fosse la classica fotografa scatenata che in circostanze del genere ti accompagna e all’improvviso si abbassa per scattarti una foto, ti dice dove metterti e ogni volta, quando finalmente non ci fai più caso, fa un altro scatto, una, due, tre, quattro volte. Ma lei una macchina fotografica non ce l’ha. Si mette seduta in silenzio, non dà fastidio mentre l’uomo di un giornale da quattro soldi se ne sta lì per un’ora intera a domandare: HAVE YOU BEEN IN THIS COUNTRY BEFORE, ecc. Classica intervista sulla vita privata. ARE YOU MARRIED, WHERE IN EUROPE ARE YOU LIVING, DO YOU HAVE CHILDREN, ecc. Sono tutte cose che lei sa già , quella giovane donna. Una volta alza il telefono, proprio perché se lo trova lì accanto, e sbriga la questione al meglio; molte grazie. WHAT ARE YOU GOING TO WRITE NEXT, PLAY OR NOVEL OR ANOTHER DIARY? E io sono soddisfatto perché questa è sempre l’ultima domanda o al massimo la penultima. E al pubblico americano dichiaro: la vita è noiosa, faccio esperienze ormai solamente quando scrivo. In realtà non è affatto una battuta; ma l’uomo ride lo stesso. Lei invece no. Quando poco dopo le tengo il peloso giaccone biancastro, le chiedo di nuovo per gentilezza come si chiama. LYNN, dice lei, come se mi bastasse il nome di battesimo. I suoi lunghi capelli sciolti: un po’ scomodi per indossare quella giacca e io non riesco ad aiutarla, non è un compito per le mie mani. Un’altra domanda, l’ultima: DO YOU CONSIDER YOURSELF A DOOMED MAN? Dopo mi accorgo che lei ha lasciato lì le sue sigarette, e l’accendino. Ci resterà per due settimane, sotto la lampada, un accendino verde a buon mercato.
Ma che ci faccio qui?
Si può camminare senza cappotto; l’arrivo sotto la tormenta di neve, ma poco dopo è tornata la primavera… Il carcere femminile dietro l’angolo, un alto blocco di mattoni marroni che hanno abbattuto; adesso uno spiazzo sabbioso, circondato da una rete metallica, i piccioni che tubano nel recinto, ma possono volarci sopra in ogni istante. Per il resto sono cambiate poche cose da due anni a questa parte. Gli alberelli della Nona Strada, piantati a suo tempo, sono stecchiti e stentati come sempre; ma fioriscono. (Quanto è audace la clorofilla!) Al drugstore dove faccio colazione sempre lo stesso personale di servizio. I taxi gialli, i sacchetti neri della spazzatura tutti luccicanti sulla strada, la sirena dei veicoli rossi dei pompieri. In albergo hanno riconosciuto il vecchio cliente: DID YOU HAVE A GOOD TIME? Una stanza diversa rispetto a due anni fa, l’arredamento esattamente identico: il tavolinetto basso col piano di marmo sopra, su cui è possibile appoggiare i piedi, le piantane gialle, le coperte gialle, la moquette verde, un divano color liquame e piuttosto comodo, due poltrone dello stesso colore, il familiare fruscio dell’air conditioning, che però si può anche spegnere; in parte è possibile aprire le finestre a scorrimento, tirar su i telai marci, i vetri sono sempre sudici. Il davanzale basso di queste finestre; bisogna stare attenti quando si vuol guardare l’incrocio giù in strada; è solo nei sogni che si riesce a volare con le proprie forze.
MAY I INTRODUCE YOU
ma poi non riesco a sentire i nomi o li dimentico subito, me ne sto lì e rispondo, ma non sempre so a chi ho risposto. Perché si fa così? È necessario (dice la casa editrice), per via del libro –
LYNN
potrei chiamarla con un qualche pretesto di natura professionale. Una cena, magari; quando mi piace una donna, mi sembra subito di essere sfrontato.
HUDSON:
qualche grasso gabbiano sul molo, ritrovare la propria immagine nell’oleoso specchio dell’acqua. Un vaporetto malandato ancora bloccato all’ancora; catene con barbe di alghe. Un elicottero. C’è molto vento; l’acqua nera sciaguatta contro il molo, il legno già due anni fa era tutto marcio. Un grosso cargo bianco, che con ogni probabilità salperà domani, riposa placido e immobile, STATENDAM, una bandiera olandese al vento. Alle spalle la vecchia sopraelevata che adesso è in manutenzione. Il piccolo bar un po’ triste, dove giocano a biliardo, anche quello c’è ancora; BLUE RIBBON, l’insegna luminosa rossa come aranciata nel crepuscolo. Verso occidente si annuncia un tramonto un po’ viscido: davanti, un lungo cargo nero. Qualche persona sul molo, fannulloni come me. Un giovane nero in bicicletta procede a zigzag. Una coppia, seduta abbracciata sulla punta più estrema, che sembra una silhouette. Un vecchio col cane. Un altro cane, senza padrone. Le lunghe gomene di canapa. Una lattina di birra che comincia a rotolare nel vento.
AMERICAN ACADEMY OF ARTS AND LETTERS:
mi alzo in piedi e ringrazio.
MUSEUM OF MODERN ART:
ho deciso di marinare l’arte e me ne sto seduto nel giardino interno per tutta la mattinata. Può darsi che l’arte non mi interessi, quando sono da solo. Mi fa piacere starmene qua seduto sotto i pochi alberi. Vengo a sedermi in questo giardino (Moore, Picasso, Calder, ecc.) da vent’anni e più:
1951
1956
1963
1970
1971
1972
Camminando ancora una volta la sensazione che il corpo si sia fatto più leggero, leggerissimo, come se la forza di gravità fosse diminuita a furia di camminare; tutto quello di cui mi rendo conto sembra anche attuabile, devo solo evitare di dirlo, ma farlo piuttosto.
CENTRAL PARK:
una persona che ne sa mi ha confidato che i celebri scoiattoli in realtà non sono affatto scoiattoli, ma topi d’albero. Un tempo qui c’erano ancora scoiattoli. I topi d’albero non sono rossastri come gli scoiattoli, eppure non meno graziosi. Si può stare a guardarli da vicino per minuti interi, tanto sono docili i topi d’albero. La differenza con gli scoiattoli consiste soprattutto nel fatto che loro gli scoiattoli li ammazzano.
WHITE HORSE:
lo scrittore ha paura dei sentimenti che non sono adatti alla pubblicazione; e poi aspetta sempre che scatti l’ironia; le percezioni vanno sempre subordinate alla domanda se sono degne di essere descritte, e lui fa fatica a vivere cose che non riuscirà in alcun modo a tradurre in parole. Questa malattia professionale dello scrittore trasforma molti di loro in alcolizzati.
SANITATION:
continuo a svegliarmi troppo presto. Prima che la giornata abbia inizio, portano i loro cani e cagnolini per le strade, reggono il guinzaglio mentre gli animali pisciano o cagano. Un’ora per i cani al mattino, un’ora per i cani alla sera. Bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi. Sono affezionati ai loro cani e cagnolini, si vede che hanno bisogno d’amore, le persone da queste parti, si lasciano trascinare da un punto all’altro dove gli animali marcano il territorio con i loro odori, e aspettano senza impazienza, anche quando piove. Solo di fronte al semaforo rosso non si fanno trascinare al guinzaglio e si oppongono fin quando il semaforo non torna verde. Un quartiere pieno di merda. Alcuni possiedono più di un cane. Un quartiere pieno di bisogno d’amore. Il furgone bianco con le spazzole rotanti non riesce ad acchiappare tutto; restano sempre dei rimasugli.
LONG DISTANCE:
Una donna che piange al telefono mi rende inerme, completamente inerme; l’impossibilità di afferrarle il polso – che poi tanto non cambierebbe nulla.
FIFTH AVENUE HOTEL:
La moquette di giorno (senza la luce delle lampade gialle) sembra più blu che verde. In quest’istante ci batte il sole, un riquadro sghembo, ma l’aria sulle gambe è fredda. Mi sono messo a leggere e a pensare a cosa sto leggendo: all’improvviso la memoria della pelle: PRIMAVERA, ECCOTI ARRIVATA! proprio con il sole su questa moquette che conosco; una volta l’ho baciata. ECCO, TI HO SENTITA! All’improvviso non c’è lettura (FICTION) che riesca a tener testa alla memoria della pelle; è soprattutto per via del freddo intorno alle gambe, al di sopra dei calzini; niente uccelli che cantano attraverso la finestra aperta, ma il rumore del traffico della metropoli, un rumore molto preciso: gli autobus che ripartono quando scatta il verde all’angolo FIFTH AVENUE/9TH STREET. Torno ad appoggiare i piedi con le scarpe sul tavolinetto e mangio le noci direttamente dal cavo della mano.
MY GREATEST FEAR: REPETITION
Una studentessa americana di Yale non pone le tipiche domande della critica accademica; domanda: Ma Stiller vuole davvero che Julika venga salvata o gli interessa in primo luogo essere lui il salvatore?
WASHINGTON SQUARE
i giocatori di scacchi ai tavolini di pietra con la scacchiera a prova di intemperie, sopra di loro il verde e il cinguettio degli uccelli. Spesso me ne resto lì a lungo, sempre in piedi; non mi siedo mai. Oggi uno, un nero, mi ha chiesto se avevo voglia di fare una partita. Non un giocatore particolarmente bravo, come avevo visto prima, e tuttavia io non mi arrischio. Non posso permettermi sconfitte? Oppure vittorie? perché tanto non servono a nulla; anzi, dopo si finisce per sentire ancor di più la consapevolezza del proprio fallimento domestico –
COMMERCE STREET 15
non vorrei più abitare in nessun appartamento dove sono stato, nemmeno in questa casa così graziosa. Una stanza su ogni piano. Nel seminterrato la cucina perfetta e un tavolo da pranzo dove ci si sente come dentro la cabina di una nave, anche di giorno con la luce accesa; attraverso le finestrelle non si vede la schiuma del mare ma la neve sul marciapiede, le gambe dei passanti nella neve e nel fango, le zampe più leste dei cani. Lassù all’ultimo piano, dove cercavo di lavorare, si sente tremare più di tutto; il rombo dei camion pesanti con i rimorchi pesanti comincia molto prima dell’alba e quando tace è perché devono aspettare un minuto al semaforo, ed ecco che allora si sente l’altro rombo, quello della subway. E tuttavia ho la sensazione che in quella casa ci sia silenzio; un silenzio come se fossi sordo. Il lieve ronzio del frigorifero, i propri passi, il fruscio quando sfoglio il giornale. Sento quando la posta cade dentro la fessura della porta, quando la chiave viene infilata dentro la toppa della porta di casa e girata. Ero sordo? Sento che cosa mi viene detto, e ci credo. Ho sentito anche un disco con il vero mormorio del mare (per non sentire il rumore della strada); un regalo gentile –
Abbiamo sentito come legge Neruda.
VIA MARGUTTA:
è l’aria calda che fa quest’effetto, la luce: all’improvviso mi ritrovo a Roma. Solo lo sfondo architettonico non torna, me ne accorgo. Non ho idea di che cosa farei a Roma; è solo che mi ritrovo a Roma per un po’ –
GOETHE HOUSE:
un uomo arrivato potrebbe avere l’aspetto di un tricheco,...