Washington, DC
Il consigliere per la sicurezza nazionale Winfield “Duke” Cage fece un cenno con la testa ai due agenti del servizio segreto che fiancheggiavano l’ingresso alla Situation Room della Casa Bianca e si aggiustò la cravatta, che portava così di rado da dargli una sensazione di strangolamento.
L’ultima volta che aveva oltrepassato quella soglia, era stato per presentare le dimissioni da presidente dei capi dello Stato maggiore congiunto, buttando così alle ortiche vent’anni di carriera.
Aveva giurato di non rimetterci più piede. Ma il presidente era cambiato e, sebbene fossero passati solo otto mesi, Cage era un uomo diverso, per non parlare del fatto che era stato nominato consigliere per la sicurezza nazionale.
La stanza era più piccola di come la ricordasse, ma decisamente familiare. Il legno lucido dell’enorme tavolo brillava sotto le luci e si rifletteva negli schermi piatti fissati alle pareti. Il tappeto azzurro e grigio non aveva un granello di polvere e si sposava alla perfezione con le tinte neutre delle pareti e delle sedie di cuoio nero disposte intorno al perimetro della stanza.
Il suo sguardo indugiò sui visi dei personaggi più potenti di Washington, gli uomini che avevano il compito di guidare il nuovo presidente, e Cage si chiese se sarebbe riuscito a trovare la forza per un’ultima battaglia.
Il suo aiutante, Jacob Simmons, si fece strada nella ressa degli astanti e porse a Cage il rapporto quotidiano dell’intelligence dicendo: — C’è un problema. Dobbiamo parlare.
Con il suo metro e novantacinque, Cage aveva un fisico da giocatore di football professionista e torreggiava sul suo basso e tarchiato aiutante. I due facevano gruppo dai tempi di West Point, e più di una volta il loro rapporto era stato messo alla prova nel calderone della battaglia. Simmons era il solo uomo sulla terra di cui Cage si fidasse e, nel corso del suo breve esilio, era stato l’unico che gli aveva protetto le spalle. Inoltre era tra i più capaci agenti dell’intelligence che conoscesse.
— Non adesso — rispose Cage, osservando con la coda dell’occhio il segretario della Difesa farsi strada verso di lui.
— Duke, abbiamo un problema grave — sibilò.
— Gestiscilo…
— Cage — esclamò il segretario della Difesa Collins, distogliendo la sua attenzione dall’aiutante.
— Signor segretario — rispose lui formalmente.
— Il presidente mi ha sorpreso quando mi ha detto che aveva nominato lei — esordì condiscendente.
— Mai quanto me — replicò Cage, prendendo la mano tesa del segretario e stringendola con decisione.
Sapeva che Collins si era battuto strenuamente perché lui restasse fuori dal gabinetto del presidente e, anche se Collins non aveva le palle per dirlo chiaramente, stava già lavorando per buttarlo fuori dal Campidoglio. Ma non era la prima volta che qualcuno voleva il suo scalpo, e Cage era già un passo avanti.
Il suo asso nella manica stava nel fatto che non aveva bisogno della conferma del Congresso e quindi poteva essere licenziato soltanto dal presidente. Finché lui era contento del suo operato, Cage poteva andare avanti. Il segretario della Difesa gli strinse la mano fissandolo negli occhi con sguardo indagatore. Lo stava già sfidando, e la giornata non era ancora cominciata.
Nel periodo trascorso nei Berretti verdi, Cage aveva imparato che era importante affermare il dominio sul branco il più presto possibile, e in quel momento lo fece stritolando la mano appiccicaticcia del suo avversario fino a quando sentì che le sue ossa sottili da uccellino cominciavano a comprimersi una contro l’altra. Poi lo tirò a sé, come per abbracciarlo, e disse: — Attento, amico.
In quel momento il presidente entrò nella stanza, circondato dai suoi aiuti e dal capo dello staff. Cage allentò la stretta ferrea e fece un passo indietro, mentre il leader del mondo libero lo guardava con un largo sorriso.
Il presidente John Bradley era magro e in forma: esibiva un’intensa abbronzatura e somigliava parecchio a Robert Redford. Il pubblico americano era rimasto incantato dalla sua esuberanza giovanile e dallo sguardo sicuro, e l’aveva eletto con una maggioranza schiacciante. Avanzando, il presidente cominciò a esercitare il suo fascino sui presenti. Attirava le persone a sé come una fiamma le falene, e il segretario Collins, come chiunque altro, non riusciva a resistergli. Con un ultimo sguardo, Collins volse le spalle a Cage e si affrettò verso l’uomo più potente del mondo.
— Che diavolo era? — mormorò Simmons, avvicinandosi. — Pensavo dovessimo tenere un profilo basso.
— Non preoccuparti per lui. Segui il piano e non saprà nemmeno cosa gli è successo.
— Senti, dobbiamo assolutamente parlare. Sta succedendo qualcosa a Konna.
Cage vide che il presidente stava andando verso di lui e, senza una parola, gli andò incontro facendo cenno al suo aiuto che avrebbero parlato più tardi. A dispetto della calma apparente, voleva soltanto un momento per scoprire cosa stesse succedendo. Purtroppo, non poteva essere quello.
— Duke — disse il presidente, porgendogli la mano con il famoso sorriso che lo aveva fatto eleggere.
Il presidente era una delle poche persone a cui permetteva di chiamarlo “Duke”. Poteva sembrare un particolare da poco, ma quel soprannome era riservato a chi era rimasto ferito accanto a lui in battaglia, e lo custodiva gelosamente. Cage permetteva all’inquilino della Casa Bianca di usare quel soprannome perché aveva combattuto con il padre di Bradley, e sapeva che non era buona educazione correggere il presidente degli Stati Uniti.
— Signor presidente — rispose, prendendogli la mano e stringendola con calore.
— Non so dirle quanto sono felice che lei abbia acconsentito ad aiutarmi.
— Sa, signor presidente, immaginavo che non avrebbe accettato un “no” come risposta.
Il presidente Bradley aveva ingenuamente promesso al popolo americano di mettere fine alla guerra in Medio Oriente e al contempo salvare l’onore del paese, ma aveva bisogno dell’aiuto di Cage per mantenere la parola.
— Sono entusiasta di averla nella mia squadra — disse fissando Cage negli occhi. — Abbiamo parecchio lavoro da fare.
Cage annuì, mentre il capo dello staff si chinava dicendogli: — Signor presidente, abbiamo tempi stretti.
Bradley fece l’occhiolino e, lasciando la mano di Cage, si voltò per tornare al suo posto a capo del tavolo.
Marrakech, Marocco
Mason Kane controllò l’orologio cercando di non grattarsi le suture sull’avambraccio. La fila diritta di righe nere sembrava un centopiedi senza peli che strisciava verso il suo gomito, ma la cosa peggiore era che prudeva da morire.
Era un uomo ricercato, ripudiato dal proprio paese, l’unico americano a essersi conquistato l’ordine di sparargli a vista.
Mason conosceva il Medio Oriente meglio di qualsiasi altro occidentale, ma stava esaurendo i luoghi dove nascondersi. Il giorno precedente, un uomo che non vedeva da anni aveva cercato di ucciderlo a Konna, e Mason era arrivato a Marrakech in cerca di risposte.
Il tempo passava e, con tutte le agenzie di intelligence del Medio Oriente che gli davano la caccia, le suture irritate non erano certo una priorità.
I berberi avevano chiamato quella città Mur Akush, o “terra di Dio” e, guardandola da lontano, quel nome aveva senso, ma nel profondo della medina, dove Mason stava aspettando in quel momento, non vedeva alcun segno evidente che Dio fosse mai passato di lì.
Zeus, uno dei pochi alleati che gli erano rimasti, lo aveva avvertito di lasciar “decantare” la situazione prima di recarsi a Marrakech, ma Mason era stufo di correre e sapeva che il gioco era cambiato.
Decklin poteva averlo individuato in un solo modo: qualcuno aveva parlato, e i costi esorbitanti di un’operazione organizzata in tutta fretta a Konna indicavano senza dubbio che c’erano di mezzo persone dalle ingenti disponibilità finanziarie.
Solitamente gli unici motivi per uccidere un uomo sono l’odio o l’avidità, e Mason non ci aveva messo molto a capire chi stava cercando di farlo fuori. Doveva essere collegato a Barnes, ma continuava a non capire come mai il colonnello fosse improvvisamente così ansioso di piazzargli una pallottola in testa.
Lo aveva conosciuto nel 2006, quando ormai era ovvio che l’America stava perdendo la guerra in Iraq. Il presidente voleva una vittoria, e spettava al dipartimento della Difesa offrirgliela. La risposta era stata il programma Anvil, un vecchio progetto uscito dal cilindro della CIA.
In Vietnam si chiamava programma Phoenix, e aveva utilizzato i Berretti verdi e il SOG, il Gruppo operazioni speciali della CIA, per condurre una guerra asimmetrica contro i ribelli al di fuori dei limiti militari legali. In Medio Oriente, alla CIA serviva solo l’uomo giusto sul posto, e in quel momento era entrato in gioco Barnes.
All’epoca dell’incarico, Barnes era un colonnello di fresca nomina, e gli ordini erano stati semplici: addestra una squadra a combattere come il nemico, poi scatenala contro i ribelli; dimentica le regole di ingaggio, dimentica i media, e comincia a impilare cadaveri. E loro avevano fatto esattamente questo.
Barnes aveva avuto libertà di scegliere chiunque da qualsiasi unità per raggiungere l’obiettivo, e trovare gli uomini giusti era di estrema importanza. Aveva preso tutti i dossier degli operatori di Delta, Navy SEAL e Berretti verdi sui cui era riuscito a mettere le mani e, quando aveva trovato Mason Kane, aveva capito di essersi imbattuto in un soggetto nato per questo genere di missioni.
Mason era orgoglioso di essere un soldato. Veniva dal nulla, un mezzosangue cresciuto per strada, circondato da magnaccia e spacciatori. All’esercito però non interessava che sua madre fosse un’alcolizzata o che suo padre lo avesse abbandonato per poi farsi saltare le cervella con un fucile di Walmart da due soldi: voleva solo sapere se faceva bene il suo lavoro, e Mason era stato uno dei migliori. Da qualche parte c’era uno scatolone pieno di onorificenze, tutte accompagnate da papiri “per il servizio altruistico e il coraggio sotto il fuoco”, ma a Mason non interessavano.
Quando il colonnello lo aveva trovato, Mason stava mettendo a frutto le sue particolari abilità nel condurre operazioni sotto massima copertura in Iraq. La capacità di mescolarsi con la popolazione civile e la padronanza dell’arabo ne facevano una pedina preziosa del JSOC, il Comando congiunto delle operazioni speciali, sul territorio. Era tutto quello che serviva al colonnello, e anche di più.
Come gli altri membri della squadr...