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Matteo va alla guerra
La mafia e le stragi del '92. Come tutto ha inizio
- Italian
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Informazioni su questo libro
È tutto vero. È tutto rimasto finora nell'ombra. 1992: la mafia attacca il cuore dello Stato. 2022: trent'anni dopo, una ricostruzione inedita su quelle terribili stragi. Perché quella che fu una vera e propria guerra allo Stato è stata ideata con il contributo di una mafia segreta e intoccabile. Non solo: la strategia stragista di Cosa nostra servì al giovane boss Matteo Messina Denaro per attuare un ricambio generazionale e prendere il comando dell'organizzazione, facendo compiere un salto di qualità alla mafia e trasformandola in maniera profonda, con conseguenze che riusciamo a capire solo oggi.
Non è la biografia di Riina o Messina Denaro, né un libro di storia, non si parla di depistaggi, di trattative. Questo libro individua un preciso periodo, i primi anni Novanta, un preciso luogo, la Sicilia occidentale, e lì scava in profondità per raccontare ? per la prima volta ? il punto cieco in cui nasce una delle pagine più nere di un passato sempre presente.
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Informazioni
Una missione elegante
E quindi partimmo per Roma. Matteo, che pensava a tutto, come sempre, ci diede un consiglio, prima di fare le valigie: «Abbigliamento adeguato». La cosa ci mise un po’ d’ansia. Come dice un vecchio adagio, puoi portare una persona fuori da un luogo, ma non un luogo fuori da una persona. Che avrà in testa il capo – pensammo – noi che siamo bravi solo a sparare, a strangolare, a prendere a lignate; non sono cose che si fanno con il vestito buono della domenica, né con le scarpe marroni: fai uno e basta, finisce lì, anche perché quasi mai è una cosa pulita, e poi i vestiti o sono sporchi di lanzo o di piscio – perché la gente, voi non lo sapete, ma quando la strozzi mica tira l’anima via in un colpo e amen! Quello si muove, si contorce, grida, vucia, e poi se la fa sotto perché, ricordatelo, è intessuto di merda l’animo degli uomini: quella esce, dopo l’ultimo rantolo. Non l’anima, non il vapore, non la voce degli angeli, ma, semplicemente, merda – oppure se dai fuoco a un’auto, o a una casa, e aspetti che la vampa si accenda e salga – e, cari miei, dipende come tira il vento – i vestiti si impuzzano, che il giorno dopo li puoi andare a buttare. Però Roma è Roma, ci siamo detti, e capace che nelle città grandi gli omicidi si fanno in abito da sera. Ma in realtà il nostro Matteo aveva un piano – ha avuto sempre un piano – ed era quello di farci fare la bella vita a Roma. Ecco perché ci voleva eleganti. Perché si andava nei bei locali la sera, e in bei negozi a fare shopping, nelle belle vie a passeggiare e a fare girare la testa alle ragazze; ma solo quello, perché avevamo una missione – elegante, sì, ma pur sempre una missione – tra gli sciacalli e le iene, gli uomini di potere, molti dei quali divenuti tali grazie a noi, che affondavano voraci i loro denti nella carne putrida di quella che chiamavano cosa pubblica.
E c’era anche il nostro amico Francesco Geraci nella banda dei gitanti, il gioielliere, quello che una volta Matteo aveva aiutato per una vicenda di un’estorsione, e da allora gli era rimasto legato e aveva cominciato anche lui a partecipare agli omicidi, alla guerra, alle gite fuori porta. Ed era stato utile alla causa. Un giorno il signor Riina in persona lo aveva chiamato, e gli aveva detto: so che sei bravo picciotto, e amico di Matteo, e che hai una gioielleria; io ho un po’ di cose da conservare, non è che hai una cassetta di sicurezza, qualcosa per me? E lui gli aveva addirittura fatto costruire, sotto la sua gioielleria, un piccolo caveau, con tanto di ascensore, dove i Riina avevano messo di tutto: i collier della signora Bagarella, gli orecchini di Lucia, gli orologi Cartier, e pure delle spille di Italia ‘90 tempestate di diamanti, e Geraci ci aveva confidato che, a occhio e croce, tutto questo bendidio valeva tipo due miliardi di lire.
E un pomeriggio Matteo lo va a trovare e gli racconta del progetto degli attentati ai personaggi famosi. Baudo, Costanzo, Martelli, Santoro, gli dice, in preciso ordine alfabetico, per non fare disparità. E se capita, anche Enzo. Biagi, aggiunge. «E per fare cosa?» gli chiede il gioielliere. E Matteo: «Dobbiamo creare scompiglio, caos, destabilizzare». Francesco sta in silenzio e poi gli dice: «Buono è».
Geraci in effetti ci serviva per tantissime cose, ci completava. Anche questa, se ci pensate, è stata un’idea geniale di Matteo: non portarti, per una missione delicata, un tuo simile, un clone, uno che obbedisce e basta. Portati uno che sa cose che tu non sai, che aggiunge esperienza, know-how, come si direbbe nei corsi moderni dove si parla tutto in inglese. E in effetti ancora prima di partire Geraci ci disse: «Picciotti, io ce l’ho un posto dove possiamo andare a comprare roba buona per il viaggio». E il posto era Alongi, in centro a Palermo. Alta moda, roba fina. Solo lui spese circa 12 milioni di lire, roba da sticchio e quasette di seta. Oggi al posto di Alongi c’è un negozio che vende i mattoncini per le costruzioni, che costano quanto un abito da sera. Segno dei tempi, certo.
A dimostrazione che il signor Riina non era leader per caso, accadde anche un’altra cosa, quando ci fu quell’ultima riunione prima di partire per Roma. Eravamo a casa di Salvatore Biondino, e aspettavamo Mariano Agate, il boss di Mazara, perché lui ci doveva dare le chiavi dell’appartamento di Roma dove dovevamo stare. Quando arrivò, Riina, dopo i soliti convenevoli, gli disse di consegnare le chiavi a Sinacori. Agate tergiversava; un po’ lo faceva perché voleva fare capire che il capo in provincia di Trapani era ancora lui, e quindi se la tirava, faceva un po’ di pumata. Tant’è che rispose tipo: ora, ora, prima vediamo la cosa, poi che fa, non ci vediamo più? Ci sedemmo a tavola a mangiare, e alla tv, al telegiornale, passò una notizia che ci turbò un poco. Un altro colpo del dottore Falcone, che era riuscito a far fare al ministro della Giustizia, Martelli, un decreto legge per fare arrestare di nuovo gli imputati del Maxiprocesso che, in attesa della sentenza della Cassazione, erano stati scarcerati grazie ai loro avvocati. E tra quelli usciti da poco c’era proprio Mariano Agate.
«Meglio che non torni a casa, Marià – gli disse Riina – Capace che domani ti arrestano».
«Io, Totò? A mmia chi m’hanno a fare… Io ho quasi tutta scontata già la pena… che mi devono fare?».
Riina continuò a mangiare. Agate cominciò a raccontare, come faceva spesso, gli episodi della sua gioventù mafiosa, di tutte le volte che dovevano arrestarlo, ma che per cortesia glielo facevano sapere prima, così lui poteva scappare; anche se c’era stata una volta che non erano riusciti ad avvisarlo in tempo ed era dovuto scappare sui tetti della palazzina a Mazara, lo avevano beccato e gli avevano anche fatto scendere le scale a calci in culo, i carabinieri. A un certo punto Riina sospese la masticazione. Si fermò. Inghiottì. Interruppe l’amico. E disse: «È meglio che le chiavi dell’appartamento di Roma le dai subito ai picciotti. Dato che ce l’hai qua, lasciagliele ora…».
«Ma non dovevamo rivederci?».
«No, meglio ora».
E così fu.
La sera, Mariano Agate tornò a Mazara.
Il giorno dopo, lo arrestarono. E qualcuno, anche lì, disse tempo dopo una cosa che tanto campata in aria non è: Agate lo sapeva che lo dovevano arrestare, e lo fece apposta a farsi prendere, perché così sarebbe stato in cella quella primavera, e, con il maltempo che si stava cunzando, magari nessuno lo avrebbe accusato di tutto quello che volevamo combinare, e avrebbe potuto dire: io non c’ero, e se c’ero, ero in carcere…
E poi Riina e Matteo avevano pensato anche alle alleanze interregionali, perché si giocava fuori casa, e noi avevamo bisogno il più possibile di aiuto. È per questo che avevamo fatto arrivare in Sicilia due napoletani: Ciro Nuvoletta e uno che si chiamava Maurizio. Erano della famiglia della zona di Marano, e con noi erano in ottimi rapporti. Li abbiamo ospitati al Jolly Hotel, poi siamo andati a prenderli, e li abbiamo portati a Bellolampo, vicino Palermo, per una riunione operativa. Anche loro sarebbero stati della partita, mantenendosi come disse Riina «a nostra disposizione per ogni occasione». Cioè? «Se avete bisogno per qualcuno… potete anche chiamare i napoletani per spararci. Perché, essendo di Napoli, sono più pratici delle zone…».
Matteo sorrideva dell’ingenuità di Riina che, come tutti gli anziani siciliani, era convinto che la Sicilia fosse fatta di mille continenti (vero) e che il resto del mondo fosse una specie di unica penisola dove tutto era condensato, e perciò un napoletano, per Riina, era come un romano di periferia. Ma nessuno, come in altre occasioni, fece delle obiezioni a quel cristiano per correggerlo, e per dire che magari napoletani e siciliani a Roma, insieme, sarebbero stati molto riconoscibili, per una missione che invece doveva essere coperta dalla più assoluta segretezza. E il motivo per cui non lo avevamo contraddetto era per il fatto che, potevano essere napoletani, potevano essere emiliani, venire da Nuova York come da Carrapipi, ma quei nostri alleati erano innanzitutto uomini d’onore, e come tali avrebbero dato la vita per noi, così come noi avremmo dato la nostra per salvarli e aiutarli.
E partimmo dunque per Roma, il 24 febbraio del 1992. In quel giorno, pensate, nasce in Italia la Protezione Civile. E noi ci sentivamo un po’ la Protezione Civile di Cosa nostra, corpi scelti per accorrere dopo un cataclisma, ma con idee più originali del piantare baracche e tende e si salvi chi può.
A Roma non andavamo totalmente impreparati, perché qualche mese prima, in gran segreto, in estate, erano venuti a Roma Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella per seguire i movimenti del dottore Falcone e per capire se si poteva fare qualcosa. Per Bagarella era anche facile, dato che aveva il soggiorno obbligato proprio in provincia di Roma, a Monterotondo. E avevano scoperto dove il dottore mangiava solitamente la sera e che ogni tanto si faceva qualche passiata da solo, senza scorta. Poi Brusca era tornato, e aveva cominciato a fare altri sopralluoghi: ad esempio per capire a che velocità viaggiava l’auto del dottore Falcone in autostrada, quando dall’aeroporto doveva andare a casa sua a Palermo, in Via Notarbartolo. E un’altra squadra ancora, guidata da Raffaele Ganci e Salvatore Cangemi, stava invece studiando la possibilità di un attentato proprio sotto casa a Palermo, magari con un’autobomba.
Partimmo ognuno con un mezzo diverso, piccoli accorgimenti per non dare nell’occhio. Che poi noi abbiamo sempre contato, oltre che sulla nostra organizzazione, anche sulla pigrizia di chi avrebbe dovuto controllarci. Ma si guardava dappertutto, tranne che in provincia di Trapani. E così Sinacori partì con l’aereo, e il biglietto lo fece un po’ storpiato: Vincenzo Rinacori, con la erre. Tanto bastava. Matteo, invece, al quale sarebbe bastata come lasciapassare la sua stessa faccia, aveva una carta di identità falsa, a nome Matteo Messina, e sì, si era sprecato anche lui a fantasia, ma ve lo diciamo davvero: nessuno si interessava a noi; era quasi per prendere per il culo tutti che cambiavamo iniziali e consonanti, quasi fosse La pagina della Sfinge della Settimana Enigmistica.
Matteo, tra l’altro, venne in auto con Geraci. Altri ancora in treno. Ogni volta che partiva per il continente, Matteo rifletteva sempre su questo fatto, e cioè che il traghetto che faceva la spola tra la sponda siciliana e quella calabrese si chiamava Caronte. E si chiedeva se quel nome, di quel traghettatore infernale, lo avessero messo apposta o no. E man mano che il traghetto si allontanava dalla Sicilia, lui percepiva come un sipario leggero che si alzava, un fiato di estraneità. L’isola da una parte, e poi il resto del mondo. Anche se all’inizio era soltanto Calabria.
Dunque, c’erano Vincenzo Sinacori e Renzo Tinnirello, detto ’u Turchiceddu, perché era scuro scuro di carnagione e sembrava proprio un turco, e poi Giuseppe Graviano e Fifetto Cannella, che tutti chiamavamo Castagna, perché preciso al presentatore televisivo.
Dei Graviano vi abbiamo parlato? I fratelli Graviano erano i campi mandamento di Brancaccio, su decisione del signor Riina. Prima aveva messo a capo Benedetto, il fratello più grande. Poi, siccome non lo vedeva sveglio, gli aveva affiancato Filippo e Giuseppe. Prima ancora il mandamento era a Ciaculli, poi c’erano stati degli arresti, e il signor Riina aveva detto: questi di Ciaculli sono quelli che ci hanno portato sempre danno a Cosa nostra…
Addirittura qualcuno lo avevo sentito dire che ci voleva portare un trattore, che voleva portare il paese tutto a suolo, diciamo. E quindi poi appunto aveva deciso così: questo mandamento non si chiama più Ciaculli, si deve chiamare Brancaccio.
Giuseppe Graviano era legatissimo a Matteo Messina Denaro. E lo avevamo capito da alcune cose. Come quella volta che Matteo gli fa al nostro amico gioielliere, Geraci: «Mi devi trovare una collana per un regalo importante, una cosa che vale almeno cento milioni di lire». «Ma è per te, Matteo?». «No, per un amico. Ma i soldi te li do io». Ed era vero. La collana non era per lui, ma per Giuseppe Graviano, che la doveva regalare alla sua zita e aveva chiesto la cortesia a Matteo di vedere un po’ lui, tramite le sue conoscenze. Geraci trovò la collana e gli fece pure lo sconto: 50 milioni. Pagava Matteo. Graviano fece un figurone. E quando andò da Matteo per dargli i soldi che aveva anticipato, quello non ne volle sapere: «Ma stai scherzando? Noi...
Indice dei contenuti
- Giacomo Di Girolamo
- Voi non sapete
- La roccia
- Senza punciute
- La creatura
- Era una gioia appiccare il fuoco
- La morte quando vuole uccidere
- Non solo ammazzatine
- Eravamo i biografi di Falcone
- Si cunza il maltempo
- Nomi, cose, città
- Non era la prima volta
- Falange Armata
- Le armi
- La riunione del Natale ‘91
- Un gelo improvviso nella stanza
- Il numero 80
- La Commissione
- Lo stretto necessario
- Una missione elegante
- Non è stato un espediente
- Si apre la masculiata
- Lo avevamo fatto davvero
- Giorni sospesi
- A proposito dei preparativi
- Frammenti
- Qui ci vuole un altro colpetto
- La fretta di Borsellino
- Uccidere Borsellino
- Lesa maestà
- La mamma e la mamma
- Trattative
- Frammenti
- Cinquantasei giorni in Italia
- Senza lasciare impronte
- L’incantesimo
- Al tramonto
- Aggiustatine
- La spina
- La riunione del gennaio ‘93
- Carduna
- Riprendere il discorso
- Farsi schifiare
- Ampliare il raggio d’azione
- La guerra fuori
- Cartoline dalla periferia dell’impero
- Meritiamo rispetto
- Spillover
- Dopo
- P.S.
- Finale
- Nota dell’autore
- Le storie